lunedì 31 marzo 2014

Alice Munro e le città di Calvino - 'cercare e sapere riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio''

Caro Direttore,
(...) le scrivo a proposito del suo editoriale che sembra quasi una coincidenza, un "cader sopra" un'altra cosa che stavo rileggendo proprio in questi giorni.
Si tratta della presentazione delle "Città Invisibili" di Italo Calvino, in cui l'autore parla della linearità non convenzionale che spesso certe cose esprimono e del loro non essere munite di una unica via di uscita ma di molte strade, come il titolo del suo editoriale tratto da una riflessione di Alice Munro...

"Quasi tutti i critici si sono soffermati sulla frase finale del libro: 'cercare e sapere riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio'. Dato che sono le ultime righe, tutti hanno considerato questa come la conclusione, la 'morale della favola'. Ma questo è un libro fatto a poliedro, e di conclusioni ne ha un po' dappertutto, scritte lungo tutti i suoi spigoli; e anche di non meno epigrammatiche o epigrafiche di quest'ultima. Certo, se questa frase è capitata in fine del libro non è a caso, ma cominciamo col dire che quest'ultimo capitoletto ha una conclusione duplice, i cui elementi sono entrambi necessari: sulla città d'utopia (che anche se non scorgiamo non possiamo smettere di cercare) e sulla città infernale. E ancora: questo è solo l'ultima parte del 'corsivo' sugli atlanti del Gran Kan, per il resto piuttosto trascurato dai critici, e che dal primo pezzo all'ultimo non fa che proporre varie possibili 'conslusioni' a tutti il libro. Ma c'è anche l'altra via, quella che sostiene che il senso di un libro simmetrico va cercato nel mezzo: ci sono critici psicoanalitici che hanno trovato le radici profonde del libro nelle evocazioni veneziane di Marco Polo, come un ritorno ai primi archetipi della memoria; mentre studiosi di semiologia strutturale hanno detto che è nel punto esattamenbte centrale del libro che bisogna cercare: e hanno trovato un'immagine di assenza, la città chiamata Bauci. Qui è chiaro che il parere dell'autore è di troppo: il libro, come ho spiegato, si è fatto un po' da sé, ed è solo il testo com'è che può autorizzare o escludere questa o quella lettura. Come lettore tra gli altri, posso dire che nel capitolo quinto, che sviluppa nel cuore del libro un tema di leggerezzza stranamente associato al tema di città, ci sono alcuni dei pezzi che considero migliori come evidenza visionaria, e forse queste figure più filiformi ('città sottili' o altre) sono la zona più luminosa del libro.
Non saprei dire di più".
(...)
Grazie,
Luisa Foti


Gentile Luisa,
Grazie per la sua email e per avermi segnalato la riflessione di Calvino. Devo ammettere che l'aspetto che più mi ha colpito è quel richiamo al libro che si fa da sé, e che diventa autonomo a tal punto che l'autore ne è solo "un lettore tra gli altri". Un concetto già espresso da altri, scrittori, registi, artisti figurativi e astratti, ma che Calvino sintetizza in modo piuttosto efficace.

Un cordiale saluto,

Giovanni

giovedì 6 marzo 2014

Tra ricordo e recensione: il ritorno di Galoni con “troppo bassi per i podi”


Quando non c’erano i navigatori satellitari, ci si poteva perdere. E ora c’hanno tolto anche questo. Parte da questa intuizione, il secondo album di Galoni, cantautore laziale che torna con “Troppo bassi per i podi” a due anni da Greenwich, l’album di formazione, il fratello maggiore di un disco che esprime, sin dal titolo, la rinuncia a stare sul podio, a confrontarsi con le classifiche, nell’amara consapevolezza di  “vite omologate a non avere casa”.

La voce è inconfondibile, quella ambrata di una rossa alla spina, cambiano le musicalità, rafforzate dalla dolcezza di un violino, con ukulele, chitarra e percussioni al solito posto.
Spicca Galoni che, con l’amico e direttore artistico Emanuele Colandrea, ricrea serate da bar di periferia, quando ti fermi ad ascoltare, per caso, qualcuno di cui avevi sentito parlare, e tra il fumo di fumatori anarchici noncuranti della legge Sirchia, intravedi l’artista con una chitarra, i suoi musicisti e tanto cuore: un altro tempo.

“C’ho messo tempo”, è la classica ballata folk, semplice e immediata che si affianca a “primavere arabe” per il suo mai sopito interesse per i sud del mondo. Con “tu dì loro che sto bene”, assapori l’aria da tempo perduto, quello della malinconia da desiderio e in “carta da parati” ascolti uno dei pezzi più intensi dell’album. L’attacco di “ballata sulla gru” ricorda l’inizio di un’indimenticabile canzone del grande Neil Young con uno straordinario assolo del violino che fa vibrare l’interno pezzo; “ho perso palla a centrocampo”, con le immancabili metafore calcistiche, per chi del calcio ne ha sempre fatto una questione poetica. 

E poi c’è che dopo aver scritto queste righe, al di là del condimento con aggettivi che il più possibile rendano l’idea di album che dovete ascoltare per capire, per me torna un amico con il suo nuovo album. Sì, perché anche se io, Emanuele, l’ho visto solo due o tre volte nella vita l’ho subito sentito amico, come qualcuno con cui avrei potuto condividere il pane. Sarà stato quel concerto di Bob Dylan visto insieme. Non so. Ma forse ha a che fare con le sue storie: hanno il sapore di appunti, resoconti, di schizzi a matita, in bianco e nero – “da mercatino dell’usato”, come qualcuno ha scritto in questi giorni – spunti che mi impongono di restare anche quanto è troppo tardi. Quando penso a Galoni, penso a qualcuno che prende una sedia e te lo ritrovi seduto a cantare con una chitarra d’accompagnamento.
E m’immagino di nuovo in quel bar in cui sono entrata per caso, in una serata infrasettimanale e m’immagino d’andare via perché troppo tardi, “perché domani si lavora” ma sento un’altra nota e m’impongono di restare. Domani si lavora, sì, ma oggi si fanno le 4 ad ascoltare musica.

Sono quelle serate che non dimenticheremo ma che non appaiono sulle nostre facce quando consegniamo i curriculum, quando andiamo a lavorare per poche lire al mese, quando stiamo sulla metropolitana ad aspettare la nostra fermata. Come “la parte degli angeli”, è tutto ciò che c’è stato ma che evapora, non rimane in superficie, ma che serve a fare la qualità di un buon whisky.

E prima che se ne vada in giro per l’Europa a far live, ascoltatelo a Roma il 5 aprile.

Una piccola grande bellezza, tanto per rimanere popolari.

Il Premio Nobel per (la non) pace




In grande onestà ho pensato ad uno scherzo, uno scherzo ben architettato. Poi ho visto che il primo di aprile è ancora lontano e ho cominciato a preoccuparmi. La lista delle politiche sbagliate di Putin è infinita e probabilmente Vladimir, l’ex agente del kgb, non arriverà a prendere mai questo premio ma il solo fatto che il suo nome figuri in quella lista mi fa venire la nausea. Madre Teresa di Culcutta, Aung San Suu Kyi, Shirin Ebadi, Nelson Mandela sono nomi che non meriterebbero di essere accostati al suo, neanche come possibilità.
E così mi sono dovuta immaginare un’altra soluzione, cercando di razionalizzare: "sì, avranno fatto un pasticcio, una specie di gioco dei contrari", ho pensato. Una dislessia sui generis che si fa beffa del pensiero e indirizza il linguaggio ai termini contrari rispetto a quelli pensati: così se si pensa ad un riconoscimento per Putin si parla di Nobel per la pace quando è chiaro che in testa si aveva il concetto di Nobel per la guerra.
Senza entrare nel merito della legge anti-gay - una delle più grandi espressioni di come il regime di Putin sia ampiamente al di sotto della soglia di quantità di democrazia di cui possono cibarsi i suoi cittadini - ho pensato ad Anna Politikovskaja...