giovedì 2 maggio 2024

Issa Amro, l'articolo del New York Times sul "Gandhi palestinese"

Il 7 ottobre, mentre l'esercito israeliano si preparava ad attaccare Gaza, Issa Amro, legato allo schienale di una sedia, bendato e imbavagliato, subiva pestaggi, torture e anche violenze di natura sessuale ad opera dei soldati israeliani per più di 10 ore in una base militare.

Oggi Nicholas Casey del Magazine del New York Times ha dedicato un pezzo al “Gandhi palestinese”, Issa Amro, qui fotografato da Paolo Pellegrin della Magnum.


Issa non è un terrorista ma un attivista per la causa palestinese. Ho conosciuto Issa esattamente dieci anni fa a Hebron, la città nella quale l’occupazione israeliana mostra il suo volto peggiore; qui Issa ha fondato Yas (Youth Against Settlements), un gruppo di giovani che lotta da tempo contro gli insediamenti illegali attraverso la disobbedienza civile e azioni non violente.

Solo andando nell’antichissima città dei patriarchi è possibile capire cosa significhi vivere con i check-point: così come in molte zone dalla Cisgiordania occupata, a Hebron non esiste libertà di circolazione e per andare da una strada all’altra è spesso necessario attraversare più di un check-point, farsi perquisire e correre il rischio di non riuscire passare o di attendere ore e ore per tornare a casa o andare a lavoro.

Issa Amro, che è stato arrestato e picchiato per il suo attivismo molte altre volte, da anni resiste con una lotta non violenta in un momento in cui la violenza è diventata inevitabile.

Il pezzo  del NYT si legge qui:

Issa Amro’s Nonviolent Resistance in the West Bank - The New York Times (nytimes.com)



lunedì 29 aprile 2024

Come si raccontano gli esteri? La lezione di Francesca Mannocchi

L'ultimo episodio di Globo è, soprattutto, una lezione su come si raccontano gli Esteri e, più in generale, su come si fa giornalismo. 
 
Nella puntata live del podcast, Eugenio Cau è tornato a intervistare Francesca Mannocchi, una “giornalista di storie”, come si è definita lei stessa, preferendo questa descrizione a “inviata di guerra”. 

 Una delle cose che emerge da questa puntata circa il modo più efficace di raccontare gli esteri è la capacità di sintesi, un’attività assai sottovalutata quando ci si sofferma sull’aspetto più romantico e spesso abusato dell’inviato. La sintesi non è soltanto la capacità di riassumere o un’attività quantitativa che consiste in una mera sottrazione. Quando la Mannocchi parla di “sintesi” parla infatti della necessità “tradurre” il contenuto tecnico di un fatto di rilievo giornalistico nella “lingua” di chi legge, in modo che possa essere compreso: 

 “Ho tanto riflettuto su quale dovrebbe essere il modo, non migliore, ma più utile di dire le cose - spiega la giornalista - io posso studiare un mese, leggere i testi più interessanti di sociologia militare ma devo essere in grado di sintetizzare quei testi e quello studio in modo che siano immediatamente comprensibili da chi leggerà il mio articolo o vedrà il mio reportage una sola volta (…) e in quell’unica volta deve capire”. 

 La Mannocchi si sofferma poi su un punto che rappresenta un altro metodo per raccontare con efficacia gli esteri: partire dalle storie delle persone. Andando al di là del dolore individuale, del dolore in sé, le storie dei singoli individui spesso riescono a incarnare la storia collettiva, la storia politica di un Paese attraverso il metodo deduttivo, dal particolare al generale, a patto però che queste storie ne abbiano le potenzialità. Proprio in questo sta la bravura del giornalista, nella scelta delle storie giuste, come ha fatto Francesca Mannocchi con la storia di Fakhri Abu Diab: 

 “Credo che dobbiamo diventare bravi, soprattutto rispetto a crisi così complesse, chiedendoci: ho la storia di questa persona davanti a me che generosamente mi sta consegnando la sua vita, cosa mi vuole dire questa storia? È la storia di un dolore? No è la storia di un atto politico. 

Gerusalemme Est, quartiere di Silwan. Fakhri Abu Diab, 60 anni circa, portavoce da decenni del movimento contro la presenza dei coloni a Gerusalemme Est occupata, si sveglia una mattina e si accorge che l’ordine di demolizione pendente sulla sua casa verrà messo in atto (questa cosa è successa un mese e mezzo fa). 
La sua casa viene effettivamente demolita: questa potrebbe essere la storia di un’ordinaria disperazione di un cittadino palestinese nella Gerusalemme Est occupata oppure potrebbe diventare una storia di un’ordinaria disperazione che ci racconta qualcosa della pratica dell’occupazione: e cioè quella casa viene demolita perché gli israeliani ritengono che non abbia i permessi e che quindi sia abusiva; le case demolite sono spesso abusive? Sì lo sono, perché lo sono? Perché i palestinesi chiedono i permessi e, di cento permessi che chiedono, solo il 3% viene approvato. Contemporaneamente, i coloni israeliani chiedono lo stesso numero di permessi e li ottengono in 48 ore. 
Questo ha fatto sì che negli ultimi decenni la costruzione delle colonie e degli insediamenti fagocitasse intere aree di Gerusalemme Est occupata”. 

 La storia di una persona anziana a cui viene demolita casa può rimanere solo l’istantanea di una storia di disperazione oppure trasformarsi in qualcosa che ci permette di capire davvero in cosa consista la colonizzazione di Gerusalemme Est occupata o anche di riflettere di quanto sia cambiata la pratica delle demolizioni negli ultimi 10 anni.

“Il nostro ruolo - chiude la giornalista - è unire i puntini e liberare i palestinesi dalla retorica della disperazione, dando loro la dignità della responsabilità”.

giovedì 11 aprile 2024

Hai mangiato?

Tutti si ricordano la storia di Hind, la bambina uccisa a Gaza dall’IDF e rimasta per cinque ore, le ultime della sua vita, in una macchina piena di cadaveri prima di morire. La macchina era stata colpita dai tank israeliani. Hind era riuscita a sopravvivere.
Poi si era spenta, mentre era al telefono con sua madre.

Fabio Tonacci è riuscito a trovare la madre della piccola Hind, Wissam Hamadah, e l’ha intervistata. Un ricordo, in particolare, colpisce il giornalista di Repubblica e cioè la premura o la fissazione di ogni madre rispetto ai suoi figli, anche quando stanno morendo: se hanno mangiato.

 Pare che Elsa Morante fosse ossessionata dalla maternità e da questa preoccupazione. Chiedeva alla gente quale fosse la frase d’amore più importante di tutte, quella capace di raccoglierne il senso più profondo, ultimo. «La frase d’amore più vera, l’unica è: hai mangiato?» Ed è il pensiero fisso di ogni madre.

Questa citazione pare non faccia parte dei romanzi della Morante ma viene attribuita a lei e riportata da molti, anche con diverse varianti. Non ho la certezza che quel pensiero possa essere attribuito proprio alla scrittrice.
Di sicuro, in quella frase, c’è molta verità perché è quella fissazione che Wissam tira fuori dai suoi ricordi quando pensa a sua figlia: Hind è morta a stomaco vuoto.

Si ricorda questo Wassim quando racconta di quel giorno a Fabio Tonacci nell’intervista pubblicata oggi su Repubblica a pag. 14: «È morta a stomaco vuoto, la mia Hannud. Non sono riuscita nemmeno a darle i biscotti».
L’ultima premura di una madre nell’ultimo giorno della figlia: a un uomo non sarebbe venuto in mente un ricordo così. Ma le mamme non smettono mai di preoccuparsi per i figli, neppure quando sono morti. E la memoria si aggrappa a ciò che trova. La guerra di Gaza ha riservato alla palestinese Wissam Hamadah la sorte più indecente: in una sera d’inverno, le ha rubato il diritto di proteggere Hind, lasciandole però il dovere di sentirla morire al telefono. Di quel 29 gennaio Wissam non ha dimenticato niente”.

L’intervista si legge qui:
https://www.repubblica.it/esteri/2024/04/10/news/madre_hind_gaza_bambina_scomparsa-422454075/amp/

Il nome segreto, l’esordio letterario di Olga Gambari

Remember the First Time You Saw Your Name: è dalla visione dell’artista contemporanea Marinella Senatore che nasce “Il Nome Segreto”, il primo romanzo di Olga Gambari, giornalista, curatrice d’arte e docente che entra nel mondo della letteratura attraverso la storia di Eva.

La protagonista si immerge nella magia del circo – di cui l’autrice sfoggia un sapere enciclopedico – e nelle città europee più belle – da Venezia, a Cardiff, da Barcellona a Palermo, da Parigi, a Genova, da Nizza fino a Berlino e Bologna – come una Ulisse di oggi, intraprendendo un viaggio inizialmente per scappare ma, in definitiva, per superare un dolore indicibile su cui si erano posati silenzio e reticenze per venti anni.

Sono tante le vite a cui si aggrappa la protagonista prima di rimanere appesa solo alla sua identità ultima, non la più vera, ma l’ultima, la somma di tutte: Eva. E non poteva che partire frammentando il suo io e spargendone pezzettini ovunque, creando nuove identità, tutte quelle che aveva dentro perché “nessuno sa quanti esseri è, quanti ne contiene”, per riprendere, come fa l’autrice, una citazione del più importante scrittore e poeta portoghese Pessoa.

Nel libro c’è arte, cinema e musica, il mondo dell’autrice: c’è la Bella Époque in apertura, quel periodo straordinario di pace e benessere prima delle guerre mondiali, quasi a dirci, sì ora è tutto calmo, adesso però inizia il conflitto; c’è la musica punk dei Dead Kennedy e un famoso concerto degli U2; c’è il suono del violino tzigano di Momon, c’è il cinema dorato di Zampanò, gli angeli di Wim Wenders e ancora tanta altra musica come il blues di Billie Holiday e quella più contemporanea dei Placebo.

È attraverso l’arte che scopriamo uno degli elementi fondamentali di questa narrazione: grazie al quadro di un artista tedesco Paul Friedrich Meyerheim, Al circo, 1861, al Museo di Berlino, entra in scena il circo. Elemento poetico per antonomasia e strumento di emancipazione esistenziale, il circo simboleggia la sovrapposizione tra realtà e finzione e permette a Lupo – un alter ego della protagonista – ed Eva di ritrovare la loro dimensione. Il circo è tutto: se ci credi, in quel momento, è reale.

E l’arte è sempre il viatico, lo strumento per arrivare a un livello di consapevolezza più alto: è grazie a Nefertiti che Eva si apre con Lupo e rivela ciò di cui non aveva mai parlato a nessuno.

È un libro che s’inserisce nella tradizione letteraria che vede il viaggio come strumento di conoscenza e scoperta di se stessi, di superamento dei limiti, un tema fondamentale per tutta la tradizione letteraria occidentale da Omero in poi. È un libro che non segue un flusso narrativo lineare, né una cronologia degli eventi ma alla fine tutto si ricollega; è un romanzo ricco di immagini, come se la penna della scrittrice fosse una telecamera che entra nei luoghi per farci vedere quello che le parole costruiscono con grande verità in ogni suo dettaglio, con suoni, colori e odori; è, infine, anche un romanzo di formazione in cui i due protagonisti cercano il loro posto per stare al mondo, tra esistenze ordinarie e nomadismo anche interiore.

Eva, che all’inizio del suo viaggio è un “castello circondato da acqua senza ponte levatoio”, va alla ricerca del suo ponte e proprio il viaggio è il suo ponte, prima per Cardiff e poi per l’ultima meta, Barcellona, dove accetta la realtà da cui è sempre fuggita: Eva assume l’identità di Nives quando questo accade, e accade come una rivelazione. C’è tutto: distruzione, attraversamento, morte e, in definitiva, rinascita. E verso la fine, con una scrittura con ritmi serrati da togliere il fiato, finalmente Nives perde tutte le sue identità e torna a essere Eva per mezzo di un sogno perché, come scrive Miró, “solo quando sogno vedo chiaro”.

sabato 6 gennaio 2024

Le regole di ingaggio dei soldati israeliani e l'uccisione dei tre ostaggi

"Secondo un rapporto del 2022 del gruppo israeliano per i diritti umani Yesh Din, basato sui dati forniti dall'esercito per gli anni dal 2017 al 2021, solo il 20% delle 1.260 denunce dei palestinesi su presunti reati commessi da soldati israeliani sono state indagate; di queste, meno dell'1% ha portato a un'accusa penale".
Si parla anche di questo in un pezzo uscito il 4 gennaio 2024 per il New York Times a firma Robi Caryn Rabin, inviata da Gerusalemme, sulle violazione delle regole di ingaggio dell’IDF nel caso delle uccisioni – ma sarebbe meglio parlare di "esecuzioni" per le modalità in cui sono avvenute – dei tre ostaggi a Gaza.

Il fatto aveva scioccato l'opinione pubblica in quanto gli ostaggi erano stati uccisi nonostate si trovassero a petto nudo, a riprova di non portare armi, e sventolassero una bandiera bianca in segno di pace.

Le associazioni per i diritti umani dicono che le regole di ingaggio ci sono, il problema è che l’esercito non si adegua e questo episodio fa riflettere anche su come l'IDF si comporti nei confronti dei palestinesi. Ben prima della guerra a Gaza, infatti, le associazioni umanitarie avevano accusato l'esercito di non rispettare le regole nella Cisgiordania occupata e di non punire i soldati che le avevano violate.

La Rabin racconta anche di un episodio analogo avvenuto a novembre: un soldato aveva ucciso un avvocato israeliano, reputandolo un palestinese; come si evince da un video, l'avvocato, che si era prodigato di inseguire due palestinesi armati, si trovava a terra inerme mentre implorava il soldato di non sparare. Eppure il soldato aveva aperto il fuoco lo stesso.

In teoria, l'esercito ha le sue regole che si esprimono anche all'interno dello "Spirito dell'IDF", il libricino che tutti i soldati tengono in tasca, contentente i valori militari guida. Le regole però non venogno rispettate e, nella maggioranza dei casi, i soldati trasgressori non vengono perseguiti.

Anche Daniele Raineri ne aveva parlato in un pezzo pubblicato su Repubblica.it il giorno di Natale:
"È complicato capire che cosa succede sul campo nel settore nord della Striscia di Gaza  - scrive l'inviato di Repubblica - perché è un paesaggio di rovine dove soldati israeliani e uomini di Hamas combattono a volte negli stessi metri quadrati. Ma una sequenza di fatti e di testimonianze credibili fa pensare che alcuni cecchini israeliani in quella zona violino le regole di guerra, non facciano distinzioni fra combattenti e civili e quindi sparino anche contro i civili."