venerdì 18 gennaio 2013

(Centro) chiamata futuro. Occupato


L’orologio sembra sempre più lontano. Quasi non riesco a metterlo a fuoco. Una telefonata e un’occhiata all’orologio. Il tempo non passerà mai. È solo il primo giorno di prova ma tutto sembra vecchio, superato. “Buongiorno sono…, la chiamo…”. Il lavoro è per una nota compagnia di telecomunicazioni. La migliore nel campo, come tento di far capire a tutti quelle a cui telefono. L’odore della fregatura è troppo forte e tutti rispondono che non gliene importa nulla di sapere quali sono le nuove offerte. Come dargli torto?

Mi guardo intorno: non sono sola. Ci sono altre persone sedute accanto a me e tutti i miei titoli di studio. Il call center mi sembra ancora una cosa lontana nonostante io stia già facendo le telefonate. Sono proprio lì. Le teorie sull’alienazione che creano le cuffie e le telefonate a ripetizione si sprecano. Ci hanno scritto tutti. Ci provo anche io. In fondo è questa la vita, punti di vista e io non vedo che con i miei occhi. Partono le telefonate. Nessun appuntamento fissato. Risultato? Zero euro. Alcuni mi invitano ad andare a quel paese, mi dicono che sono iscritti al registro delle opposizioni e minacciano di denunciare la compagnia. Sapessero quanto mi importa. Mi scuso. Vado avanti.

Metto un nome a caso sulle pagine gialle. Appaiono una miriade di attività commerciali. Tra i primi a rispondere c’è un ragazzone. Sì, perché dalla voce lo immagino grande, alto e grosso. È simpatico e non perde occasione per provarci. Anche lui immagina e scherza: “me dispiace per te che stai a lavorà – mi dice - ma er consulente nun lo voglio. Al massimo, se vieni te accetto. Anzi se voi te vengo proprio a pià e uscimo”. Rido. Mi diverto e per questo ringrazio. Riattacco.

Antonio è il nostro “carceriere”. Capelli scuri. Bassino, magro. Si occupa di coordinare il lavoro dei nuovi schiavi. Giulia che studia architettura ed è arrivata con me, occhi azzurri e pieni di luce. Piccolina. Michela, che si laurea a breve e Alessandra, un’esplosione di battute. Penso che mi piacerebbe lavorare con lei. È positiva: “secondo me sarebbe meglio andà a fa la donna delle pulizie, armeno dimagrisco”. C’è Sergio che fa il dj e ha tutta l’aria del “che ci faccio qui”, lo sento vicino. Quando fa le telefonate gira troppo intorno al punto come dice Antonio. “A Sergiò nun ce girà intorno, dije dell’offerta e che je mandi er consulente”. Poi conosco Giuseppe che viene “dalla terra di Calabria” come dice a tutti. Faccia da bravo ragazzo. Lega subito con Sergio. La musica li unisce. Mi alzo e penso che una sigaretta, dopo due ore e mezzo di telefonate, non si nega a nessuno ma la segretaria della tipologia “segretarie odiose”, una di quelle senza sfumature, tirata fuori dalla commedia dell’arte versione moderna, con aria inorridita mi chiede: “ma dove vai?”. Io sorrido timidamente con la faccia da fessa. Penso che non sia il caso di litigare e mi rimetto a sedere per altre due ore. Il fatto di non potermi alzare liberamente mi fa impazzire. Poi, la pausa: Antonio ci regala una “sosta” di ben dieci minuti.

“Per fare questo lavoro ce devi avè passione” confida Antonio ai nuovi arrivati. Passione? Passione per cosa? Per "i sordi", forse, e lo penso anche in romanesco. Ma non ha tutti i torti, di questi tempi...
Rifletto sulla parola passione: il mio Professore l’aveva usata per presentarmi alla Commissione il giorno della mia laurea. Mi aveva reso molto felice.
Fumo un’altra sigaretta: la prossima pausa è troppo lontana e intanto ingurgito nicotina. Voglio anestetizzarmi così, magari, continuo e diventerà un’abitudine. In fondo ci si può abituare a tutto. C’è anche Leonardo che dopo avermi stretto la mano mi chiede se ho facebook. Sono talmente a terra e senza difese che non riesco a chiedergli se gli sembra il caso di avere il mio contatto dopo soli pochi secondi di conoscenza. È timidissimo. Gli dico che ho un nome strano su facebook. Lui si imbarazza a parlare. Faceva l’agente di viaggio perché gli piace viaggiare. Lavora nel postaccio dal 20 novembre ma anche lui, prima o poi, verrà cacciato.

C’è tutta una serie di cose che devi sapere prima di sederti ad una postazione di call center. Prima o poi loro ti cacceranno. Anche se ti dovessi abituare all’idea di un lavoro del genere perché in fondo i soldi ti servono, un giorno tutto finirà perché loro chiameranno altri schiavi, in prova, per pagarli sempre meno, per poi dirgli che un contratto non possono farglielo, che c’è la crisi. Messaggi preimpostati.

I computer sono tutti uguali e sono tanti. Le postazioni anonime. È questo quello che mi fa più paura. Nessuno ha lasciato tracce di sé sul luogo in cui passa la maggior parte del suo tempo, della sua giornata. Alienazione. Do uno sguardo al cellulare: una chiamata persa. Parto con l’immaginazione. È sicuramente il lavoro della mia vita e io non ho preso la chiamata perché sto lavorando in questo maledetto call center. Ogni tanto parte la musica. Pensano che lavorare così possa essere meno massacrante. Io invece non sento nulla e appena risponde qualcuno mi chino in basso e avvicino sempre più le cuffie alle mie orecchie. Ho difficoltà a sentire e delle volte riagganciano. Sarò stata mandata a quel paese dopo aver pronunciato il mio nome?

Dell’altro carceriere non ricordo il nome. Ha tutta l’aria di essere il protagonista della serie Harry Potter. Lo guardo e me lo immagino con il mantello e la bacchetta da maghetto. Somiglianza impressionante. Si avvicina. Vuol capire chi sono. Gli confido che non ce la faccio, che mi sento in trappola. Mi guarda per capire. “Vuoi guadagnare? - mi chiede - e allora rimani!”. Me lo dice con un tono duro, quasi di ammonimento ma guardo i suoi occhi e sono tutti pieni di comprensione. Poi cede. “Anche io sono laureato e titolato ma sto qui”.

Dopo tutti i vaffa del mondo, scappo. Il turno sarebbe finito alle 21. In un attimo realizzo dove sono: alzo la testa. Guardo tutte quelle facce perse nello schermo. Respiro, metto le mani sulla sedia, scivolo indietro. Vado. Se non lo faccio ora non lo farò più, penso, perché poi mi riempiranno la testa di frottole, mi diranno “vedrai, vedrai”. Ma quel vedrai non lo voglio sentire. Uno sguardo d’intesa con Giulia e andiamo via. Lei piange per strada. È piccolina. L’abbraccio forte ma è una sconosciuta. In quel momento s’allentano le distanze. Destini comuni. Ci salutiamo dopo aver varcato la soglia dell’entrata principale di quel postaccio. Lei va a destra, io a sinistra. Non so cosa augurarle: “piccola, stai tranquilla”, le dico dopo averla abbracciata. Solitamente, tiro fuori tutte le emozioni ma in quel momento Giulia aveva la priorità. Era così autentica. Io mi trattengo. Faccio finta di niente, come se per me non fosse lo stesso.

Prima di andarmene, incontro Potter. Fuma una sigaretta. “Buona fortuna” – mi dice ma questa volta i suoi occhi chiari non mi giudicano. Esco. Giulia non c’è più. Forse non rivedrò mai più nessuno degli esseri umani incontrati lì dentro. Sento una strana sensazione di sollievo anche se penso di essere una stronza che si lascia scappare un lavoro. Ma è decisamente una sensazione più piacevole di quella che stavo vivendo con le cuffie incollate alle orecchie e in procinto di cadere sulla fronte.

Sulla metro sale un musicista. Ha un carrello e intravedo un violino: appena lo tira fuori i miei occhi si illuminano. “Somewhere over the rainbow…”... e non mi sento più sul treno. Potere della musica. Sono altrove e ho il volto rilassato. Troverò un altro lavoro...

A fine serata, arriva “quella” telefonata su cui avevo creato un’altra vita parallela. È di nuovo quel numero. Mi brillano gli occhi. È Idris che mi chiede cosa ne penso di un certo servizio. Scherzi del destino. È difficile ricevere una telefonata commerciale sul proprio cellulare. Il mio tono è rilassato. Lo ringrazio prima che lo faccia lui. Lui stai zitto per un po’... E io sorriso. Ma lui non mi vede. Non sa.