domenica 2 giugno 2013

Don Panizza, il prete antimafia si racconta a daSud

Un’ora di racconti e condivisione. Don Giacomo Panizza, prete “antimafia” - così come non piace essere definito a lui - è arrivato a Roma e, da una sedia dell’associazione daSud, inizia a raccontare della mafia e dell’antimafia, del lavoro in fabbrica e delle prostitute, del matrimonio scombinato quattro mesi prima e dell’impegno per gli 'ultimi' con 'progetto Sud' la comunità in sostegno dei disabili nella Calabria della 'ndrangheta... ma non solo

Uno come Don Giacomo Panizza, impegnato da più di trent’anni in Calabria, alle prese con i palazzi confiscati alle cosche della ‘ndrangheta, con i disabili, te lo aspetti, banalmente, con la barba lunga, una pancia grossa e gli occhiali. Un omone, insomma. Come se il fisico e non la sua testa dovesse supportare tutto quel sacrificio e quel coraggio. E invece lui è esile, occhi chiari, capelli bianchi e niente pancia, persona ordinaria, sorride spesso, quasi fosse la sua preghiera.
 Prima di ieri sera non l’avevo mai visto dal vivo quel prete coraggioso, bresciano che da anni lavora nella comunità “Progetto Sud” per aiutare i disabili in un palazzo confiscato ad una potente cosca della ‘ndrangheta. Si doveva sposare, lui, non diventare prete.
Nel suo paese, oltre alle sue sorelle, non ne sarebbero più rimasti di Panizza: “per quello mio padre vedeva male la mia decisione di non sposarmi a quattro mesi dal matrimonio”.
“Io non ho studiato: dopo la quinta elementare, sono finito in fabbrica. Poi ho fatto tutte le scuole insieme per poter studiare teologia e diventare prete. Vivevo con un amico e la sua fidanzata, una prostituta che batteva per le vie di Brescia”. Brusio in sala.
“Sì, si prostituiva. Poi il vescovo mi ha messo davanti ad una specie di ricatto: ‘scegli Giacomo: o i malati o gli anziani o disabili’- e io scelsi i disabili” - dice – ma così, per caso, non c’è un motivo”. Saviano aveva invitato Don Giacomo nella sua fortunata trasmissione ‘Vieni via con me’ e così, dopo decenni di impegno civile silenzioso, il suo lavoro con i disabili viene conosciuto in tutta Italia: “se c’è un gradino, c’è una disabilità. Se togli il gradino e metti lo scivolo non c’è più disabilità”. “Ho sempre visto negli altri qualcosa di più grande di quello che si vede di fuori e non volevo che gli handicappati si sentissero pensionati”.

Non gli piacciono le etichette: “Don giacomo ma tu sei un prete antimafia?”, gli chiedono in sala - ”no – dice - è la mafia che è anti me”. Ridono tutti. In Calabria ci è finito nel 1976, emigrando “al contrario”, quando nessuno lo conosceva e quando lo accusavano di non vederci bene perché “la mafia non esiste”, gli dicevano accusandolo di fare discorsi di sinistra. E’ un lungo racconto quello della sua vita e della sua precedente esperienza in fabbrica negli anni caldi di fermento rivoluzionario. All’inizio è stato tutto difficile: ‘voi siete il prete del demonio e non del Signore’ mi disse un giorno una signora a Lamezia Terme. Dopo il 2001, dopo gli attentati e le intimidazioni, tutti hanno dovuto riconoscere che la mafia c'è, eccome. “Con i mafiosi faccio finta di non avere paura” dice.

L’incontro dura più di un’ora e Don Giacomo ci racconta molte cose come il “sollievo amaro” provato nel vedere l’uomo che lo minacciava di morte, ucciso dalle cosche rivali e di quando gli chiedevano il pizzo, o meglio, i “soldi per gli amici del carcere” e lui non capiva si trattasse di un reato serio come l’estorsione. E poi, l’ultima immagine, il gesto di “disobbedienza civile” per regalare la gioia ai suoi ragazzi: “una volta sono andato dal giudice e mi sono autodenunciato: non c’era ancora la legge sull’abbattimento delle barriere architettoniche e così gli ho detto che avrei costruito uno scivolo abusivo per portare i miei ragazzi al mare. Sì, voi direte che stare in acqua è una bambinata ma non è così: è la felicità”.