sabato 5 ottobre 2013

La Politkovskaja e i suoi eredi

Per Anna

Quest'anno il premio Anna Politkovskaja è arrivato alla sua quinta edizione, in un percorso di celebrazione del giornalismo etico, quello che si trasforma in impegno civile, in militanza. Tutto questo era Anna.
La Politkovskaja è morta proprio nel giorno del mio ventiduesimo compleanno, il 7 ottobre del 2006, quando l'idea di poter vivere di giornalismo non era ancora sfumata.
Quel giorno avevo sentito la notizia di questa donna, mamma, intellettuale e giornalista uccisa nell'ascensore di casa sua a Mosca.https://twitter.com/LuisaFoti/status/386260495038423040/photo/1
Volevo sapere chi era e da chi era stata uccisa.
Anna aveva creato non pochi problemi al governo dell'ex Unione Sovietica, con le sue inchieste sulle provate violazioni dei diritti umani in "quell'angolo di inferno", la Cecenia.
A distanza di sette anni, ancora non si sa chi ha armato il braccio che ne ha causato morte. Tra processi da rifare e segreti di stato inconfessabili, sorge il sospetto, o qualcosa di più, purtroppo, sulla responsabilità del regime di Putin. La sua storia rappresenta un paradigma universale: più i regimi sono dittatoriali o falsamente democratici (e noi ne sappiamo più di qualcosa), più cresce, in proporzione, il bavaglio. 
Il principio di conservazione dei regimi obbliga alla eliminazione, anche fisica, di tutti i soggetti 'scomodi' e a disattivare i meccanismi di trasparenza azionati dalla cittadinanza attiva e dalla stampa virtuosa.
Nei regimi, la stampa non è che uno strumento di accrescimento del consenso attraverso un calcolo che trasforma il giornalismo in propaganda e l'informazione in comunicazione.
Diventa (quasi) una regola scientifica, messa in luce dalla Storia e confermata ogni anno da attenti analisti.
Senza guardare al sistema politico specifico di ogni stato, reporter senza frontiere evidenzia questo dato: la stampa è maggiormente limitata nei paesi in cui i diritti non sono garantiti nè il potere separato.


http://rsfitalia.org

"La Classifica della Libertà di Stampa 2013 pubblicata da Reporter senza frontiere non prende in considerazione diretta il tipo di sistema politico; risulta chiaro tuttavia che le democrazie offrono una migliore protezione alla libertà al fine di produrre e far circolare notizie e informazioni accurate, rispetto ai Paesi dove i diritti umani vengono spesso sbeffeggiati”, ha spiegato il segretario generale di RSF Christophe Deloire, presentando il rapporto sulla libertà di stampa nel mondo di quest'anno.
In questi rapporti, i giornalisti trucidati non sono che "indici" di una pessima libertà di stampa, gli ennesimi innocenti di cui parlare per un po', sulla cui morte indagare ma che prima o poi verranno dimenticati.
Per Anna, così come per pochi altri, non è stato così.
La morte della giornalista russa ha fatto molto discutere e anche la stampa europea non ha mai abbassato i riflettori su questo caso.
Tra libri e notizie sul web, stavo conoscendo Anna. Poi ho visto le sue foto.
Fu questo a colpirmi di lei: il suo volto forse molto di più delle sue verità.
Dico sinceramente che se Anna avesse avuto un'altra faccia non mi sarei così appassionata a lei. 
Sembrava una di quelle maestre buone di cui hai un bel ricordo, quasi una madre. Una donna che avrebbe potuto abbracciare i suoi amici calpestati in Cecenia così come i suoi figli russi.
Ora non c'è più ma ci ha lasciato tante cose...

Anna e la sua eredità

Ad aggiudicarsi il premio quest'anno è Chouchou Namegabe, una giovanissima giornalista congolese che si batte per i diritti della donne del suo paese. Chouchou è famosa per essersi inventata un'associazione che organizza corsi di giornalismo per le donne che hanno subito abusi. "Mi sono resa conto che nel mio paese non ci sono molte giornaliste, così abbiamo organizzato questi corsi anche per permettere loro di raccontare le violenze subite", ha spiegato Chouchou.
"In Congo - ha continuato la giornalista - le donne vengono violentate e lo stupro è diventato un'arma di guerra nella mani dei ribelli e dell'esercito". Ho sentito storie letteralmente inimmaginabili dalla voce di Chouchou Namegabe. Lo stupro delle donne ad opera dei loro stessi figli obbligati alla violenza o il racconto delle terribili torture subite, sono cose a cui non si riesce a credere e la Namegabe ha avuto il coraggio di raccontare queste storie nonostante le sistematiche minacce di morte.
Quello che posso dire è che Anna ha trovato un buon rifugio nel volto di questa giovane giornalista radiofonica, nel suo turbante, nel suo vestito colorato e nell'Africa, in quell'altra "fine del mondo" che ha voglia di emanciparsi. In Chouchou, Anna vive ancora.
Ora, non si tratta di consolazioni, di retorica, di idiozie o balle ma di un atto di fede. Quello di credere che la Namegabe possa perpetuare l'impegno e il ricordo della Politkovskaja. O si crede o non si crede. Se sono qui a Ferrara è soprattutto per questo Premio. E non ditemi che è poco ricordare e... credere.

lunedì 30 settembre 2013

Al festival Indebito, ultimo film di Capossela da internazionale.it @internazfest # intfe

http://www.internazionale.it/festival/sala-stampa/comunicati-stampa/ 

Per la prima volta in Italia l’ultimo film di Vinicio Capossela diretto da Andrea Segre.
Indebito, l’ultimo film di Vinicio Capossela in anteprima al Festival di Internazionale a Ferrara il 4 ottobre alle 21.30 presso il Teatro Comunale.
Unite un tema di assoluta attualità (la crisi greca), un regista pluripremiato reduce dal successo internazionale di Io sono Li (Andrea Segre) e un cantautore sensibile e immaginifico (Vinicio Capossela). E’ così che nasce Indebito, il film che narra la crisi del paese culla di tutta la cultura occidentale, la terra per cui oggi siamo quello che siamo. Sulle tracce del rebetiko, la musica della ribellione greca, Capossela e Segre tracciano il ritratto tragico di un paese in cui la crisi economica ha svuotato di valore tutto ciò che non ha un prezzo. Ma, nonostante la crisi, resta il rebetiko e la voglia di cambiare le cose e di ribellarsi. Uno straordinario affresco che racconta le origini dell’uomo. Forse perché, dopo un tramonto, non possiamo che sperare in un’alba nuova e in una luminosa riscossa.
Il film, scritto da Vinicio Capossela e Andrea Segre con la regia di Andrea Segre, viene presentato per la sua anteprima italiana il 4 ottobre alle 21.30 al Teatro Comunale di Ferrara nell’ambito del Festival di Internazionale. La proiezione sarà preceduta dall’incontro di Capossela e Segre, guidati da Goffredo Fofi, con il pubblico del Festival. Prodotto da Jolefilm, Indebito sarà distribuito in Italia da Nexo Digital solo per un giorno per un’uscita evento martedì 3 dicembre (l’elenco delle sale aderenti sarà a breve disponibile su www.nexodigital.it).
Indebito arriva a Ferrara dopo il successo riscosso al Festival di Locarno e a pochi mesi dalla pubblicazione per il Saggiatore di Tefteri. Il libro dei conti in sospeso di Vinicio Capossela, un lungo reportage attraverso il Paese simbolo della crisi economica. La Grecia incarna così il luogo dove le difficoltà e la povertà vengono combattute attraverso il canto, nuova e allo stesso tempo antica forma di racconto collettivo. In greco, infatti, Tefteri è il taccuino dei conti che ben rappresenta una Grecia inedita, sofferente e fiera, che riscopre il rebetiko come musica della crisi. Così, frame dopo frame, anche Indebito racconta, come il Tefteri, i debiti e i crediti che ci attanagliano. Il registro dell’Indebito e dei conti in rosso che tutti abbiamo con la vita e con la morte. Perché, fin dall’antichità, quello che viene dalla Grecia partecipa alla vita di tutti e riguarda noi tutti, come dimostrano anche i fatti più recenti. Indebito parla della natura dell’uomo e del suo destino anche quando, con i piedi nel fango, continua a guardare in alto con gli occhi fieri. Sulle note del rebetiko.

domenica 29 settembre 2013

Un paese nel caos

Dal Blog di Gerhard Mumelter


"È ovvio che questa assurda crisi farà crescere l’insofferenza degli italiani verso la politica. Ma sarà anche interessante vedere se si accontenteranno delle solite battute al bar o se la rabbia sconfiggerà la rassegnazione e porterà qualche migliaio di cittadini davanti al parlamento a manifestare il proprio dissenso verso una politica non più tollerabile"

http://www.internazionale.it/opinioni/gerhard-mumelter/2013/09/29/un-paese-nel-caos/


Alla giornalista Chouchou Namegabe il Premio Anna Politkovskaja

Chouchou Namegabe è una giornalista radiofonica congolese che si batte per i diritti della donne che hanno subito abusi. Ha più volte ricevuto minacce di morte in seguito alla sua denuncia dello stupro come arma di guerra nella Repubblica Democratica del Congo. Il 4 ottobre sarà a Ferrara per ricevere il prestigioso Premio Anna Politkovskaja.

http://vimeo.com/75022719



domenica 2 giugno 2013

Don Panizza, il prete antimafia si racconta a daSud

Un’ora di racconti e condivisione. Don Giacomo Panizza, prete “antimafia” - così come non piace essere definito a lui - è arrivato a Roma e, da una sedia dell’associazione daSud, inizia a raccontare della mafia e dell’antimafia, del lavoro in fabbrica e delle prostitute, del matrimonio scombinato quattro mesi prima e dell’impegno per gli 'ultimi' con 'progetto Sud' la comunità in sostegno dei disabili nella Calabria della 'ndrangheta... ma non solo

Uno come Don Giacomo Panizza, impegnato da più di trent’anni in Calabria, alle prese con i palazzi confiscati alle cosche della ‘ndrangheta, con i disabili, te lo aspetti, banalmente, con la barba lunga, una pancia grossa e gli occhiali. Un omone, insomma. Come se il fisico e non la sua testa dovesse supportare tutto quel sacrificio e quel coraggio. E invece lui è esile, occhi chiari, capelli bianchi e niente pancia, persona ordinaria, sorride spesso, quasi fosse la sua preghiera.
 Prima di ieri sera non l’avevo mai visto dal vivo quel prete coraggioso, bresciano che da anni lavora nella comunità “Progetto Sud” per aiutare i disabili in un palazzo confiscato ad una potente cosca della ‘ndrangheta. Si doveva sposare, lui, non diventare prete.
Nel suo paese, oltre alle sue sorelle, non ne sarebbero più rimasti di Panizza: “per quello mio padre vedeva male la mia decisione di non sposarmi a quattro mesi dal matrimonio”.
“Io non ho studiato: dopo la quinta elementare, sono finito in fabbrica. Poi ho fatto tutte le scuole insieme per poter studiare teologia e diventare prete. Vivevo con un amico e la sua fidanzata, una prostituta che batteva per le vie di Brescia”. Brusio in sala.
“Sì, si prostituiva. Poi il vescovo mi ha messo davanti ad una specie di ricatto: ‘scegli Giacomo: o i malati o gli anziani o disabili’- e io scelsi i disabili” - dice – ma così, per caso, non c’è un motivo”. Saviano aveva invitato Don Giacomo nella sua fortunata trasmissione ‘Vieni via con me’ e così, dopo decenni di impegno civile silenzioso, il suo lavoro con i disabili viene conosciuto in tutta Italia: “se c’è un gradino, c’è una disabilità. Se togli il gradino e metti lo scivolo non c’è più disabilità”. “Ho sempre visto negli altri qualcosa di più grande di quello che si vede di fuori e non volevo che gli handicappati si sentissero pensionati”.

Non gli piacciono le etichette: “Don giacomo ma tu sei un prete antimafia?”, gli chiedono in sala - ”no – dice - è la mafia che è anti me”. Ridono tutti. In Calabria ci è finito nel 1976, emigrando “al contrario”, quando nessuno lo conosceva e quando lo accusavano di non vederci bene perché “la mafia non esiste”, gli dicevano accusandolo di fare discorsi di sinistra. E’ un lungo racconto quello della sua vita e della sua precedente esperienza in fabbrica negli anni caldi di fermento rivoluzionario. All’inizio è stato tutto difficile: ‘voi siete il prete del demonio e non del Signore’ mi disse un giorno una signora a Lamezia Terme. Dopo il 2001, dopo gli attentati e le intimidazioni, tutti hanno dovuto riconoscere che la mafia c'è, eccome. “Con i mafiosi faccio finta di non avere paura” dice.

L’incontro dura più di un’ora e Don Giacomo ci racconta molte cose come il “sollievo amaro” provato nel vedere l’uomo che lo minacciava di morte, ucciso dalle cosche rivali e di quando gli chiedevano il pizzo, o meglio, i “soldi per gli amici del carcere” e lui non capiva si trattasse di un reato serio come l’estorsione. E poi, l’ultima immagine, il gesto di “disobbedienza civile” per regalare la gioia ai suoi ragazzi: “una volta sono andato dal giudice e mi sono autodenunciato: non c’era ancora la legge sull’abbattimento delle barriere architettoniche e così gli ho detto che avrei costruito uno scivolo abusivo per portare i miei ragazzi al mare. Sì, voi direte che stare in acqua è una bambinata ma non è così: è la felicità”.

mercoledì 22 maggio 2013

Ciao Don Gallo, smisurato come le tue preghiere concrete

Riflettevo sul quello che rende ‘grande’ un uomo e mi sono trovata in difficoltà, abbagliata da questo mondo che mischia la grandezza con il ‘fare carriera’ e lo spessore umano con ‘l’arrivo’. Non so di preciso che cosa renda grande una persona ma, di sicuro, un grande uomo non necessita di paragoni per essere descritto, non necessita di vedere il suo nome accostato a quello di qualcun altro perché risulta difficile trovare persone simili, persone da mettere l’una accanto all’altra senza sembrare sproporzionate.

Oggi che Don Gallo se n’è andato ho rafforzato una convinzione, non trovando nessun paragone da cucirgli addosso. Don Gallo appartiene a quella schiera di persone ‘smisurate’ che non hanno bisogno di essere paragonate a nessuno perché niente è in grado di definirli se non facendogli un torto. Era unico, semplicemente, e non c’è bisogno di aggiungere altro senza scadere in un elenco infinito di piccoli aneddoti, grandi gesti e parole immense come quelle raccolte nelle pagine dei suoi libri o custodite nei cuori dei testimoni del suo amore.

Era la comprensione dell’errore non la sua condanna. Faceva parte di una ‘Chiesa Santa’ ma era il primo ad evidenziare la ‘Chiesa Peccatrice’, quella che ti appioppa il peccato originale dalla nascita ma è incapace di ammettere i suoi limiti. Aveva braccia grandi per raccogliere tutti, senza croci d’oro al collo ma con un cuore robusto. Ingenerava un’immediata e automatica simpatia negli esseri umani senza dire o fare qualcosa di preciso. Don Gallo non ti doveva per forza mandare in paradiso come diceva De Andrè, suo compagno e amico. Non era votato alla santità ma in costante ricerca dell’essere umano ai margini, del tossicodipendente, del carcerato, di chi commette i reati più incomprensibili e gli errori più grossi, di quelli contro cui l’uomo comune direbbe ‘in fondo, se l’è andata a cercare’. Amava gli altri, gli 'ultimi della fila' ed era convinto che la vita di un uomo è sempre più importante dei gesti che compie.

Oggi mi rimane questo e un’altra cosa: il suo impegno sociale è poca cosa in confronto ai compromessi che ha costantemente cercato di non fare andando ‘in direzione ostinata e contraria’ al potere. “E le mie parole continueranno a volare: anche se sarò sotto terra non sarò morto”. Visto che tu ci credi nel ‘dopo’ e un tempo ci credevo (di più) anche io, vorrei che fosse così la tua morte oltre la vita.

venerdì 3 maggio 2013

Domenico Quirico

http://it.wikipedia.org/wiki/Domenico_Quirico

giovedì 25 aprile 2013

Romualdo Chiesa (Fonte ANPI)

Non aveva ancora diciassette anni quando si fece, con altri amici, promotore a Roma del Movimento dei cattolici comunisti. Arrestato due anni dopo per attività contro il regime, Chiesa fu deferito al Tribunale speciale che, nel 1941, lo assolse con la formula dell'insufficienza di prove. Il ragazzo riprese con maggiore lena l'attività politica nei quartieri Trionfale, Aurelio e Ponte Cavalleggeri a fianco dei compagni di "Bandiera Rossa". Quando, proclamato l'armistizio, i romani tentarono la difesa della Capitale a fianco dei nostri soldati, Romualdo Chiesa fu, con il suo amico Adriano Ossicini, tra i combattenti di Porta San Paolo, con Luigi Longo, Antonello Trombadori, Fabrizio Onofri, Emilio Lussu, Ugo La Malfa, Sandro Pertini, Eugenio Colorni, Mario Zagari e Bruno Buozzi. Travolta la resistenza dei soldati e del popolo romano (caddero negli scontri anche quattrocento civili, tra cui quarantatré donne), lo studente continuò, nella Capitale occupata, la sua lotta per la libertà. Finito nelle mani delle SS per una delazione, Chiesa, che si stava recando ad un appuntamento nella zona di Ponte Milvio, riuscì a liberarsi, prima di venire trascinato nei famigerati locali di Via Tasso, dei documenti compromettenti che aveva con sé. Torturato perché parlasse, il giovane non si lasciò sfuggire la minima informazione. Allorché i tedeschi lo portarono alle Fosse Ardeatine per trucidarlo con gli altri martiri, Romualdo Chiesa era irriconoscibile. Questa la motivazione della massima ricompensa militare alla memoria: "Giovane antifascista conobbe il carcere poco più che diciottenne e dalle sofferenze patite fu temprato alla dura lotta clandestina, di cui divenne assertore convinto ed incitatore travolgente. A Porta San Paolo condusse operai e studenti ad ostacolare il passo alle truppe tedesche, che con orgogliosa baldanza marciavano contro la Città Eterna. Il popolo romano di Monte Mario, Borgo, Prati, Trionfale, Porta Cavalleggeri e Madonna del Riposo sentì la sua voce tonante di tribuno organizzatore di gruppi di armati e di G.A.P. che furono, sotto la sua guida, audaci esecutori di ardite azioni di sabotaggio. Già sfuggito tre volte alla cattura, in seguito a vile delazione cadde nelle mani del nemico, riuscendo in un tentativo di fuga a distruggere importanti documenti, che se fossero caduti in mano dell'avversario avrebbero compromesso il movimento partigiano locale. Sopportò i martirii di via Tasso pur di non tradire i compagni. Ridotto quasi cieco per le sevizie subite e col volto trasformato in piaga sanguinante, fu condotto alle Fosse Ardeatine, ove nel sublime martirio chiuse la giovane esistenza che non aveva conosciuto che le amarezze della schiavitù". A Roma, nel quartiere Spinaceto, una strada porta il nome del giovane eroe.

domenica 17 marzo 2013

ROMA: TORNANO A PROTESTARE I DIPENDENTI COCA COLA DI ORICOLA

AGENPARL) - Roma, 16 mar - Tornano a protestare i dipendenti dello stabilimento Coca-Cola di Oricola (Aq) a Roma contro i licenziamenti degli oltre 40 addetti della logistica dell’impianto abruzzese della multinazionale americana previsti dal piano di riorganizzazione aziendale. "Questo è il quarto Coca-Cola Day. Abbiamo avviato questo percorso da quando l'azienda ha comunicato una riduzione del personale, del tutto ingiustificata" - ha dichiarato Gianluca Desiderati del sindacato di base della Flaica Cub che ha organizzato il sit-in di protesta di oggi in Piazza del Pantheon. Il sindacalista denuncia la poca visibilità mediatica della protesta: "è più di un mese che abbiamo paralizzato l'impianto con scioperi continui senza sortire nessuno effetto perché quando parliamo di questi 'giganti' - dice riferendosi alla multinazionale - anche un mese di fabbrica ferma non ha nessun effetto". Secondo quanto fa sapere il sindacato, la Coca-Cola ha utilizzato leggi e contributi pubblici per impiantare i suoi stabilimenti in Abruzzo, sfruttando a titolo gratuito le risorse idriche. "Malgrado utilizzi l'acqua a titolo gratuito, malgrado siano stati presi degli impegni sul mantenimento occupazionale dei dipendenti, per una riduzione di fatturato minima, Coca-Cola ha deciso di chiudere anche l'ultimo stabilimento abruzzese" - continua il sindacalista. Non si tratta di veri e propri licenziamenti: "questi dipendenti andranno a fare lo stesso lavoro ma in cooperativa e verranno quindi precarizzati". "Siamo scesi in piazza - conclude Desiderati - perché qui parliamo dell'aspetto mediatico Coca Cola. Vogliamo portare questo a conoscenza dell'opinione pubblica". di Teresa Olivieri e Luisa Foti

CARCERI: ROMA, A REBIBBIA IL CONCERTO DEL MURO DEL CANTO

(AGENPARL) - Roma, 16 mar - Un concerto rock in un carcere. È successo ieri a Roma nel carcere di Rebibbia dove, in collaborazione con lo storico locale romano Traffic, è andato in scena il concerto della band folk rock “Il Muro del Canto”. Vestiti come sei picciotti siciliani, con tanto di coppola e rigorosamente in nero, il Muro Del Canto si esibisce cantando in dialetto romano rifacendosi alla tradizione popolare capitolina e alle immagini del narrato pasoliniano riprodotto con gli elementi tipicamente rock delle chitarre elettriche che si affiancano alle “struggenti” melodie della fisarmonica e della chitarra acustica. È la seconda volta che nel carcere di Rebibbia va in scena un concerto rock. Questa volta sul palco del teatro di Rebibbia è stato il turno del gruppo romano: “non c’è stato neanche il tempo di pensarci perché questa iniziativa non può che essere vista in modo positivo e così abbiamo accettato ben volentieri soprattutto per il discorso che ruota attorno ai disagi dei carcerati. Il Muro del Canto sente molto queste problematiche”, dice Ludovico Lamarra, bassista del Muro del Canto. “Per chi vive a Roma, Rebibbia, come istituzione carceraria, fa parte del vissuto di ognuno – dice Lamarra - Fa parte del tessuto sociale. È una fermata della Metro”. I detenuti del più grande carcere d’Europa, sono pronti: non capita tutti i giorni di ascoltare un concerto live da queste parti. Qui le giornate passano lisce, quasi tutte terribilmente uguali. Non sono in molti ad assistere all’evento ma quelli che ci sono, a giudicare dagli applausi e dai classici cori da concerto, si divertono parecchio. Qualcuno, però, se ne va. Non riesce a distrarsi, a spostare, per un attimo, l’attenzione su un evento fuori dal comune. Si apre spesso la porta d’ingresso del teatro: entra la luce, fuori è giorno e c’è chi preferisce godersi il cielo di marzo. Non è un concerto come tutti gli altri. Noi da una parte, i detenuti dall’altra. Non si capisce se per disposizioni “dall’alto” o per il casuale andamento delle cose. Intanto la musica parte e tutte queste differenze si allentano. Il concerto se lo godono tutti: liberi e non. Ma l’attenzione non può non finire sui disagi dei detenuti, costretti a sopravvivere in un istituto penitenziario che può contenere molto meno dei suoi attuali “abitanti”: “il punto è che c’è una istituzione che non funziona - ci dice Ludovico Lamarra - perché Rebibbia contiene il doppio dei detenuti che potrebbe contenere. Il dato è che l’istituzione funziona grazie alle persone che ci lavorano. Il fatto che il Traffic abbia proposto questo concerto e Rebibbia abbia accettato questo già di per se è un segno di speranza per chi sta qua”. Questo il loro messaggio di speranza. I loro pezzi, la loro musica. Sì, perchè durante il concerto nessuno di loro si è permesso di dire una parola. La cosa ci stupisce: “abbiamo avuto un approccio sobrio. Non volevamo fare quelli che arrivano e fanno il discorsetto. Chi siamo noi per farlo?” - conclude Lamarra. Il concerto dura quasi un’ora: L’ammazzasette, Ancora ridi, Maleficio, La spinta, alcuni dei pezzi proposti dalla band che esegue anche una cover del cantautore Stefano Rosso (e intanto er sole se nasconne), chiudendo il concerto con Luce Mia, il brano-manifesto del Muro del Canto. Noi usciamo, varcando i cancelli di Rebibbia. I detenuti tornano alla loro quotidianità che ha poco di normale e che dovrà fare i conti con gli tagli ultimi disposti, tra le altre cose, proprio per le attività culturali, ricreative, sportive, come fa sapere il garante dei detenuti Angiolo Marroni. “Se queste previsioni saranno confermate, - dichiara il garante - sarà una vera e propria mazzata ad una situazione che già è da emergenza nazionale, come certificato anche dall’autorevole Corte Europea per i Diritti dell’uomo. Su questa già drammatica situazione, si abbattono questi tagli che rendono, di fatto, sempre più inattuabile l’articolo 27 della Costituzione, che prevede che le pene non possano consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e debbano tendere alla rieducazione del condannato”.

giovedì 14 marzo 2013

Giovedì 14 Marzo 2013 19:16 TOSSICODIPENDENZE: PROTESTA AL CAMPIDOGLIO DELLE COOPERATIVE SOCIALI/VIDEO Scritto da Fanì/Foti

(AGENPARL) – Roma, 14 mar – Le cooperative sociali tornano a protestare contro l’Agenzia capitolina sulle tossicodipendenze (ACT). Oggi pomeriggio in Campidoglio si sono riuniti gli operatori, i coordinatori, gli utenti per porre fine ad una situazione insostenibile e c’è anche la Comunità di Città della Pieve (Pg) a protestare contro l’amministrazione comunale del sindaco Alemanno. Parliamo con Vincenzo, che preferisce farsi chiamare Vincenzone. Lui è la storia della comunità, Prima utente, ora operatore della cooperativa sociale "il Cammino" che rivolge un invito al Sindaco: “Alemanno caccia li sordi. Non possiamo più pagare gli assistenti sociali e non riusciamo a mandare avanti la comunità. Questi sono disagi per noi operatori ma si ripercuotono sui ragazzi che stanno in terapia”. La comunità di Città della Pieve, vanta un credito dall’amministrazione romana di circa 350 mila euro: “rivolgo un invinto al Sindaco Alemanno – dichiara Massimo Nusca - affinché si assuma le sue responsabilità istituzionali e assuma un atteggiamento più morbido nei confronti delle cooperative”. 

giovedì 7 marzo 2013

Giovedì 07 Marzo 2013 10:56 PENSIONI: CORTE COSTITUZIONALE, TRATTAMENTO MINIMO COSTITUZIONALMENTE GARANTITO

(AGENPARL) – Roma, 07 mar - Il trattamento pensionistico minimo è costituzionalmente garantito. A ricordarlo è una sentenza della Corte Costituzionale depositata ieri (n. 33/2013). I giudici di Palazzo della Consulta hanno accolto la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte di Appello di Genova, in materia di tutela della pensione minima, diritto costituzionalmente garantito dall'art. 38, comma 2 della Costituzione che recita “i lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati i mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità, e vecchiaia, disoccupazione involontaria”. Tale tutela, secondo i giudici della Consulta, può essere attuata dal legislatore con lo strumento della deroga ai limiti di età ordinari previsti per ciascuna categoria di dipendenti pubblici. Il raggiungimento dei vari trattamenti pensionistici e dei benefici ulteriori rientra, invece, nella discrezionalità del legislatore non essendoci vincoli costituzionali in tal senso. In particolare, la Corte ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 15nonies del d.lgs. 502/1992 e 16 del d.lgs. 503/1992 (nel testo vigente fino all’entrata in vigore dell'art. 22 della l. 183/2010): tali norme non permettevano al personale della dirigenza medica che aveva raggiunto il limite massimo di età per il collocamento a riposo, e cioè 65 anni ma senza aver raggiunto il numero degli anni richiesti per ottenere il minimo della pensione, di rimanere, su richiesta, in servizio fino al conseguimento di tale anzianità minima e, comunque, non oltre il settantesimo anno di età. Il giudice rimettete aveva censurato la normativa in esame per la violazione dell'art. 38, comma 2, e dell'art. 3, comma 1 (“tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”). Accogliendo parzialmente la questione di legittimità costituzionale, in riferimento al solo parametro costituzionale dell’art. 38, comma 2, la Corte ha censurato la normativa in esame nella parte in cui non permetteva al dirigente medico di poter raggiungere il trattamento pensionistico minimo. Nella parte motiva della sentenza, la Consulta ha spiegato che “in ordine alla tutela del conseguimento del minimo pensionistico, l'orientamento di questa Corte è costante. Il problema di tale tutela è strettamente connesso a quello dei limiti di età; la previsione di questi ultimi è rimessa “al legislatore nella sua più ampia discrezionalità (sentenza n. 195 del 2000) e quest'ultima può incontrare vincoli - sotto il profilo costituzionale - solo in relazione all'obiettivo di conseguire il minimo della pensione, attraverso lo strumento della deroga ai limiti di età ordinari previsti per ciascuna categoria di dipendente pubblico”. La Corte ha poi sottolineato “la distinzione tra la tutela della pensione minima e l'intangibile discrezionalità del legislatore nella determinazione dell'ammontare delle prestazioni previdenziali e nella variazione dei trattamenti in relazione alle diverse figure professionali interessate. Mentre il conseguimento della pensione al minimo è un bene costituzionalmente protetto, altrettanto non può dirsi per il raggiungimento di trattamenti pensionistici e benefici ulteriori (ex plurimis, sentenza n. 227 del 1997)”. Tuttavia, - ha precisato la Corte – “anche la deroga ai limiti di età al fine del conseguimento del bene primario del minimo pensionistico incontra a sua volta dei limiti fisiologici. Questa Corte ha avuto modo di definirli come "energia compatibile con la prosecuzione del rapporto" (sentenza n. 444 del 1990), oltre al quale neppure l'esigenza di tutelare detto bene primario può spingersi. Nel tempo, detto limite fisiologico si è spostato in avanti, di modo che, mentre al 1989 (sentenza n. 461 del 1989) esso è stato individuato a sessantacinque anni, successivamente con la citata sentenza n. 444 del 1990 questa Corte ha affermato che "la presunzione secondo cui al compimento dei sessantacinque anni si pervenga ad una diminuita disponibilità di energia incompatibile con la prosecuzione del rapporto "è destinata ad essere vieppiù inficiata dai riflessi positivi del generale miglioramento delle condizioni di vita e di salute dei lavoratori sulla loro capacità di lavoro”. Dopo aver illustrato l’indirizzo giurisprudenziale già emerso con le sentenze citate, ha Corte infine ha rilevato che in ambito legislativo, però, “non ha fatto seguito un puntuale adeguamento delle diverse legislazioni di settore succedutesi nel tempo, per cui - anche per la fattispecie in esame - la permanenza in deroga fino al settantesimo anno di età al fine del conseguimento del diritto minimo alla pensione non era contemplata”.

martedì 5 marzo 2013

CONSIGLIO DI STATO: GIORGIO GIOVANNINI E' IL NUOVO PRESIDENTE

(AGENPARL) - Roma, 5 mar - C'erano tutte le più alte cariche dello Stato alla cerimonia di insediamento del nuovo Presidente del Consiglio di Stato Giorgio Giovannini. Classe 1943, laurea in giurisprudenza con lode alla Sapienza nel 1966, Consigliere di Stato dal 1974, Giovannini prende il posto del Presidente Giancarlo Coraggio, nominato lo scorso 28 gennaio giudice della Corte Costituzionale. La cerimonia, che segue alla nomina avvenuta durante il Consiglio dei Ministri del 21 dicembre scorso, si è aperta con le parole del Premier Mario Monti che ha parlato di una giustizia amministrativa che, se resa più "snella", può rappresentare lo strumento per condurre il Paese lontano dalla crisi. Il Presidente del Consiglio ha parlato di un giudice amministrativo al servizio dei cittadini e delle imprese che sappia essere all'altezza dei tempi che corrono, della dimensione europea e che interpreti l'atto amministrativo al di là dei vizi formali, "in modo che siano assicurati il buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione", come vuole l'art. 97 della Costituzione. Dopo aver citato i provvedimenti legislativi adottati dal governo - i due decreti correttivi del codice del processo amministrativo e le leggi di prevenzione della corruzione - ha concluso con la convinzione che "il Consiglio di Stato saprà mantenere fede alle esigenze che il paese manifesta". La parola è poi passata al Presidente Giovannini che, dopo aver salutato tutte le più alte cariche istituzionali, si è rivolto al Presidente della Repubblica Napolitano illustrando la recente evoluzione del nostro sistema di giustizia amministrativa che ha rafforzato i mezzi di tutela giudiziaria contro le azioni illegittime della P.A. e contro l'inerzia della stessa. Due le parole chiave attraverso cui si è snodata la relazione del Presidente Giovannini: tempestività e qualità. Tempestività, perché la giustizia deve essere assicurata in tempi "ragionevoli", perché "una giustizia ritardata è una giustizia negata", e qualità che deve essere garantita dalla selettività dei procedimenti previsti per la nomina a magistrato ordinario e con il costante aggiornamento assicurato dall'Ufficio Studi. La qualità sarà assicurata, soprattutto, dall'indipendenza dei giudici, "talora messa in discussione - ha continuato il nuovo Presidente - anche a livello di opinione pubblica, dallo svolgimento a parte di attività politica o di incarichi amministrativi presso le pubbliche amministrazioni". Giovannini ha poi mostrato la ferma convinzione della necessità di istituire le Corti amministrative interregionali, "in modo da attuare un ulteriore avvicinamento della giustizia amministrativa al territorio", e l'opportunità di estendere l'attività consultiva del Consiglio di Stato agli atti legislativi del Parlamento e del Governo, "al fine di favorire la chiarezza, la completezza e l'organicità dei testi normativi, oggi spesso carenti sotto tali profili".
"Non credo che l'assunzione di un incarico di vertice in una delle magistrature comporti la necessità di dichiarazioni programmatiche. Occorre essere fedeli alla Costituzione, applicare la Legge, preservare la dignità e l'autorevolezza della funzione", ha affermato Giovannini, nelle sue conclusioni, lasciando da parte lo stato della giustizia amministrativa e riflettendo sul suo nuovo e prestigioso incarico istituzionale. "Occorre ribadire questi principi, semplici e forti, a maggior ragione in un momento storico in cui - attraverso campagne di opinione non sempre disinteressate - si dubita quasi della necessità della funzione giurisdizionale e si è spesso guardati con sospetto" ha spiegato Giovannini che, in conclusione, ha citato il famoso discorso di Bergamo con cui Silvio Spaventa nel 1880 aveva sostenuto l'introduzione di una sistema di giustizia amministrativa non per indebolire l'autorità dello Stato ma per accrescerla, "impedendo che si corrompano le nostre istituzioni, nelle quali solamente il popolo italiano, colla libertà, può raggiungere il suo maggiore benessere". "Si tratta di obiettivi e di valori - ha affermato il Presidente al termine della cerimonia - che a tanti anni di distanza restano pienamente validi, confermati dalla Carta Costituzionale. Essi disegnano il ruolo e le responsabilità connesse a noi magistrati amministrativi nel moderno Stato di diritto".

sabato 23 febbraio 2013

Neofascismi vestiti di rabbia

Populismo, riduzione dicotomica della realtà a due sole possibilità: i cattivi - tutta la classe politica corrotta, tutti, indistintamente, come se la classe politica non fosse parte della società civile - e i buoni - tutti i cittadini, anche gli evasori fiscali e quelli che buttano le bottiglie di plastica in mezzo alla strada, i furbetti del quartiere, i raccomandati, i violenti che vanno negli stadi a distruggere tutto; quelli che hanno sempre votato Berlusconi, quelli che “ma in fondo Mussolini ha fatto cose buone” e quelli che difendono ancora i regimi comunisti dittatoriali nel mondo; quelli che sottomettono le donne, che sfruttano i deboli sul posto di lavoro, che ne approfittano degli anziani; quelli che “gli omosessuali va bene ma alla larga da me”, quelli che se ne fottono del “famoso” prossimo; me e quelli che “gli immigrati se ne devono andare al paese loro”. Questa è la fenomenologia spicciola della filosofia popolare (rifiutata, teoricamente, da tutti) del “fare di tutta l’erba un fascio”. La realtà, purtroppo o per fortuna, è molto più complessa e complicata. Nella realtà non ci sono i buoni, da una parte, e i cattivi, dall’altra.

venerdì 15 febbraio 2013

Cassazione: no all'addebito della separazione al coniuge che abbandona casa per intollerbilità della convivenza. Fonte: Cassazione: no all’addebito della separazione al coniuge che abbandona casa per intollerbilità della convivenza. Il testo della sentenza (StudioCataldi.it)

Abbiamo dato notizie ieri della recente sentenza della Cassazione in tema di separazione giudiziale. Si tratta dela sentenza n. 2183/2013 con cui la prima sezione civile della Corte di Cassazione, confermando le precedenti decisioni di mertito, ha precisato che deve escludersi l'addebito della separazione al coniuge che ha abbandonato la casa familiare per la convivenza divenuta intollerabile. Pubblichiamo ora qui sotto il testo integrale della sentenza. Gli Ermellini hanno affermato che disimpegnarsi dall'unione costituisce un diritto costituzionalmente garantito e non può essere fonte di riprovazione giuridica, specialmente laddove detta decisione risulti adottata da persona in età matura all'esito di una lunga coabitazione non felice, mentre solitamente l'avanzare dell'età tende ad avvicinare i coniugi con il crescere delle necessità di assistenza reciproca, morale e materiale. Secondo la ricostruzione della vicenda, la Corte d'appello di Firenze, in riforma della sentenza di primo grado, aveva escluso l'addebito della separazione dei coniugi, in favore della ex moglie che si era allontanata dalla casa coniugale, avendo poi chiesto la separazione. I giudici di secondo grado avevano ritenuto che l'abbandono, a un'età - settant'anni - in cui semmai "più naturale è il bisogno di vicinanza e di solidarietà morale e materiale" e dopo quasi cinquant'anni di un matrimonio nel complesso non felice, come dimostrato anche da una risalente separazione poi rientrata, trovava la sua ragione appunto in quella infelicità - almeno per la signora - nella quale ella, alla fine, non aveva avuto più la forza di continuare a vivere. Del che non le si poteva muovere addebito una volta riconosciuto, anche nella giurisprudenza di legittimità (si fa espresso riferimento a Cass. 21099/2007), che nessuno può essere obbligato a mantenere una convivenza non più gradita, il disimpegnarsi dalla quale costituisce un diritto costituzionalmente garantito. Rigettando il motivo di ricorso dell'ex marito, i giudici di Piazza Cavour hanno spiegato che "con la riforma del diritto di famiglia del 1975 la separazione dei coniugi, com'è noto, è stata svincolata dal presupposto della colpa di uno di essi e consentita, invece, tutte le volte che "si verificano, anche indipendentemente dalla volontà di uno o di entrambi i coniugi, fatti tali da rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza" (art. 151 c.c. nel testo riformato). Con la sentenza n. 3356 del 2007 questa Corte ha ampliato l'originaria interpretazione, di stampo strettamente oggettivistico, di tale norma - interpretazione secondo la quale il diritto alla separazione si fonda su fatti che nella coscienza sociale e nella comune percezione rendano intollerabile il proseguimento della vita coniugale - per dare della medesima norma una lettura aperta anche alla valorizzazione di "elementi di carattere soggettivo, costituendo la intollerabilità un fatto psicologico squisitamente individuale, riferibile alla formazione culturale, alla sensibilità e al contesto interno alla vita dei coniugi". Ribadita, quindi, l'originaria impostazione oggettivistica quanto al (solo) profilo del controllo giurisdizionale sulla intollerabilità della prosecuzione della convivenza nel senso che le situazioni di intollerabilità della convivenza devono essere oggettivamente apprezzabili e giudizialmente controllabili - e puntualizzato che la frattura può dipendere, come già affermato da questa stessa Corte (Cass. 7148/1992) dalla condizione di disaffezione e di distacco spirituale anche di uno solo dei coniugi, ha concluso che in una doverosa "visione evolutiva del rapporto coniugale - ritenuto, nello stadio attuale della società, incoercibile e collegato al perdurante consenso di ciascun coniuge - (...) ciò significa che il giudice, per pronunciare la separazione, deve verificare, in base ai fatti obiettivi emersi, ivi compreso il comportamento processuale delle parti, con particolare riferimento alle risultanze del tentativo di conciliazione ed a prescindere da qualsivoglia elemento di addebitabilità, l'esistenza, anche in un solo coniuge, di una condizione di disaffezione al matrimonio tale da rendere incompatibile, allo stato, pur a prescindere da elementi di addebitabilità da parte dell'altro, la convivenza. Ove tale situazione d'intollerabilità si verifichi, anche rispetto ad un solo coniuge, deve ritenersi che questi abbia diritto di chiedere la separazione: con la conseguenza che la relativa domanda, costituendo esercizio di un suo diritto, non può costituire ragione di addebito". Fonte: Cassazione: no all’addebito della separazione al coniuge che abbandona casa per intollerbilità della convivenza. Il testo della sentenza (StudioCataldi.it)

mercoledì 6 febbraio 2013

Italia Criminale: condanna Cedu per carceri sovraffollate. I diritti negati degli ultimi

Si parla di sovraffollamento delle carceri e si parla dell'Italia. La notizia più "cliccata" degli ultimi giorni ci racconta di un'Italia criminale condannata dalla Corte Europea dei Diritto dell'Uomo per trattamenti disumani nei confronti dei detenuti. I quotidiani italiani si sono sbizzarriti nel fare ironia dopo la sentenza Cedu - "Campioni d'Europa", titolava il Manifesto -  già portata all'attenzione dei media e da tutti coloro che si sono resi conto che vivere in meno di tre metri quadrati non è vivere ma sopravvivere: dallo sciopero della fame di Marco Pannella, al richiamo di Napolitano; dalla lettera dei più illustri costituzionalisti indirizzata al Capo dello Stato, alle battaglie provenienti dal mondo delle associazioni. Il dibattito non si è aperto e, ad eccezione di un "lieve" provvedimento-palliativo di inizio legislatura, il Parlamento ha deciso che una "questione di prepotente urgenza", come definita dal Professor Pugiotto, primo firmatario della lettera sullo stato delle carceri al Capo dello Stato, poteva attendere.

Il dopo è stato scritto dalle decisioni della Cedu. All'origine della condanna nei confronti della Repubblica italiana, vi sono i ricorsi di sette detenuti con cui è stata adita la Corte diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, per denunciare le condizioni detentive contrarie all'articolo 3 della Convenzione ("nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti").

La lettera dei costituzionalisti rivolta al Capo dello Stato - "quale primo garante della legalità costituzionale del nostro ordinamento, con la massima fiducia in un Suo immediato ricorso al potere di messaggio alle Camere, affinché il Parlamento eserciti finalmente le proprie prerogative per dare una contestuale risposta, concreta e non più dilazionabile, sia alla crisi della giustizia italiana che al suo più drammatico punto di ricaduta, le carceri" - è tra i documenti più coraggiosi ed emblematici in grado di dipingere, nello specifico, in quali condizioni disumane i detenuti, di ogni nazionalità, siano costretti a (soprav)vivere.

Anche il rapporto sullo stato dei diritti umani negli istituti penitenziari e nei centri di accoglienza e trattamento per migranti, realizzato dalla Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani del Senato e presentato nell'anno appena trascorso, parla di un dramma, di circa 67 mila persone all'interno di istituti che ne possono contenere 22 mila in meno.

Così, lo Stato italiano è inadempiente e deve pagare non solo perché questa situazione viola i principi che ci siamo dati come base della nostra convivenza, in particolare, l'art. 27 e cioè il principio secondo cui "le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato" ma (soprattutto), perché abbiamo assunto obblighi internazionali che ci impegnano al rispetto dei principi stabiliti dalla Cedu.

Almeno in questo, la "globalizzazione" (dei diritti), per dirla in modo spicciolo, ha avuto effetti favorevoli: il superamento delle barriere nazionali in favore di un più altro grado di tutela dei diritti. La Corte non si è limitata però a condannare l'Italia, che pagherà con i soldi dei contribuenti ma inoltre ha sollecitato il nostro paese a fare "qualcosa" che possa cambiare il destino degli individui che popolano gli istituti penitenziari.

L'Italia si porta dietro questa situazione come un fardello, come il peccato originale dell'inerzia della politica: non si tratta solo di un problema "architettonico" ma di una questione ben più complessa che deve, soprattutto dopo questa sentenza, portare a ripensare al sistema penitenziario, questa volta, però, in termini nuovi. Ci vogliono le famose "riforme strutturali" (e quando mai!). Una delle espressioni più abusate dalla politica che rimane retorica se tutti gli input indirizzati al Parlamento rimangono lettera morta perché è come se le carceri fossero un mondo a parte in cui i diritti di quelli "cattivi" non devono essere rispettati, perché in fondo, queste persone hanno sbagliato e, oltre alla pena, gli si deve far scontare qualche altra cosa.

Figurarsi se la pena, a queste condizioni, possa rieducare. Senza dimenticare che le carceri "ospitano" soggetti condannati in via definitiva ma anche soggetti in attesa di giudizio e quindi considerati non colpevoli fino alla condanna definitiva. Se questa non è una tragedia...
Fonte: Italia Criminale: condanna Cedu per carceri sovraffollate. I diritti negati degli ultimi (StudioCataldi.it)

UN PAIO DI SMS AL GIORNO, TOLGONO LA SIGARETTA DI TORNO. Dalla Nuova Dalla Nuova Zelanda, un nuovo metodo per smettere di fumare. Robyn Whittaker, a capo dell'equipe, spiega a What's Up come fare.

Malattie d'ogni specie, invecchiamento della pelle, ingiallimento dei denti, alito cattivo, soldi sprecati, declino cognitivo. Eppure i fumatori sono sempre di più. E più aumentano i fumatori e più aumentano le strategie per farli (farci) smettere di fumare. Tempo fa ci aveva pensato Allen Carr, l'uomo che dopo essere arrivato a fumare 100 sigarette al giorno, sul fumo, ci ha fatto una fortuna vendendo milioni di copie del suo libro-terapia. I tempi cambiano e con esse le strategie. Dopo la sigaretta elettronica (che per alcuni sembra far più danni di quella originale), dalla Nuova Zelanda arriva l'ultima trovata: smettere di fumare per mezzo di sms grazie ad un metodo realizzato da una equipe dell'Università di Auckland (unità di ricerca sperimentazioni cliniche) guidata dalla professoressa Robyn Whittaker, raggiunta da What's Up. Sostanzialmente l'idea è quella sostituire la psicoterapia tradizionale "de visu" con sms e video stimolanti per farci smettere, quasi fosse un tutor a portata di mano. Un'idea non proprio originale ma che sembra dia discreti risultati: in uno studio condotto su 9.100 fumatori, delle 4550 persone "seguite" dagli sms per sei mesi, 444 sono riuscite a liberarsi dal vizio. Delle altre 4550 persone che non hanno ricevuto sms, solo in 240 hanno rinunciato alla bionda. Una percentuale quasi doppia. Insomma, smettere da soli è davvero impossibile, o quasi? "No, non è impossibile - ci dice Robyn Whittaker - sappiamo che in molti Paesi il 5% dei fumatori smette senza aiuti ma solo con buone politiche di controllo del tabacco e campagne di promozione della salute. Se questa percentuale riceve un supporto smettere diventa più efficace". Come funziona questo programma? "I vari programmi - continua - hanno un numero diverso di messaggi da mandare che di solito oscilla tra i 2 e 5 messaggi al giorno nelle prime settimane in cui si decide di dare un taglio alle bionde", il periodo più difficile, "perché fumare crea una dipendenza fisiologica dalla nicotina e smettere di fumare causa astinenza con sintomi come l'irritabilità e la perdita di concentrazione". Quali sono i contenuti degli sms? "Sono motivazionali, input di incoraggiamento, anche a cercare il supporto di familiari e amici. Ci sono anche consigli su come affrontare i sintomi dell'astinenza, che sono comunque passeggeri". L'identikit del fumatore? "Tutti potrebbero fumare. Quello che è difficile da comprendere è perché un sacco di giovani comincia a fumare nonostante si conoscano benissimo tutti i danni che prova il fumo. Quindi - conclude - non cominciate, invece di smettere".

venerdì 18 gennaio 2013

(Centro) chiamata futuro. Occupato


L’orologio sembra sempre più lontano. Quasi non riesco a metterlo a fuoco. Una telefonata e un’occhiata all’orologio. Il tempo non passerà mai. È solo il primo giorno di prova ma tutto sembra vecchio, superato. “Buongiorno sono…, la chiamo…”. Il lavoro è per una nota compagnia di telecomunicazioni. La migliore nel campo, come tento di far capire a tutti quelle a cui telefono. L’odore della fregatura è troppo forte e tutti rispondono che non gliene importa nulla di sapere quali sono le nuove offerte. Come dargli torto?

Mi guardo intorno: non sono sola. Ci sono altre persone sedute accanto a me e tutti i miei titoli di studio. Il call center mi sembra ancora una cosa lontana nonostante io stia già facendo le telefonate. Sono proprio lì. Le teorie sull’alienazione che creano le cuffie e le telefonate a ripetizione si sprecano. Ci hanno scritto tutti. Ci provo anche io. In fondo è questa la vita, punti di vista e io non vedo che con i miei occhi. Partono le telefonate. Nessun appuntamento fissato. Risultato? Zero euro. Alcuni mi invitano ad andare a quel paese, mi dicono che sono iscritti al registro delle opposizioni e minacciano di denunciare la compagnia. Sapessero quanto mi importa. Mi scuso. Vado avanti.

Metto un nome a caso sulle pagine gialle. Appaiono una miriade di attività commerciali. Tra i primi a rispondere c’è un ragazzone. Sì, perché dalla voce lo immagino grande, alto e grosso. È simpatico e non perde occasione per provarci. Anche lui immagina e scherza: “me dispiace per te che stai a lavorà – mi dice - ma er consulente nun lo voglio. Al massimo, se vieni te accetto. Anzi se voi te vengo proprio a pià e uscimo”. Rido. Mi diverto e per questo ringrazio. Riattacco.

Antonio è il nostro “carceriere”. Capelli scuri. Bassino, magro. Si occupa di coordinare il lavoro dei nuovi schiavi. Giulia che studia architettura ed è arrivata con me, occhi azzurri e pieni di luce. Piccolina. Michela, che si laurea a breve e Alessandra, un’esplosione di battute. Penso che mi piacerebbe lavorare con lei. È positiva: “secondo me sarebbe meglio andà a fa la donna delle pulizie, armeno dimagrisco”. C’è Sergio che fa il dj e ha tutta l’aria del “che ci faccio qui”, lo sento vicino. Quando fa le telefonate gira troppo intorno al punto come dice Antonio. “A Sergiò nun ce girà intorno, dije dell’offerta e che je mandi er consulente”. Poi conosco Giuseppe che viene “dalla terra di Calabria” come dice a tutti. Faccia da bravo ragazzo. Lega subito con Sergio. La musica li unisce. Mi alzo e penso che una sigaretta, dopo due ore e mezzo di telefonate, non si nega a nessuno ma la segretaria della tipologia “segretarie odiose”, una di quelle senza sfumature, tirata fuori dalla commedia dell’arte versione moderna, con aria inorridita mi chiede: “ma dove vai?”. Io sorrido timidamente con la faccia da fessa. Penso che non sia il caso di litigare e mi rimetto a sedere per altre due ore. Il fatto di non potermi alzare liberamente mi fa impazzire. Poi, la pausa: Antonio ci regala una “sosta” di ben dieci minuti.

“Per fare questo lavoro ce devi avè passione” confida Antonio ai nuovi arrivati. Passione? Passione per cosa? Per "i sordi", forse, e lo penso anche in romanesco. Ma non ha tutti i torti, di questi tempi...
Rifletto sulla parola passione: il mio Professore l’aveva usata per presentarmi alla Commissione il giorno della mia laurea. Mi aveva reso molto felice.
Fumo un’altra sigaretta: la prossima pausa è troppo lontana e intanto ingurgito nicotina. Voglio anestetizzarmi così, magari, continuo e diventerà un’abitudine. In fondo ci si può abituare a tutto. C’è anche Leonardo che dopo avermi stretto la mano mi chiede se ho facebook. Sono talmente a terra e senza difese che non riesco a chiedergli se gli sembra il caso di avere il mio contatto dopo soli pochi secondi di conoscenza. È timidissimo. Gli dico che ho un nome strano su facebook. Lui si imbarazza a parlare. Faceva l’agente di viaggio perché gli piace viaggiare. Lavora nel postaccio dal 20 novembre ma anche lui, prima o poi, verrà cacciato.

C’è tutta una serie di cose che devi sapere prima di sederti ad una postazione di call center. Prima o poi loro ti cacceranno. Anche se ti dovessi abituare all’idea di un lavoro del genere perché in fondo i soldi ti servono, un giorno tutto finirà perché loro chiameranno altri schiavi, in prova, per pagarli sempre meno, per poi dirgli che un contratto non possono farglielo, che c’è la crisi. Messaggi preimpostati.

I computer sono tutti uguali e sono tanti. Le postazioni anonime. È questo quello che mi fa più paura. Nessuno ha lasciato tracce di sé sul luogo in cui passa la maggior parte del suo tempo, della sua giornata. Alienazione. Do uno sguardo al cellulare: una chiamata persa. Parto con l’immaginazione. È sicuramente il lavoro della mia vita e io non ho preso la chiamata perché sto lavorando in questo maledetto call center. Ogni tanto parte la musica. Pensano che lavorare così possa essere meno massacrante. Io invece non sento nulla e appena risponde qualcuno mi chino in basso e avvicino sempre più le cuffie alle mie orecchie. Ho difficoltà a sentire e delle volte riagganciano. Sarò stata mandata a quel paese dopo aver pronunciato il mio nome?

Dell’altro carceriere non ricordo il nome. Ha tutta l’aria di essere il protagonista della serie Harry Potter. Lo guardo e me lo immagino con il mantello e la bacchetta da maghetto. Somiglianza impressionante. Si avvicina. Vuol capire chi sono. Gli confido che non ce la faccio, che mi sento in trappola. Mi guarda per capire. “Vuoi guadagnare? - mi chiede - e allora rimani!”. Me lo dice con un tono duro, quasi di ammonimento ma guardo i suoi occhi e sono tutti pieni di comprensione. Poi cede. “Anche io sono laureato e titolato ma sto qui”.

Dopo tutti i vaffa del mondo, scappo. Il turno sarebbe finito alle 21. In un attimo realizzo dove sono: alzo la testa. Guardo tutte quelle facce perse nello schermo. Respiro, metto le mani sulla sedia, scivolo indietro. Vado. Se non lo faccio ora non lo farò più, penso, perché poi mi riempiranno la testa di frottole, mi diranno “vedrai, vedrai”. Ma quel vedrai non lo voglio sentire. Uno sguardo d’intesa con Giulia e andiamo via. Lei piange per strada. È piccolina. L’abbraccio forte ma è una sconosciuta. In quel momento s’allentano le distanze. Destini comuni. Ci salutiamo dopo aver varcato la soglia dell’entrata principale di quel postaccio. Lei va a destra, io a sinistra. Non so cosa augurarle: “piccola, stai tranquilla”, le dico dopo averla abbracciata. Solitamente, tiro fuori tutte le emozioni ma in quel momento Giulia aveva la priorità. Era così autentica. Io mi trattengo. Faccio finta di niente, come se per me non fosse lo stesso.

Prima di andarmene, incontro Potter. Fuma una sigaretta. “Buona fortuna” – mi dice ma questa volta i suoi occhi chiari non mi giudicano. Esco. Giulia non c’è più. Forse non rivedrò mai più nessuno degli esseri umani incontrati lì dentro. Sento una strana sensazione di sollievo anche se penso di essere una stronza che si lascia scappare un lavoro. Ma è decisamente una sensazione più piacevole di quella che stavo vivendo con le cuffie incollate alle orecchie e in procinto di cadere sulla fronte.

Sulla metro sale un musicista. Ha un carrello e intravedo un violino: appena lo tira fuori i miei occhi si illuminano. “Somewhere over the rainbow…”... e non mi sento più sul treno. Potere della musica. Sono altrove e ho il volto rilassato. Troverò un altro lavoro...

A fine serata, arriva “quella” telefonata su cui avevo creato un’altra vita parallela. È di nuovo quel numero. Mi brillano gli occhi. È Idris che mi chiede cosa ne penso di un certo servizio. Scherzi del destino. È difficile ricevere una telefonata commerciale sul proprio cellulare. Il mio tono è rilassato. Lo ringrazio prima che lo faccia lui. Lui stai zitto per un po’... E io sorriso. Ma lui non mi vede. Non sa.