sabato 23 febbraio 2013

Neofascismi vestiti di rabbia

Populismo, riduzione dicotomica della realtà a due sole possibilità: i cattivi - tutta la classe politica corrotta, tutti, indistintamente, come se la classe politica non fosse parte della società civile - e i buoni - tutti i cittadini, anche gli evasori fiscali e quelli che buttano le bottiglie di plastica in mezzo alla strada, i furbetti del quartiere, i raccomandati, i violenti che vanno negli stadi a distruggere tutto; quelli che hanno sempre votato Berlusconi, quelli che “ma in fondo Mussolini ha fatto cose buone” e quelli che difendono ancora i regimi comunisti dittatoriali nel mondo; quelli che sottomettono le donne, che sfruttano i deboli sul posto di lavoro, che ne approfittano degli anziani; quelli che “gli omosessuali va bene ma alla larga da me”, quelli che se ne fottono del “famoso” prossimo; me e quelli che “gli immigrati se ne devono andare al paese loro”. Questa è la fenomenologia spicciola della filosofia popolare (rifiutata, teoricamente, da tutti) del “fare di tutta l’erba un fascio”. La realtà, purtroppo o per fortuna, è molto più complessa e complicata. Nella realtà non ci sono i buoni, da una parte, e i cattivi, dall’altra.

venerdì 15 febbraio 2013

Cassazione: no all'addebito della separazione al coniuge che abbandona casa per intollerbilità della convivenza. Fonte: Cassazione: no all’addebito della separazione al coniuge che abbandona casa per intollerbilità della convivenza. Il testo della sentenza (StudioCataldi.it)

Abbiamo dato notizie ieri della recente sentenza della Cassazione in tema di separazione giudiziale. Si tratta dela sentenza n. 2183/2013 con cui la prima sezione civile della Corte di Cassazione, confermando le precedenti decisioni di mertito, ha precisato che deve escludersi l'addebito della separazione al coniuge che ha abbandonato la casa familiare per la convivenza divenuta intollerabile. Pubblichiamo ora qui sotto il testo integrale della sentenza. Gli Ermellini hanno affermato che disimpegnarsi dall'unione costituisce un diritto costituzionalmente garantito e non può essere fonte di riprovazione giuridica, specialmente laddove detta decisione risulti adottata da persona in età matura all'esito di una lunga coabitazione non felice, mentre solitamente l'avanzare dell'età tende ad avvicinare i coniugi con il crescere delle necessità di assistenza reciproca, morale e materiale. Secondo la ricostruzione della vicenda, la Corte d'appello di Firenze, in riforma della sentenza di primo grado, aveva escluso l'addebito della separazione dei coniugi, in favore della ex moglie che si era allontanata dalla casa coniugale, avendo poi chiesto la separazione. I giudici di secondo grado avevano ritenuto che l'abbandono, a un'età - settant'anni - in cui semmai "più naturale è il bisogno di vicinanza e di solidarietà morale e materiale" e dopo quasi cinquant'anni di un matrimonio nel complesso non felice, come dimostrato anche da una risalente separazione poi rientrata, trovava la sua ragione appunto in quella infelicità - almeno per la signora - nella quale ella, alla fine, non aveva avuto più la forza di continuare a vivere. Del che non le si poteva muovere addebito una volta riconosciuto, anche nella giurisprudenza di legittimità (si fa espresso riferimento a Cass. 21099/2007), che nessuno può essere obbligato a mantenere una convivenza non più gradita, il disimpegnarsi dalla quale costituisce un diritto costituzionalmente garantito. Rigettando il motivo di ricorso dell'ex marito, i giudici di Piazza Cavour hanno spiegato che "con la riforma del diritto di famiglia del 1975 la separazione dei coniugi, com'è noto, è stata svincolata dal presupposto della colpa di uno di essi e consentita, invece, tutte le volte che "si verificano, anche indipendentemente dalla volontà di uno o di entrambi i coniugi, fatti tali da rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza" (art. 151 c.c. nel testo riformato). Con la sentenza n. 3356 del 2007 questa Corte ha ampliato l'originaria interpretazione, di stampo strettamente oggettivistico, di tale norma - interpretazione secondo la quale il diritto alla separazione si fonda su fatti che nella coscienza sociale e nella comune percezione rendano intollerabile il proseguimento della vita coniugale - per dare della medesima norma una lettura aperta anche alla valorizzazione di "elementi di carattere soggettivo, costituendo la intollerabilità un fatto psicologico squisitamente individuale, riferibile alla formazione culturale, alla sensibilità e al contesto interno alla vita dei coniugi". Ribadita, quindi, l'originaria impostazione oggettivistica quanto al (solo) profilo del controllo giurisdizionale sulla intollerabilità della prosecuzione della convivenza nel senso che le situazioni di intollerabilità della convivenza devono essere oggettivamente apprezzabili e giudizialmente controllabili - e puntualizzato che la frattura può dipendere, come già affermato da questa stessa Corte (Cass. 7148/1992) dalla condizione di disaffezione e di distacco spirituale anche di uno solo dei coniugi, ha concluso che in una doverosa "visione evolutiva del rapporto coniugale - ritenuto, nello stadio attuale della società, incoercibile e collegato al perdurante consenso di ciascun coniuge - (...) ciò significa che il giudice, per pronunciare la separazione, deve verificare, in base ai fatti obiettivi emersi, ivi compreso il comportamento processuale delle parti, con particolare riferimento alle risultanze del tentativo di conciliazione ed a prescindere da qualsivoglia elemento di addebitabilità, l'esistenza, anche in un solo coniuge, di una condizione di disaffezione al matrimonio tale da rendere incompatibile, allo stato, pur a prescindere da elementi di addebitabilità da parte dell'altro, la convivenza. Ove tale situazione d'intollerabilità si verifichi, anche rispetto ad un solo coniuge, deve ritenersi che questi abbia diritto di chiedere la separazione: con la conseguenza che la relativa domanda, costituendo esercizio di un suo diritto, non può costituire ragione di addebito". Fonte: Cassazione: no all’addebito della separazione al coniuge che abbandona casa per intollerbilità della convivenza. Il testo della sentenza (StudioCataldi.it)

mercoledì 6 febbraio 2013

Italia Criminale: condanna Cedu per carceri sovraffollate. I diritti negati degli ultimi

Si parla di sovraffollamento delle carceri e si parla dell'Italia. La notizia più "cliccata" degli ultimi giorni ci racconta di un'Italia criminale condannata dalla Corte Europea dei Diritto dell'Uomo per trattamenti disumani nei confronti dei detenuti. I quotidiani italiani si sono sbizzarriti nel fare ironia dopo la sentenza Cedu - "Campioni d'Europa", titolava il Manifesto -  già portata all'attenzione dei media e da tutti coloro che si sono resi conto che vivere in meno di tre metri quadrati non è vivere ma sopravvivere: dallo sciopero della fame di Marco Pannella, al richiamo di Napolitano; dalla lettera dei più illustri costituzionalisti indirizzata al Capo dello Stato, alle battaglie provenienti dal mondo delle associazioni. Il dibattito non si è aperto e, ad eccezione di un "lieve" provvedimento-palliativo di inizio legislatura, il Parlamento ha deciso che una "questione di prepotente urgenza", come definita dal Professor Pugiotto, primo firmatario della lettera sullo stato delle carceri al Capo dello Stato, poteva attendere.

Il dopo è stato scritto dalle decisioni della Cedu. All'origine della condanna nei confronti della Repubblica italiana, vi sono i ricorsi di sette detenuti con cui è stata adita la Corte diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, per denunciare le condizioni detentive contrarie all'articolo 3 della Convenzione ("nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti").

La lettera dei costituzionalisti rivolta al Capo dello Stato - "quale primo garante della legalità costituzionale del nostro ordinamento, con la massima fiducia in un Suo immediato ricorso al potere di messaggio alle Camere, affinché il Parlamento eserciti finalmente le proprie prerogative per dare una contestuale risposta, concreta e non più dilazionabile, sia alla crisi della giustizia italiana che al suo più drammatico punto di ricaduta, le carceri" - è tra i documenti più coraggiosi ed emblematici in grado di dipingere, nello specifico, in quali condizioni disumane i detenuti, di ogni nazionalità, siano costretti a (soprav)vivere.

Anche il rapporto sullo stato dei diritti umani negli istituti penitenziari e nei centri di accoglienza e trattamento per migranti, realizzato dalla Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani del Senato e presentato nell'anno appena trascorso, parla di un dramma, di circa 67 mila persone all'interno di istituti che ne possono contenere 22 mila in meno.

Così, lo Stato italiano è inadempiente e deve pagare non solo perché questa situazione viola i principi che ci siamo dati come base della nostra convivenza, in particolare, l'art. 27 e cioè il principio secondo cui "le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato" ma (soprattutto), perché abbiamo assunto obblighi internazionali che ci impegnano al rispetto dei principi stabiliti dalla Cedu.

Almeno in questo, la "globalizzazione" (dei diritti), per dirla in modo spicciolo, ha avuto effetti favorevoli: il superamento delle barriere nazionali in favore di un più altro grado di tutela dei diritti. La Corte non si è limitata però a condannare l'Italia, che pagherà con i soldi dei contribuenti ma inoltre ha sollecitato il nostro paese a fare "qualcosa" che possa cambiare il destino degli individui che popolano gli istituti penitenziari.

L'Italia si porta dietro questa situazione come un fardello, come il peccato originale dell'inerzia della politica: non si tratta solo di un problema "architettonico" ma di una questione ben più complessa che deve, soprattutto dopo questa sentenza, portare a ripensare al sistema penitenziario, questa volta, però, in termini nuovi. Ci vogliono le famose "riforme strutturali" (e quando mai!). Una delle espressioni più abusate dalla politica che rimane retorica se tutti gli input indirizzati al Parlamento rimangono lettera morta perché è come se le carceri fossero un mondo a parte in cui i diritti di quelli "cattivi" non devono essere rispettati, perché in fondo, queste persone hanno sbagliato e, oltre alla pena, gli si deve far scontare qualche altra cosa.

Figurarsi se la pena, a queste condizioni, possa rieducare. Senza dimenticare che le carceri "ospitano" soggetti condannati in via definitiva ma anche soggetti in attesa di giudizio e quindi considerati non colpevoli fino alla condanna definitiva. Se questa non è una tragedia...
Fonte: Italia Criminale: condanna Cedu per carceri sovraffollate. I diritti negati degli ultimi (StudioCataldi.it)

UN PAIO DI SMS AL GIORNO, TOLGONO LA SIGARETTA DI TORNO. Dalla Nuova Dalla Nuova Zelanda, un nuovo metodo per smettere di fumare. Robyn Whittaker, a capo dell'equipe, spiega a What's Up come fare.

Malattie d'ogni specie, invecchiamento della pelle, ingiallimento dei denti, alito cattivo, soldi sprecati, declino cognitivo. Eppure i fumatori sono sempre di più. E più aumentano i fumatori e più aumentano le strategie per farli (farci) smettere di fumare. Tempo fa ci aveva pensato Allen Carr, l'uomo che dopo essere arrivato a fumare 100 sigarette al giorno, sul fumo, ci ha fatto una fortuna vendendo milioni di copie del suo libro-terapia. I tempi cambiano e con esse le strategie. Dopo la sigaretta elettronica (che per alcuni sembra far più danni di quella originale), dalla Nuova Zelanda arriva l'ultima trovata: smettere di fumare per mezzo di sms grazie ad un metodo realizzato da una equipe dell'Università di Auckland (unità di ricerca sperimentazioni cliniche) guidata dalla professoressa Robyn Whittaker, raggiunta da What's Up. Sostanzialmente l'idea è quella sostituire la psicoterapia tradizionale "de visu" con sms e video stimolanti per farci smettere, quasi fosse un tutor a portata di mano. Un'idea non proprio originale ma che sembra dia discreti risultati: in uno studio condotto su 9.100 fumatori, delle 4550 persone "seguite" dagli sms per sei mesi, 444 sono riuscite a liberarsi dal vizio. Delle altre 4550 persone che non hanno ricevuto sms, solo in 240 hanno rinunciato alla bionda. Una percentuale quasi doppia. Insomma, smettere da soli è davvero impossibile, o quasi? "No, non è impossibile - ci dice Robyn Whittaker - sappiamo che in molti Paesi il 5% dei fumatori smette senza aiuti ma solo con buone politiche di controllo del tabacco e campagne di promozione della salute. Se questa percentuale riceve un supporto smettere diventa più efficace". Come funziona questo programma? "I vari programmi - continua - hanno un numero diverso di messaggi da mandare che di solito oscilla tra i 2 e 5 messaggi al giorno nelle prime settimane in cui si decide di dare un taglio alle bionde", il periodo più difficile, "perché fumare crea una dipendenza fisiologica dalla nicotina e smettere di fumare causa astinenza con sintomi come l'irritabilità e la perdita di concentrazione". Quali sono i contenuti degli sms? "Sono motivazionali, input di incoraggiamento, anche a cercare il supporto di familiari e amici. Ci sono anche consigli su come affrontare i sintomi dell'astinenza, che sono comunque passeggeri". L'identikit del fumatore? "Tutti potrebbero fumare. Quello che è difficile da comprendere è perché un sacco di giovani comincia a fumare nonostante si conoscano benissimo tutti i danni che prova il fumo. Quindi - conclude - non cominciate, invece di smettere".