martedì 2 settembre 2014

Ramallah International Camp - Rifugiati nella nostra terra - Palestina on my mind




Partenza

Il taccuino è in carta riciclata, la copertina è rossa. Lo avevo comprato nella speranza di utilizzarlo proprio in un viaggio; era riposto in un cassetto e forse lui stesso sognava di diventare un diario di viaggio. E così è stato.
L’orologio segna le sei del mattino. La piccola valigia è piena, stracolma e la cerniera cerca di raccogliere tre maglie, due pantaloni e un vestito. Finalmente, dopo 3 mesi, ritorno in Palestina.

“Lei è in ritardo ma potrebbe partire senza valigia. Il cancello è ancora aperto” – mi spiega in un italiano perfetto la donna israeliana addetta alla sicurezza all'aeroporto di Fiumicino. Prima di partire, però, devo subire un interrogatorio sul motivo del viaggio.
Entrare nello Stato di Israele non è così semplice e le autorità potrebbero addirittura vietarne l'ingresso.
“Cosa andrà fare nella custodia della terra santa?” – continua la donna dopo aver osservato il mio passaporto, sfogliando con rara attenzione ogni singola pagina.
“Visiterò la terra santa e aiuterò i francescani della comunità di Ein Karem per la realizzazione di alcuni progetti” – rispondo raccontando una verità parziale. 
“Quindi andrà a fare volontariato… ma lo sa che c’è la guerra?" – mi chiede con il telefono appoggiato sull'orecchio e il collo inclinato, in attesa che qualcuno risponda alla sua telefonata. Parla un po’. Riattacca.
“Mmm voli con un’altra compagnia” – conclude consegnandomi il passaporto.

Le chiedo spiegazioni ma congela risoluta ogni mia richiesta. Io desisto: non ho voglia di litigare e sono molto arrabbiata perché, probabilmente, non parteciperò al campo di volontariato a Ramallah.
Dopo 12 ore di attesa, e dopo aver quasi perso le speranze, riesco ad acquistare un altro biglietto per Tel Aviv. Il volo prevede una sosta ad Atene; lì attendo con due amici incontrati in aeroporto e diretti a Beirut, Giovanni e Francesco, il volo per Tel Aviv. Andranno anche anche loro a fare un campo di volontariato in Libano. Passiamo così tante ore a chiacchierare che quasi rischio di nuovo di perdere l'aereo. Dopo il decollo, con Atene alle mie spalle, il mio sguardo è rivolto verso la Palestina. All’aeroporto di Ben Gurion temo nuovamente domande scomode ma a parte qualche strana domanda –come definita dall’uomo preposto al controllo alla frontiera circa il nome di mio padre – tutto liscio. Tiro un grande respiro di sollievo: finalmente sono arrivata a Tel Aviv, è notte fonda. Attendo i primi compagni di viaggio per raggiungere Ramallah, arriveranno all'alba.

Ramallah
La Cisgiordania non è l'inferno di Gaza ma il muro contribuisce a creare un’altra prigione a cielo aperto. La barriera di separazione israeliana, lunga circa 732 chilometri, è tra le prime cose che vedo dopo aver lasciato l’aeroporto di Tel Aviv con uno sherut, un taxi collettivo preso insieme ai primi compagni di viaggio.
Il muro viene illuminato dalla luce leggera delle prime ore del giorno. Il sole tocca il cemento in modo così naturale che mi sembra quasi normale che un muro divida un Paese e i suoi abitanti.
Rivedo quel muro dopo tre mesi mentre i miei compagni di viaggio, Erica, Manuel, Laura, Angelica e Giovanni, guardano attenti al di là del finestrino ciò che vedono per la prima volta e di cui avevano solo sentito parlare.
Sembra esserci un rappresentante per ogni parte dell'Italia: Erica viene dalla Sardegna, Manuel è abruzzese, Laura è di Milano, Angelica è di Roma; Giovanni ed io rappresentiamo l'estremo sud con la Sicilia e la Calabria.

Lungo il tragitto, incrociamo uno dei check point più famosi della Cisgiordania, Qalandiya, che separa Gerusalemme da Ramallah. Solo i palestinesi che hanno particolari permessi possono attraversarlo e, in generale, agli abitanti della West Bank ne è proibito il transito.
Riconosco immediatamente Qalandiya non appena i miei occhi incrociano il graffito di Arafat, affiancato dal disegno di Marwan Barghouti sulla barriera di separazione.
Qalandiya è anche il nome del campo che sorge alle porte di Ramallah e che accoglie parte dei profughi che furono costretti ad abbandonare le loro case nel 1948 durante la Nakba, letteralmente, "la catastrofe", l’esodo palestinese causato dalla prima guerra arabo-israeliana.
La nostra base si trova nei pressi della tomba di Jasser Arafat. Si tratta di un mausoleo dedicato al leader di Al-Fatah, la cui torre alta undici metri ricorda il giorno della sua morte, l'11 novembre 2004.
A pochi metri è possibile raggiungere anche il museo di Mhammud Darwish, il poeta palestinese che più di tutti è riuscito a cantare con splendidi versi la tragedia palestinese, trasformando la Nakba da dolore privato a dramma collettivo.
Ramallah, nei fatti, è la capitale della Palestina. È qui che ha sede il Consiglio legislativo, è qui che hanno sede le rappresentanza diplomatiche e i vari ministeri, anche se è Gerusalemme Est la vera capitale nell’orizzonte più bello del sogno palestinese.
Al centro ricreativo del comune di Ramallah che sarebbe diventata la nostra casa per quei giorni, ci aspettano i due responsabili del campo, Asad, vulcanico e solare, Sana, donna palestinese il cui velo incornicia un sorriso costante, e Luisa Morgantini. Presidente di Assopacepalestina che da tre anni organizza questo campo di lavoro con il Comune di Ramallah, Luisa è stata vicepresidente del parlamento europeo e da anni si batte per la causa palestinese con una passione smisurata. 

Luisa è appena tornata da Gerusalemme dove ha atteso il corpo di Simone Camilli da Gaza, l’unico reporter italiano rimasto ucciso nella striscia. “La madre di Camilli era sconvolta, è stato bruttissimo” – ci confida con evidente commozione per quel fotografo che lascia una compagna e una bambina di tre anni.
Secondo quanto riporta Rosa Schiano attraverso Nena Angency News, sarebbero già 17 i giornalisti uccisi nell’operazione Margine protettivo.
Luisa ci spiega che cosa faremo, avvertendoci che l'operazione militare a Gaza ha reso necessario modificare il programma del campo. In ogni caso, andrermo a trovare i Ragazzi contro gli insediamenti di Hebron (Youth Against Settlement, YAS), gruppo di giovani attivisti con cui Assopacepalestina collabora da anni per la riapertura di Shuhada street, e il comitato popolare di Bil'in che si batte contro la costruzione del muro nel loro territorio, violando il confine tracciato dalla Green Line.
Il primo giorno si lavora sin dalle 8 del mattino. Durante la colazione Asad ci spiega che cosa fare: l'obiettivo è mettere le casse d’acqua una sopra l’altra, creando due o tre livelli, impacchettare tutto e spedirlo a Gaza. A pranzo prendo una copia del programma. Me ne capita una in arabo: rido perché è, ovviamente, incomprensibile ma mi affascina parecchio come tutte le cose inaccessibili. Guardo con interesse i miei compagni palestinesi leggere quelli che a me sembrano disegni, con la stessa intensità con la quale, quando ero piccola, osservavo mia sorella leggere, alzandomi sulle punte per arrivare al livello della scrivania e sbirciare le pagine del libro. Credevo stesse inventando tutto, che mettesse un po’ della sua fantasia nel pronunciare suoni a caso senza collegamento con le parole scritte nei libri. 
Il programma del campo prevede oltre al lavoro di preparazione dei pacchi di generi alimentari, acqua e vestiti per gli sfollati di Gaza, anche incontri con altri gruppi della resistenza all’occupazione israeliana e la visione di alcuni film "Budrus" o "five broken cameras", docufilm sull'occupazione israeliana.

Hebron

Hebron è tra le città più antiche del mondo, dopo Gerico e Varanasi. Scesi dall'autobus ci incamminiamo per raggiungere la sede degli YAS, gli attivisti di Hebron che ci accolgono offrendoci il pranzo mentre Issa, il fondatore del gruppo, ci racconta di come dal 1994 la più importante strada della città, Shuhada Street, sia stata chiusa limitando la libertà di movimento dei palestinesi.
Per proteggere i coloni che si sono stabiliti lì, Israele ha imposto ai residenti di Hebron sgomberi forzati, coprifuoco, la chiusura di molti negozi, blocchi stradali, l’assoggettamento alla legge militare, e la detenzione senza accuse formali. Circa 13.000 palestinesi hanno così dovuto lasciare le loro case.
Issa Amro è un attivista e ha fondato diversi gruppi non violenti. Riceve periodicamente minacce di morte dai coloni ed è stato ripetutamente arrestato in regime di detenzione amministrativa, lo strumento che permette ad Israele di limitare la libertà personale degli attivisti e di tutti coloro che protestano contro l’occupazione e la violazione dei diritti umani, senza una formale accusa.
La sede dei YAS confina con un edificio occupato proprio dai coloni. Tra le kippah dei bimbi che giocano in cortile, vediamo i soldati israeliani che alla nostra presenza  si posizionano quasi a nascondere l’interno dell’abitazione più che a proteggere la casa: proprio quella è un'abitazione palestinese, sottratta con la forza ai palestinesi e assegnata ai coloni.
Pur essendoci già stata, Hebron è sempre scioccante per l’assurdità dei check point all’interno della città In tutto il resto della Cisgiordania, i check point si trovano al di fuori dei centri abitati: Hebron, i check point, ce li ha al suo interno.
Abd è di Hebron e ci porta nella sua casa, a Shehuda street. Proprio lì, il negozio di suo padre è stato chiuso, così come tutti i negozi della via e su molte delle saracinesche è stata disegnata, a sfregio, la stella di David. Il cortiletto dell'edificio è ricoperto da una rete metallica per evitare che i coloni, tra i più estremisti della West Bank, possano lanciare pietre.
Una volta varcato l’uscio di casa, Abd può andare a sinistra senza incontrare nessun check point, ma se decide di andare a destra sa che dovrà immediatamente superare i controlli militari: è come se per andare al supermercato voi doveste mostrare i documenti e farvi perquisire.

Valle del Giordano

La Valle del Giordano è un vastissimo territorio della Cisgiordania che rientra quasi interamente nella zona C, zona sotto controllo civile e militare israeliano. È quindi un territorio, di fatto, sotto l’occupazione israeliana.  Un tempo era territorio giordano ma nel 1948 è stata invasa da Israele per poi tornare a far parte del territorio palestinese. Con gli accordi di Oslo quella Valle, per il 95%, è diventata zona C.
“Gli accordi di Oslo sono stati i peggiori accordi della storia per la Palestina” – ci spiega il nostro amico di origini beduine che ci fa da guida.
Solo il 5% della Valle è zona A, zona soggetta al controllo palestinese e B, a controllo misto.
I palestinesi della Valle del Giordano hanno grandissime difficoltà ad accedere all’acqua: ogni palestinese ha diritto a 10 litri al giorno a fronte di 200/300 litri a cui ha diritto un cittadino statunitense ed europeo, nonostante l’OMS abbia stabilito intorno a 100 litri la dose che ogni persona dovrebbe avere per vivere. “Le nostre condizioni di vita sono assai più difficili rispetto a chi abita nei campi profughi. Vivere con 10 litri d’acqua al giorno è quasi impossibile: per costringerci ad andarcene, gli israeliani ci rendono la vita difficile” – commenta il giovane palestinese.
“Lì dove vedete zone verdi – ci dice la nostra guida mentre indica con la mano le immense distese di terra piene di palme per la produzione dei datteri – ci sono occupazioni israeliane. Le altre, non coltivabili, sono palestinesi”.
È qui che la campagna per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni contro Israele deve essere giocata: secondo i dati forniti da Bds, il boicottaggio dei prodotti israeliani delle Valle del Giordano sta raggiungendo molti risultati, come ci spiega la nostra guida che, alla fine del giro, ci invita a pranzo.
Riso, pollo e spezie a volontà. Dall'abitazione della nostra guida, il panorama ci emoziona: la Giordania è all'orizzonte.

Centro melchita di ricamo a Ramallah

“Vuoi venire a trovare alcune amiche di mia zia?” – mi chiede Erica. “Si tratta di due donne italiane e una francese che aiutano le donne palestinesi a vendere i loro prodotti”.
Così un pomeriggio ci ritroviamo a bussare al campanello del Centro Melchita di Ramallah, in cui tre donne aiutano trecento donne palestinesi provenienti da otto villaggi dall’area di Ramallah a vendere i loro prodotti: borsellini, borse, orecchini, fermagli, vestiti.
Ricamano a casa e al centro ci vanno solo per consegnare i prodotti.  È Helene, la francese, a coordinarle. Ci offrono una limonata e chiacchieriamo per almeno un'ora.
“Non c’era neanche stata la guerra dei sei giorni quando sono arrivata. Son venuta qui che non conoscevo neanche una parola di Arabo. Ho lavorato come maestra in moltissimi villaggi della Cisgiordania. E poi abbiamo avuto l’idea di questo centro ricamo” – spiega la più loquace delle tre.
Ci raccontano di Zia Agnese, la zia di Erica, che partì come missionaria e dopo una laurea in sociologia in Italia studiò arabo in Giordania.
“Tua zia ha avuto una grande forza ad andarsene in Giordania da sola. Ti ha mai raccontato di quando studiava mentre giocava a corda nella sua stanza ad Aqaba?” – chiede la donna ad Erica che non conosceva affatto questo particolare. "Lo chiederò a zia Agnese. Vi porto i suoi saluti". 
Una corda che roteando crea tanti cerchi attorno a Zia Agnese, così me la immagino, mentre si affacciava alla finestra guardando Aqaba.
Si chiude il cancelletto dietro di noi mentre le donne continuano a salutarci. Chissà se le rivedremo un giorno.

Bil’in
Tra i gruppi della resistenza palestinese, incontriamo il comitato popolare di Bil'in.
Bil'in è un villaggio a pochi chilometri da Ramallah, si tratta di uno dei novantadue villaggi palestinesi ad aver ha subito la costruzione del muro di separazione.
All'arrivo, veniamo accolti da un uomo con una maglia grigia con impressa la faccia di Arrigoni. È un grande benvenuto. Vittorio è un eroe da quelle parti.
Da quando è stato costruito il muro che ha tagliato a metà il villaggio, gli abitanti di Bil’in organizzano una protesta non violenta contro la sottrazione del 60% delle loro terre. La costruzione della barriera di separazione israeliana è stata fatta al di là della Green Line, la linea di separazione che segna il confine tra la West Bank e lo Stato di Israele. La costruzione, ovviamente, è illegale non solo per il diritto internazionale ma anche per la stessa legge israeliana, così come riconosciuto nelle battaglie legali intraprese dal comitato di Bil’in.  
Qui un soldato israeliano ha perso un occhio a causa del lancio di una pietra e ci sono stati diversi feriti palestinesi e, purtroppo, ben due morti palestinesi: Bassem Abu Rahmeh, un uomo di 29 anni morto dopo essere stato colpito al petto da un candelotto lacrimogeno, come documentato anche nel film Five broken cameras e Jawaher Abu Rahmah, una donna di 36 anni.
Con il passare del tempo la protesta ha attirato l’attenzione dei media: oltre alle tante battaglie legali, gli attivisti hanno iniziato a trasformare gli oggetti di guerra come lacrimogeni e le bombe a mano in messaggi di pace: ogni lacrimogeno raccolto è diventato un vaso per i fiori.
Come da accordi con lo stesso coordinatore del comitato di protesta di Bil’in, ci mettiamo a raccogliere i lacrimogeni sparsi nel terreno, che divide la loro terra dal muro.
C’è uno spazio di terra, sorpassato il quale, non vige più la legge civile ma quella militare: in questo spazio, i soldati sono autorizzati a sparare in ogni momento. Solitamente non lo fanno, come ci dicono rassicurandoci prima di partire.
Ma non sono giorni qualunque, c'è molta tensione per via dell'operazione militare israeliana Margine Protettivo. Dopo settantadue ore di tregua, il 20 agosto si ricomincia a bombardare.
La temperatura è alle stelle, il terreno è pieno di alberi e ai loro piedi i frutti dell’occupazione: lacrimogeni, bombe, proiettili.
Così come ci è stato chiesto, insieme agli altri volontari, iniziamo a raccogliere e riporre i lacrimogeni esplosi nel sacco bianco affidatoci dall’uomo con la maglia di Arrigoni.
Improvvisamente, succede qualcosa: vedo i soldati israeliani posizionati sul muro con le loro armi puntate.
Ci capisco poco, capisco solo la paura e l'istinto di correre, seguendo gli altri. Abbandono il sacco pieno di lacrimogeni per correre più in fretta. Continuo a correre. 
Nessuno di noi sa esattamene cosa sta succedendo. Ci lanciano lacrimogeni e bombe di cui non conosciamo l’entità, né la reale capacità di ferire o uccidere.
Alla fine riusciamo a raggiungere una distanza relativamente rassicurante e ci posizioniamo nei pressi dell’autobus. Tutti con il fiatone e una gran paura. Sconvolti. Tutto quello che è successo è inaspettato. 
Il coordinatore è abituato a queste cose: mentre noi corriamo lui rimane indietro e si alza la sua maglia scoprendo il ventre e alzando le mani, mentre la faccia della stampa di Arrigoni sparisce nella schiena. Vuole dire ai soldati che non stiamo facendo niente di male e che vorremmo continuare a fare quello che stiamo facendo, pacificamente.
I militari non ne vogliono sapere e lanciano altri lacrimogeni. I nostri amici palestinesi lanciano qualche pietra, non riescono a trattenersi. Non possiamo più proseguire e tutto il nostro programma va in fumo.
I racconti di tutti, di quei minuti di terrore s'incontrano quando ci ritroviamo sotto gli ulivi ormai al sicuro. C'è chi ha gli occhi rossi e gonfi per aver pianto, chi invece ride nervosamente, chi vuol parlare, chi racconta di essersi ritrovato a correre senza sapere perché. Protestiamo anche per la reazione di chi ha tirato le pietre. Siamo tutti sconvolti. Il viaggio di ritorno ci vede tutti silenziosi. Nessuno, come di consueto, canta sull'autobus. Niente Bella Ciao, né Unadikum, la canzone dedicata ad Arrigoni, solo silenzio. 

Bds, Barghouti - Walls di Hafez Omar

Di ritorno dall’ennesima escursione, viene a trovarci Omar Barghouti una delle voci più autorevoli della campagna internazionale Bds e Hafez Omar, artista che porta avanti la lotta per la liberazione della Palestina attraverso i suoi poster, soprattutto dopo l’arresto del fratello detenuto per motivi politici per circa 10 anni nelle carceri israeliane.
Hafez ha creato una pagina su facebook chiamata “Walls” in cui si possono vedere tutte le sue opere tra le quali la famosa immagine di un detenuto anonimo con impressa sulla maglia la scritta “israeli prison administration”.

Angelo Frammartino

“Quindi tu sei già stata qui” – mi chiede Daniela sedendosi accanto a me sull’autobus verso Ramallah di ritorno dalla Valle del Giordano. Ha capelli lunghissimi e ricci che raccolgono due occhi teneri. Muove le mani con intensità per farsi spiegare meglio e aspetta una mia risposta.
“Sì, tre mesi fa, circa…” – le rispondo.
“Io sono qui per un motivo preciso. Sarei dovuta venire prima ma dopo la laurea ho vissuto in Russia, in Polonia e … ” – spiega quasi giustificandosi.
“Forse era solo adesso il momento giusto”, le dico interrompendo la durezza del suo giudizio.
“Qui è stato ucciso un mio amico, si chiamava Angelo”.
La mia loquacità si placa. Cambia tutto. Distinguo chiaramente gli occhi lucidi di Daniela, mentre parla del suo amico.
“Angelo era un compagno, frequentava rifondazione comunista. Quando sono arrivata alla Porta di Damasco ho cominciato a guardami intorno. Sapevo che lì vicino era stato ucciso Angelo e non riuscivo a stare tranquilla” – mi racconta Daniela.
“Daniela – le dico – forse hai un compito, devi ricordarti di Angelo. Devi far conoscere la sua storia a più persone possibile”.
“Lo so e non ho mai smesso di pensarci”…
”Ti ringrazio di avermene parlato. Ma il cognome… il cognome è calabrese, vero?” – chiedo.
“No, lui era di Monterotondo come me ma – dopo un attimo di riflessione, strofinandosi la mano sulla fronte – è vero, è vero, ora che ci penso lui aveva origini calabresi”.
Arrivati al campo, cerco di collegarmi ad internet attraverso una fragile connessione wi-fi.
Trovo subito una sua foto. Angelo ha occhi chiari, capelli castani e viso dolce, sorriso abbozzato. Ci sono parecchie foto su google ma quella più ricorrente lo ritrae in un abbraccio con un bambino palestinese.
Scopro che viveva a Monterotondo e che studiava giurisprudenza alla Sapienza, come me. Le sue origini, così come tradisce il suo cognome, sono calabresi, in particolare di Caulonia dove ogni anno si tiene un premio per ricordarlo.
Prometto a Daniela di parlarne, di aiutarla nel ricordo. Come era possibile che non sapessi nulla di questo ragazzo morto per l’odio e vittima del suo amore in quanto ucciso proprio da un palestinese? Niente di un mio coetaneo ucciso per sbaglio proprio da quella gente che era andato a proteggere?

Gerusalemme e Angelo

Nell’ultimo giorno le nostre strade si separano: invece di andare a Jenin e Nablus, con tutto il gruppo, seguo i tre ragazzi sardi a Gerusalemme.
Noi quattro – i sardicalabri, come ci chiamano, per la mia presenza che fa di noi un gruppo di sardi meticci –  scegliamo di andare a Gerusalemme. I miei tre amici non hanno ancora visto la Città Santa e così mi offro di mettere a disposizione la mia piccola conoscenza della città.
I tre sardi sono ottimi compagni di viaggio. Una esplosione di vita si manifesta in Erica, occhi grandi e neri e una sorprendente capacità di imitare le persone; Vanessa, sembra fuggita da un film in bianco e nero, espressione fiera ed energica e poi c'è Paolo che in un'altra vita deve essere sicuramente nato in Palestina.
Ero di nuovo a Gerusalemme. Avevo immaginato a lungo la Porta di Damasco, i mercanti arabi contrattare con i turisti, la loro merce esposta e l'invito a fermarsi, l'odore dei felafel, il fumo del Kebab sulla griglia, i tassisti appoggiati sulle loro macchine e le loro sigarette, il volto di Nasser, l'autista che ad Aprile mi aveva condotto a vedere la Knesset, mentre in testa “Tel Aviv, Tel Aviv”, risuonava così come lo avevo ascoltato ad ogni mio risveglio quando avevo alloggiato lì.
Abbiamo i volti stanchi per le poche ore di sonno e siamo scossi dalla perquisizione subita al check-point.
Abbiamo a disposizione un giorno per vedere il più possibile un luogo immenso. Scegliamo così le cose che non si possono non visitare: il Muro Occidentale, il Santo Sepolcro, accontentandoci di vedere la Cupola della Roccia da lontano per via della chiusura della Spianata delle Moschee.
Avviati verso l’ostello, riceviamo un messaggio di Mohamed, chiamato da noi "Armario".
Mohamed è l’anima del gruppo dei ragazzi palestinesi che ci dà appuntamento alla Porta di Damasco. Siamo spiazzati ma contentissimi perchè Mohamed sarebbe dovuto andare a Jenin e Nablus con tutto il resto del gruppo. A causa di una sveglia non sentita, Armario è ancora a casa, a Gerusalemme. Mohammed viene chiamato Armario per via della sua stazza. Armario è l'evoluzione di armadio: così lo aveva definito un ragazzo italiano l'anno precedente. Da allora tutto lo chiamano Armario. Studia all’università di Al-Quds e fa il tirocinio per diventare un avvocato, ha passaporto giordano e la residenza di Gerusalemme.
Varcando la Porta di Damasco lo vediamo da lontano e ci lanciamo verso di lui: è talmente grande che solo in quattro riusciamo ad abbracciarlo senza lasciare nessun pezzo del suo corpo privo della nostra stretta.
Ci porta alla scuola frequentata dal poeta Darwish, a fare un giro nella Gerusalemme Est e a vedere un’altra delle otto porte di Gerusalemme, la porta di Erode.
Proseguiamo salendo sulle mura delle città. 
Passeggiamo senza una meta precisa godendoci solo il panorama e quelle ultime ore di viaggio.
Un murales modifica il nostro percorso attirando la nostra curiosità. Si tratta di un parco giochi, apparentemente, ma è il centro sociale la Torre del Fenicottero, luogo gestito da palestinesi e sotto minaccia di esproprio da parte dello stato di Israele, come mi racconterà anche Armario.
Tra i murales, vedo in lontananza un campetto di calcio.
Il mio cellulare scatta qualche foto: sento che quel posto ha qualcosa da raccontare. Armario saluta l’uomo che ci viene incontro. Un abbraccio, qualche sorriso e Armario sta già parlando con quello che ha l’aria di essere a casa sua.
“Questo campetto verrà dedicato ad un ragazzo italiano ucciso tempo fa a proprio qui” – spiega Armario, raccontandomi quello che quel ragazzo gli aveva appena rivelato.
Armario conosce quel posto perché è tra i punti più belli in cui poter ammirare la Cupola della Roccia e per le continue minacce israeliane per la confisca, ma non conosceva affatto quella storia, la storia di quella uccisione.
Chiedo se il ragazzo rimasto ucciso si chiami Angelo Frammartino.
Il ragazzo non sembra capire. Armario glielo ripete ma l'uomo, desolato, non ricorda il nome della vittima, dell’uomo che aveva perso la vita proprio lì, sul muro che orami non era più macchiato di sangue perché dipinto di bianco.
Il ragazzo si assenta e torna con un mazzo di chiavi. Armario nel frattempo mi spiega che c’è una stanza chiusa a chiave con la foto di questo ragazzo. Solo così potremo scoprire di chi si tratta.
E se si trattasse di Angelo? Fino a qualche giorno fa non ne conoscevo neanche l'esistenza e ora mi ritrovavo lì, proprio lì dove era stato ucciso.
Entriamo e il ragazzo non ha nemmeno il tempo di indicare dove sia posizionata la foto che riconosco immediatamente il suo volto.
È lui, è Angelo.
La sua foto è appoggiata tra il muro e la scrivania in direzione della Cupola della Roccia che da lassù si vede chiaramente. Quel ritratto ha tutta l’aria di essere lì da molto tempo.
Daniela non è lì e l’istinto di prendere il telefono per comunicare con lei si scontra con la consapevolezza di non avere la connessione internet.
Angelo ormai aveva impresso la sua presenza nel nostro viaggio tanto da portarci lì dove otto anni fa aveva perso la vita.
Erica e Vanessa capiscono subito perché nei giorni precedenti avevo raccontato loro di quel ragazzo e della mia idea di scriverci qualcosa. Paolo, invece, non ne sapeva nulla.
“Io sono scettico” – mi confida Paolo – ma quello che è successo oggi è davvero una bella cosa”.
Ci avviamo verso l’ostello con un gattino bianco dalle dimensioni microscopiche che non vuol lasciarci mentre salutiamo Armario con gli occhi gonfi di lacrime e il desiderio di rivederci presto.
L’ostello offre scomode sistemazioni ma una vista eccellente. Dopo aver salutato Erica e Paolo, io e Vanessa facciamo un’ultima chiacchierata sul tetto davanti ad una Gerusalemme che dorme mentre brilla la cupola nella notte.
L’ultimo giorno è una corsa contro il tempo. I negoziati falliti al Cairo per fermare i bombardamenti di Gaza e le minacce di Hamas aumentano la tensione tanto che si parla di una possibile chiusura dell’aeroporto di Ben Gurion.
L’aeroporto però è aperto. Si parte. Saluto i sardi. Le nostre strade si separano davvero. Io continuo sola e, mentre mi allontano sulle scale mobili, guardo gli ultimi due compagni di viaggio, Vanessa e Paolo, lasciati al bar a fare colazione.
Il mio volo fa un’ora di ritardo: a quanto pare l’aereo cambia rotta per evitare i missili provenienti da Gaza. Nel viaggio di ritorno, dopo il decollo, dilato tutte le immagini vissute. Ne cerco un’ultima e penso agli altri, a tutti gli altri compagni e al loro viaggio, come avrebbe fatto Angelo.

Mentre prepari la tua colazione, pensa agli altri,
non dimenticare il cibo delle colombe.
Mentre fai le tue guerre, pensa agli altri,
non dimenticare coloro che chiedono la pace.
Mentre paghi la bolletta dell’acqua, pensa agli altri,
coloro che mungono le nuvole.
Mentre stai per tornare a casa, casa tua, pensa agli altri
Non dimenticare il popolo delle tende.
Mentre dormi contando i pianeti, pensa agli altri,
coloro che non trovano un posto dove dormire.
Mentre liberi te stesso con le metafore, pensa agli altri,
coloro che hanno perso il diritto di esprimersi.
Mentre pensi agli altri, quelli lontani, pensa a te stesso,
e dì: magari fossi una candela in mezzo al buio.

Mahmoud Darwish

mercoledì 28 maggio 2014

Palestina Mon Amour

  1. Lettera a Luisa Morgantini


    Ciao Luisa,

    è strano scrivere così: solitamente sono io a leggere simili incipit ma la cosa mi piace molto perché mi sembra un dialogo più intimo.
     
Sono stata in Palestina. È stato un grande viaggio, un viaggio che non dimenticherò mai; avrei voluto parlartene proprio quel giorno in cui ci siamo conosciute ma non ne ho avuto modo e così te lo racconto attraverso questa lettera partendo da Gerusalemme.
Distrutta e ricostruita più volte, Gerusalemme sembra aver vissuto tante vite, quelle di tutti gli uomini e le donne che l'hanno abitata e ne hanno lasciato una piccola traccia, un'eco. Da quando re David fece di questa terra la sua capitale, la capitale del regno d’Israele, è tra i luoghi più contesi al mondo, tra le rivendicazioni dei sionisti e la resistenza dei palestinesi, in cui l'assonanza tra Shalom e Salam (Aleikum) sembra essere l'unico motivo di unione e vicinanza.
Mi aspettavo di essere travolta da Yerushalaim. Mi aspettavo di respirare il silenzio in ogni angolo: in ogni tempo, devozione e rispetto. E invece Gerusalemme è spesso pervasa da una religiosità artefatta: molti pellegrini, poco propensi al raccoglimento interiore, assaltano morbosamente i luoghi sacri, trasformando il pellegrinaggio in gita turistica.
Per questo ho preferito ammirare Gerusalemme dopo il tramonto, osservando la luce che, andandosene, lascia tra gli archi le sue ombre e illumina l’essenziale: solo di sera, quando quasi tutti luoghi di culto sono chiusi e le strade svuotate, puoi accorgerti di quanto le pietre che compongono la città vecchia siano il risultato di sovrapposizioni di epoche diverse, messe lì, tutte insieme, a formare il presente.

Siamo arrivati di sabato quando la maggior parte delle attività commerciali è chiusa per lo Shabbat, la festa ebraica del riposo.
Dopo aver varcato la porta di Damasco, una delle otto porte di accesso alla città vecchia, percorrendo velocemente El Wad Ha Gai St, tra gli occhi attenti dei militari israeliani e dei loro mitra, arriviamo al Muro occidentale.
 
Chiamato anche Muro del pianto, il Muro occidentale è il muro di cinta dell'antico secondo Tempio di Salomone. Non rimane niente del Tempio se non questo muro che, da elemento architettonico di supporto, è diventato nel tempo il luogo di culto più importante per la religione ebraica.
Gli enormi blocchi di pietra bianca che formano il muro contengono, tra le loro fessure, tanti pezzettini di carta: si tratta delle preghiere dei fedeli. Questo particolare cattura la nostra vista: rimaniamo immobili per qualche secondo a osservare, continuando subito dopo ad avvicinarci piano, piano.
Io e il mio compagno di viaggio ci dobbiamo separare perché c'è una zona riservata agli uomini e una alle donne. Non è tanto la separazione a colpirmi quanto il fatto che le donne abbiano meno spazio degli uomini per pregare. 
Per ogni pizzino inserito nelle infinite fessure del muro, tra un blocco di pietra bianca e l’altro, decine di essi cadono a terra: è impossibile contenere tutte le preghiere e molte giacciono a terra. Intanto penso a cosa scrivere e osservo il procedimento: c’è un modo per lasciare una preghiera? Una cosa è certa: la gente non ha cura delle preghiere altrui e senza prestare attenzione alle conseguenze, le infila dove capita, lasciando cadere le altre. Pur avendo la borsa sempre piena di fogli, carte o taccuini, non ho neanche un pezzetto di carta. Così, prendo un fazzolettino, e scrivo: c’ho un pensiero ricorrente da molti anni e penso che sia la preghiera giusta. Così sia. Scelgo accuratamente il posto in cui inserirla in modo che nessuna delle altre possa cadere.
Intanto guardo i fedeli allontanarsi mentre camminano all’indietro: è il solo modo per andare via senza dare mai le spalle al muro.
 
Osservo quei blocchi di pietra di cui è composto il muro. Non ci vedo niente se non dei cespugli che crescono ignari di crescere proprio lì, in quel muro, come fosse un banalissimo muro, come se le piante dovessero far caso a dove venire al mondo. 
Lì, ai piedi del muro, vedo gli ultraortodossi: di notte e di giorno pregano e lo fanno con le parole e con il corpo: mentre recitano le preghiere si muovono, ondeggiando avanti e indietro.
 Sono loro a destare in me la maggiore curiosità.
Gli ultraortodossi vivono nella società israeliana ma, di fatto, separati da essa: appena fuori dalla città vecchia, a pochi passi dalle mura, sorge una zona della città quasi inaccessibile. Tappezzato da manifesti che invitano i turisti a non attraversare quel quartiere se non vestiti in maniera pudica, il quartiere di Mea Shearim è popolato dagli ebrei haredim di lingua yiddish, trasferitisi a Gerusalemme alla fine del XIX secolo.
Durante lo shabbat, in particolar modo, i turisti vengono invitati a non scattare foto, a non fumare, né alle coppie è permesso di camminare mano nella mano o baciarsi. Si rischia infatti non solo l’aggressione verbale ma anche il lancio di pietre.

A differenza dei palestinesi, gli ebrei ultraortodossi non danno molta confidenza, sono austeri e si vestono quasi tutti allo stesso modo: il nero delle giacche e dei pantaloni, si accosta a una camicia bianca su cui scendono due boccoli fatti crescere all'altezza dalle basette, ai due lati del viso, e alla Kippah, secondo i dettami della Torah. Sembra che la loro chiusura tradisca superiorità e distacco ma io ci vedo una spiritualità riservata.
Il governo israeliano ha di recente sospeso il sussidio economico che permetteva ai giovani studenti ultraortodossi di non assolvere all’obbligo di leva: la legge che glielo garantiva è stata dichiarata incostituzionale dall’Alta Corte di Giustizia israeliana. Da allora la Knesset avrebbe dovuto trovare una soluzione a questo problema, considerato ormai dall’opinione pubblica come un privilegio ingiustificato.
Nello Stato d’Israele tutti devono fare il servizio militare, anche le donne. È obbligatorio per ebrei e drusi mentre per gli arabi con passaporto israeliano costituisce una scelta. È un dovere oltre che un onore servire una patria la cui esistenza è messa costantemente in pericolo. Le armi diventano oggetti di vita quotidiana. Chi vive qui vede decine di mitra al giorno. Tutti uguali, appesi alle spalle dei militari che li indossano come fossero oggetti ordinari mentre mangiano un gelato o indossano una borsa griffata. C’è una tragica normalità nel portare le armi e compiere, allo stesso tempo, gesti quotidiani. È una educazione alla guerra. 
Se l'esistenza di Israele è messa in pericolo, allora la guerra più che un'eccezione è una costante minaccia: molti Stati non riconoscono Israele che con la forza si è insediato lì solo perché milioni di anni fa qualcuno diceva che quella fosse la sua terra promessa. Esistono decine di risoluzioni Onu contro gli atti di Israele, soprattutto contro la costruzione illegittima di un muro che non rispetta i confini tracciati dagli accordi internazionali del 1967, l'anno in cui venne disegnata la famosa Green line che separa la Cisgiordania dallo Stato d’Israele.
Dopo gli attentati della seconda intifada, per motivi apparentemente di sicurezza, comincia a concretizzarsi un'idea: lì dove si snoda il confine tra Cisgiordania e Israele, si deve costruire una barriera di separazione di cemento con torri di controllo in modo da prevenire altri attentati. Ma questo muro, alto 8 metri per 732 km di lunghezza, invece di attenersi ai confini, entra nei territori palestinesi inglobando gli insediamenti ebraici illegittimamente costruiti, e separando i pozzi d’acqua dai terreni.
Operazione sicurezza - come ha voluto precisare il Premier israeliano proprio durante l’incontro con il Papa - o allargamento illegittimo dei territori?
L’abuso è talmente evidente che anche la Corte israeliana ha ordinato di modificare il tracciato del muro nella parte in cui occupa i territori palestinesi.
La comunità internazionale, però, sta a guardare.
Il muro di separazione è un’esplosione di colori. Solo l’arte poteva rendere accettabile una insulsa barriera di cemento: le immagini di Arafat, Marwan Barghuthi, Leila Kaled si accostano ai famosissimi disegni di Banksy. Sì, è una misera consolazione ma diventa una potentissima arma: la voce che raccoglie la rabbia dei palestinesi, dopo quell'esodo che è un viaggio che ha senso solo in attesa del del ritorno.
Betlemme
Ci spostiamo a Betlemme dove visitiamo i due campi profughi più importanti della Cisgiordania, l’Aida e il Dheishesh Camp. 
Arrivati al check point Betlemme 300, prendiamo un taxi per visitare i posti più importanti in poco tempo. È una giornata molto calda e io mi godo il vento sui capelli affacciandomi al finestrino del taxi. Guardo incuriosita e ritrovo cose familiari. Il paesaggio palestinese mi fa sentire a casa perché mi ricorda le case lasciate a metà della mia Calabria, dove il primo piano rifinito lascia spazio agli altri piani lasciati a metà, spogli, fatti solo di mattoni grezzi. Il microcosmo dei campi profughi riproduce gerarchie rintracciabili ovunque: ci si conosce tutti e si capisce subito a chi si deve portare rispetto e chi invece cammina passando inosservato. Il dolore non li ha resi tutti uguali, anzi ne ha dilatato le differenze. Al Dheishesh Camp ci ritroviamo a festeggiare la liberazione di un detenuto palestinese. Sono tutti pronti ad accoglierlo con sciarpe e bandiere. La sua casa si è trasformata nel punto di arrivo di una maratona, il traguardo di una lunga corsa. Al nostro arrivo, c'è chi mostra maggiori resistenze a un sorriso e chi invece fa di tutto per comunicare attraverso un traduttore online. Basta poco però per farci sentire a nostro agio: dopo qualche sguardo sospettoso e freddo, ci riservano una accoglienza inaspettata.
Il prigioniero appartiene al Fronte popolare per la liberazione della Palestina, la stessa organizzazione di Leila khaled, l
a pasionaria famosa per essere stata la prima donna ad aver partecipato al dirottamento di un volo per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla questione palestinese.
Il Dheishesh camp, il più grande di tutta la Cisgiordania, è stato costruito nel 1949 per ospitare i profughi fuggiti durante la guerra arabo-israeliana. Il conflitto mediorientale è ormai una certezza tanto che l’Alto Commissariato per le Nazioni Unite per i Rifugiati, UNHCR, ha creato un’agenzia solo per questa emergenza. Oggi non ci sono più le baracche iniziali e il campo è pieno di abitazioni arrangiate tanto da sembrare un quartiere popolare più che un campo profughi.
Ad alcuni fa piacere condividere con noi il tempo di un saluto o di uno scambio di poche parole in inglese: “Where do you come from?” ci chiedono di continuo, in un inglese segno del lascito del mandato internazionale dell'Inghilterra. Sorridono alla nostra risposta, aggiungendo il loro welcome pronunciato con la o chiusa.
Probabilmente i parenti desiderano godersi in intimità quell’uomo che ha fatto ritorno a casa. Gli stringiamo la mano ma lui è evidentemente perplesso, non parla inglese e non capisce perche siamo lì a festeggiare con loro, qualcuno forse gli spiega che siamo due turisti. 
Ci sono circa trenta gradi: la loro primavera è la nostra estate. Sono talmente accoglienti che pur non avendo niente non vogliono farci pagare nulla, così come in una piccola bottega dove ci fermiamo a prendere un tè.
  
Mentre chiacchieriamo con alcuni ragazzi, la nostra presenza genera la curiosità di chi abitualmente frequenta quel posto; c’è chi sbircia, chi saluta e chi si ferma, come un ragazzo sulla ventina: terzo anno di scienze politiche, si è fatto qualche mese di carcere per la sua attività politica contro l'occupazione israeliana. La maggior parte dei palestinesi, se non ci è finito direttamente, ha almeno un parente nelle prigioni d'Israele. Mi fermo a comprare una bottiglia d’acqua prima di lasciare il Dheishesh Camp e vedo passare un ragazzino il cui volto sembra essere rappresentato nel murale accanto a lui: il ragazzo si ferma proprio accanto al murale. 
Vi avvicina un uomo e, giustificando quell'impressionante somiglianza, ci spiega che si tratta dello zio del ragazzo. Purtroppo non riesco a prendere nessuna informazione su quell'uomo rappresentato sul muro, se non che fosse un palestinese nato nel 1978, come si legge dalla data riportata sul murale, morto sicuramente per la causa del suo popolo. Quel ragazzino, scolpito nella mia testa, si ferma proprio davanti a quell'immagine e con l’indice tocca la guancia del martire, come la più forte delle sue certezze, il più duro dei giudizi: "Chi è stato a ucciderlo?"  
Tutto è racchiuso in pochi secondi. 
Nablus e Jenin
Nablus è tra i centri più grandi della Palestina: probabilmente è seconda solo a Ramallah, quartier generale della Palestina, per quanto i palestinesi considerino Gerusalemme Est la loro capitale.
Nablus è famosa in tutto il mondo per le sue fabbriche di sapone, come quella dei fratelli Toukan. I pochi operai dediti al mescolamento del magma di soda caustica e olio di oliva e all’impacchettamento di ogni singolo cubetto di sapone, ci hanno permesso di farci visitare la fabbrica: tra le saponette accatastate a formare torri e torri di sapone, un uomo in ginocchio, quasi nascosto, dedica all’impacchettamento dei cubetti quattro movimenti ripetitivi in modo da ricoprire ogni saponetta con una carta 
leggerissima.
Andare a Jenin è stato soprattutto vedere il Freedom Theatre: a nord della Cisgiordania esiste questa piccola comunità dove la resistenza è fatta anche attraverso il teatro. Una “vibrante e creativa comunità artistica", come si legge sul sito della scuola di Teatro che dal 2006 opera nel campo di Jenin per permettere ai profughi di emanciparsi.
“Una ragione per vivere più che una per morire da martiri”, come spiega un ragazzino nel video di presentazione del Teatro della libertà. Quando arriviamo, purtroppo, il teatro è quasi deserto, c'è solo una persona che si offre di spiegarci un po' di cose sul teatro: ci parla degli spettacoli, della scuola teatrale e di come un loro vecchio allievo abbia partecipato a un film candidato agli Oscar come miglior film straniero, “Omar” sorpassato dalla “Grande bellezza”. Prima di salutarli gli dico che ti conosco, Luisa: “Quando la Palestina diventerà uno Stato a tutti gli effetti Luisa Morgantini avrà qui la cittadinanza onoraria!” 
– ci dice l’uomo congedandosi – “Luisa ha fatto tanto per questo teatro soprattutto dopo l’omicidio di Juliano Mer-Khamis”, una delle principali voci della comunità. Secondo quanto riportato dalle agenzie di stampa, Juliano sarebbe stato ucciso da un uomo incappucciato il 4 aprile del 2011. Era un arabo israeliano, attivista, nato da una ebrea comunista - la fondatrice del teatro delle pietre, il padre di questa comunità  e da un palestinese. Era il cuore di questa terra "al cento per cento israeliano e al cento per cento palestinese" come amava definirsi. Ed è forse tutto quello da cui si può ripartire per ricucire gli strappi del conflitto.
Hebron
Quando ti ho inviato quel messaggio, Luisa, mi trovavo a Hebron, la spettrale cittadina trasformata dalla guerra per rivendicare territori e nuovi spazi. 700 coloni si sono posizionati all’interno della cittadina facendo chiudere più di duemila negozi palestinesi. Nessuno smetteva di ricordarcelo camminando tra le saracinesche arrugginite, sotto lo sguardo immobile dei militari israeliani in grado solo di muovere le loro armi senza dare segnali di umanità. Qui la storia sembra prendersi gioco delle cose: proprio Hebron, la città che unisce i devoti delle tre religioni monoteiste al mondo, essendo lì seppelliti i tre patriarchi comuni a cristiani, musulmani ed ebrei, è la città più divisa. Quelle poche persone che ho visto, più che in carne ed ossa, sembravano ombre, camminavano come fossero i resti di se stessi, brandelli, senza più speranza, tanta era la sensazione di fine che vedevo nei loro sguardi. Così come un anziano, così vecchio da camminare quasi totalmente ricurvo da non vedere più il cielo, con la faccia distrutta dal tempo e dal sole che, senza staccare la sua mano dalla mia, ci ha portati in giro per la città a vedere ciò che il conflitto e tanti anni di occupazione israeliana hanno lasciato: macerie e disperazione.
Mar Saba  
C’è un posto nei pressi di Betlemme, il monastero greco-ortodosso di Mar Saba che nasce nel terreno arido di questi posti, nella valle di Kidron. Ne è proibita l’entrata alle donne perché il Santo Saba, le donne, non ce le voleva. Si tratta di uno dei monasteri più antichi al mondo posizionato a est di Betlemme.
Mentre il mio compagno di viaggio si avventura a fare foto panoramiche salendo su per la montagna, io mi fermo e mi dico che quel percorso non fa per me. C’è un sole impossibile e io e il tassista, Murad, ci sediamo ad aspettare. Seguo con gli occhi il mio compagno di viaggio, lo perdo di vista, poi lo rivedo e mi rassicuro: è arrivato in cima e immagino sia stanchissimo. Nel frattempo mi rilasso e aspetto. Murad mi sorride, mi fa un sacco di domande e poi, dopo un po’ di silenzio passato a sopportare l'afa mi dice: “Non sono felice” 
– e rimango spiazzata per quella rivelazione improvvisa fatta a me, una perfetta sconosciuta.
Si toglie gli occhiali: ha gli occhi grandissimi e cadenti, e tanti muscoli come se volesse nascondere la dolcezza nella forza fisica. Io rispondo guardandolo negli occhi, lui continua a parlare. Mi dice anche che non ha mai conosciuto una donna e io non riesco a crederci. “Se guardi una donna poi te la devi sposare e per sposarti devi avere tanti soldi”.
"Mi piacerebbe viaggiare" – dice ancora guardando il cielo terso e io me lo immagino seduto su un aereo in giro per il mondo a realizzare i suoi sogni. Murad ha da poco i documenti palestinesi; prima sul suo passaporto c’era scritto Giordania. La Palestina, fino al 29 novembre 2012, non esiste per il diritto internazionale: con la storica risoluzione 67/19 acquisirà lo status di stato osservatore, quella condizione giuridica che ora gli permette di partecipare alle attività delle Nazioni Unite ma senza diritto di voto né di proposta.
Il vivere quotidiano in Palestina sembra essere difficile ma provo lo stesso a dirgli che se non è felice deve poter credere di cambiare la sua vita. Lui è infastidito, non ci crede. Non so più cosa dire. Cambiamo argomento, torna il mio compagno di viaggio e continuiamo il nostro giro fino all’Herodium, la suggestiva collina a forma di tronco di cono su cui Erode fece costruire una fortezza.
Salutiamo Murad, ci abbracciamo e lui mi lascia una cartolina che riproduce un disegno del muro di separazione: è un invito alla pace “make hummus not wall”.
Torniamo verso Gerusalemme. Il nostro viaggio sta per terminare.
Il ritorno
“Sono stata qui con mio marito ventisei anni fa, avevo la tua età” – mi dice in inglese una gentile signora polacca, mentre si rilassa in uno dei tanti divani dell’ostello che si affaccia sulla Porta di Damasco, a Gerusalemme.
Vuol parlare e mi guarda con gli occhi spalancati di chi sembra riconoscersi in me. Io invece non vedo l’ora di dormire. Il viaggio è stato pesante e ha tagliato molte delle mie ore di sonno. Ormai sono proiettata al ritorno, a ciò che mi attende nella quotidianità di Roma, al mio dottorato e alla tesi ancora tutta da scrivere. Ripenso ai sorrisi delle bambine del Dheishesh camp mentre giocano a calcio. E non riesco a fare altro...
Mi affaccio al balconcino dell’ostello per pensare a cosa sto lasciando. Mi viene la voglia di uscire per tornare su una delle tante terrazze di Gerusalemme, una terrazza a cui mi ero 
affezionata, per portare con me un'immagine definitiva della città. Non ho dubbi: l'immagine è la Cupola della Roccia.   
La Cupola l’avevo ammirata da più posti: l’avevo vista da vicino, seduta sugli scalini della bilancia delle anime dalla Spinata delle Moschee e dal Monte degli Ulivi, dove avevo visto tutta la Città Santa, con la Cupola della Roccia, sullo sfondo, ad autenticare e far brillare quel panorama.
Così mi decido e vado lì, proprio su quel terrazzino per indirizzare il mio sguardo verso il Muro del pianto, oltre il quale splende l’oro della Cupola; mi siedo senza fare niente se non osservare e scattare qualche foto.
Il viaggio è quasi finito. Prepariamo i bagagli con la musica di Amarcord in sottofondo che già mi parla di quel viaggio come di un ricordo. Sono triste. La riproduzione casuale dei brani probabilmente non è affatto casuale. Ho già nostalgia.  
Rientriamo in Italia, io senza valigia, ahimè: il mio bagaglio smarrito nella tratta Tel Aviv - Belgrado mi ha fatto pensare che, probabilmente, qualcosa di me, qualcosa del viaggio, voleva rimanere lì.  
Ciao Luisa, grazie. Ti saluto nell’attesa di rivederci presto.

Luisa

venerdì 23 maggio 2014

Oggi e sempre ... 23 maggio



L'antimafia mi sembra un po' come un sport. Che bisogna dire che la mafia è cattiva perché fa bene alla salute e alla reputazione. Poi in fondo è sempre la solita storia del "predicare bene e razzolare male" perché in fondo si continua ad insegnare ad essere furbi e non giusti. Di una cosa, infatti, credo che ormai siamo tutti certi: la mafia è il dispositivo del potere e non la rozza articolazione delle 'ndrine che lottano per il predominio sul territorio.

Così come l'anno scorso, anche quest'anno, il 23 maggio, avevo deciso di non scrivere nulla. Mi sembrava una banalizzazione delle cose: scrivere qualcosa come fanno tutti, adeguarsi.
Ma il silenzio ma non mi sembra neanche una via da percorrere: fare finta di nulla annienta chi ci crede davvero, cancella quelle frasi che si trasformano in azioni quotidiane.
Sono soprattutto le persone più intelligenti, più lucide, ad adottare la tecnica del silenzio o, addirittura, della critica verso chi ricorda.
Ma del silenzio non so che farmene soprattutto se si trasforma in un modo per pulirsi la coscienza, un modo per dire "almeno io sono coerente".

E allora non avremmo dovuto piantare quell'ulivo nel 1993 a Crotone in via Giacomo Matteotti. Quell'ulivo, di concreto, fa poco, sta lì fisso, da anni, per ricordare. Solo per quello. Il valore della memoria sta tutta lì, o meglio, inizia da lì. Per ricordare e trasformare in gesti spontanei ciò che oggi dobbiamo obbligarci a fare: pensare in termini di bene comune. Un giorno ci verrà naturale.

Per adesso, mi accontento di utilizzare queste parole come una sana persecuzione quotidiana che ci faccia venire milioni di sensi di colpa quando a prevalere sia il benessere individuale e non collettivo.






domenica 18 maggio 2014

Cielo verde

Cielo e verde si fondevano.

Il verde di terra perdeva qualcosa in salita e diventava blu cielo perché quella parte di verde, il giallo che non era ancora sole, non sapeva volare.

Ma erano solo una cosa terra e cielo. Solo le nuvole sapevano dividere ciò che era di questo tempo da ciò che era eterno. 


venerdì 18 aprile 2014

Se guardi dal margine, al limite, vedrai tutto, o quasi





L’ho sempre pensato che quel volto mi avrebbe dato soddisfazioni. Prima di leggere qualcosa di Marquez, ho visto qualche sua foto, l’ho guardato virtualmente in faccia, attraverso qualche ritratto. E mi è piaciuto. L’espressione che generavano i suoi occhi sorridenti a metà, creava sollievo al mio margine. E così ho saputo che quello che scriveva mi sarebbe piaciuto. Forse perché assomiglia a mio padre: la gente con i baffi, in effetti, mi ha sempre fatto una certa simpatia.
Vivere una vita, "indicando le cose sempre con il dito", senza un nome per ingabbiarle. 
La sua solitudine ha fatto diventare la nostra meno forte: e io, noi, scriviamo per quello.
Buon viaggio Gabo: che tu possa essere ricordato, che la memoria sia droga, rifugio e libertà.



lunedì 31 marzo 2014

Alice Munro e le città di Calvino - 'cercare e sapere riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio''

Caro Direttore,
(...) le scrivo a proposito del suo editoriale che sembra quasi una coincidenza, un "cader sopra" un'altra cosa che stavo rileggendo proprio in questi giorni.
Si tratta della presentazione delle "Città Invisibili" di Italo Calvino, in cui l'autore parla della linearità non convenzionale che spesso certe cose esprimono e del loro non essere munite di una unica via di uscita ma di molte strade, come il titolo del suo editoriale tratto da una riflessione di Alice Munro...

"Quasi tutti i critici si sono soffermati sulla frase finale del libro: 'cercare e sapere riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio'. Dato che sono le ultime righe, tutti hanno considerato questa come la conclusione, la 'morale della favola'. Ma questo è un libro fatto a poliedro, e di conclusioni ne ha un po' dappertutto, scritte lungo tutti i suoi spigoli; e anche di non meno epigrammatiche o epigrafiche di quest'ultima. Certo, se questa frase è capitata in fine del libro non è a caso, ma cominciamo col dire che quest'ultimo capitoletto ha una conclusione duplice, i cui elementi sono entrambi necessari: sulla città d'utopia (che anche se non scorgiamo non possiamo smettere di cercare) e sulla città infernale. E ancora: questo è solo l'ultima parte del 'corsivo' sugli atlanti del Gran Kan, per il resto piuttosto trascurato dai critici, e che dal primo pezzo all'ultimo non fa che proporre varie possibili 'conslusioni' a tutti il libro. Ma c'è anche l'altra via, quella che sostiene che il senso di un libro simmetrico va cercato nel mezzo: ci sono critici psicoanalitici che hanno trovato le radici profonde del libro nelle evocazioni veneziane di Marco Polo, come un ritorno ai primi archetipi della memoria; mentre studiosi di semiologia strutturale hanno detto che è nel punto esattamenbte centrale del libro che bisogna cercare: e hanno trovato un'immagine di assenza, la città chiamata Bauci. Qui è chiaro che il parere dell'autore è di troppo: il libro, come ho spiegato, si è fatto un po' da sé, ed è solo il testo com'è che può autorizzare o escludere questa o quella lettura. Come lettore tra gli altri, posso dire che nel capitolo quinto, che sviluppa nel cuore del libro un tema di leggerezzza stranamente associato al tema di città, ci sono alcuni dei pezzi che considero migliori come evidenza visionaria, e forse queste figure più filiformi ('città sottili' o altre) sono la zona più luminosa del libro.
Non saprei dire di più".
(...)
Grazie,
Luisa Foti


Gentile Luisa,
Grazie per la sua email e per avermi segnalato la riflessione di Calvino. Devo ammettere che l'aspetto che più mi ha colpito è quel richiamo al libro che si fa da sé, e che diventa autonomo a tal punto che l'autore ne è solo "un lettore tra gli altri". Un concetto già espresso da altri, scrittori, registi, artisti figurativi e astratti, ma che Calvino sintetizza in modo piuttosto efficace.

Un cordiale saluto,

Giovanni

giovedì 6 marzo 2014

Tra ricordo e recensione: il ritorno di Galoni con “troppo bassi per i podi”


Quando non c’erano i navigatori satellitari, ci si poteva perdere. E ora c’hanno tolto anche questo. Parte da questa intuizione, il secondo album di Galoni, cantautore laziale che torna con “Troppo bassi per i podi” a due anni da Greenwich, l’album di formazione, il fratello maggiore di un disco che esprime, sin dal titolo, la rinuncia a stare sul podio, a confrontarsi con le classifiche, nell’amara consapevolezza di  “vite omologate a non avere casa”.

La voce è inconfondibile, quella ambrata di una rossa alla spina, cambiano le musicalità, rafforzate dalla dolcezza di un violino, con ukulele, chitarra e percussioni al solito posto.
Spicca Galoni che, con l’amico e direttore artistico Emanuele Colandrea, ricrea serate da bar di periferia, quando ti fermi ad ascoltare, per caso, qualcuno di cui avevi sentito parlare, e tra il fumo di fumatori anarchici noncuranti della legge Sirchia, intravedi l’artista con una chitarra, i suoi musicisti e tanto cuore: un altro tempo.

“C’ho messo tempo”, è la classica ballata folk, semplice e immediata che si affianca a “primavere arabe” per il suo mai sopito interesse per i sud del mondo. Con “tu dì loro che sto bene”, assapori l’aria da tempo perduto, quello della malinconia da desiderio e in “carta da parati” ascolti uno dei pezzi più intensi dell’album. L’attacco di “ballata sulla gru” ricorda l’inizio di un’indimenticabile canzone del grande Neil Young con uno straordinario assolo del violino che fa vibrare l’interno pezzo; “ho perso palla a centrocampo”, con le immancabili metafore calcistiche, per chi del calcio ne ha sempre fatto una questione poetica. 

E poi c’è che dopo aver scritto queste righe, al di là del condimento con aggettivi che il più possibile rendano l’idea di album che dovete ascoltare per capire, per me torna un amico con il suo nuovo album. Sì, perché anche se io, Emanuele, l’ho visto solo due o tre volte nella vita l’ho subito sentito amico, come qualcuno con cui avrei potuto condividere il pane. Sarà stato quel concerto di Bob Dylan visto insieme. Non so. Ma forse ha a che fare con le sue storie: hanno il sapore di appunti, resoconti, di schizzi a matita, in bianco e nero – “da mercatino dell’usato”, come qualcuno ha scritto in questi giorni – spunti che mi impongono di restare anche quanto è troppo tardi. Quando penso a Galoni, penso a qualcuno che prende una sedia e te lo ritrovi seduto a cantare con una chitarra d’accompagnamento.
E m’immagino di nuovo in quel bar in cui sono entrata per caso, in una serata infrasettimanale e m’immagino d’andare via perché troppo tardi, “perché domani si lavora” ma sento un’altra nota e m’impongono di restare. Domani si lavora, sì, ma oggi si fanno le 4 ad ascoltare musica.

Sono quelle serate che non dimenticheremo ma che non appaiono sulle nostre facce quando consegniamo i curriculum, quando andiamo a lavorare per poche lire al mese, quando stiamo sulla metropolitana ad aspettare la nostra fermata. Come “la parte degli angeli”, è tutto ciò che c’è stato ma che evapora, non rimane in superficie, ma che serve a fare la qualità di un buon whisky.

E prima che se ne vada in giro per l’Europa a far live, ascoltatelo a Roma il 5 aprile.

Una piccola grande bellezza, tanto per rimanere popolari.

Il Premio Nobel per (la non) pace




In grande onestà ho pensato ad uno scherzo, uno scherzo ben architettato. Poi ho visto che il primo di aprile è ancora lontano e ho cominciato a preoccuparmi. La lista delle politiche sbagliate di Putin è infinita e probabilmente Vladimir, l’ex agente del kgb, non arriverà a prendere mai questo premio ma il solo fatto che il suo nome figuri in quella lista mi fa venire la nausea. Madre Teresa di Culcutta, Aung San Suu Kyi, Shirin Ebadi, Nelson Mandela sono nomi che non meriterebbero di essere accostati al suo, neanche come possibilità.
E così mi sono dovuta immaginare un’altra soluzione, cercando di razionalizzare: "sì, avranno fatto un pasticcio, una specie di gioco dei contrari", ho pensato. Una dislessia sui generis che si fa beffa del pensiero e indirizza il linguaggio ai termini contrari rispetto a quelli pensati: così se si pensa ad un riconoscimento per Putin si parla di Nobel per la pace quando è chiaro che in testa si aveva il concetto di Nobel per la guerra.
Senza entrare nel merito della legge anti-gay - una delle più grandi espressioni di come il regime di Putin sia ampiamente al di sotto della soglia di quantità di democrazia di cui possono cibarsi i suoi cittadini - ho pensato ad Anna Politikovskaja...