venerdì 29 luglio 2016

In ricordo di Rocco Chinnici...

Il 29 luglio del 1983 veniva assassinato insieme alla sua scorta, Rocco Chinnici, il capo dell'ufficio Istruzione presso il tribunale di Palermo. Sono passati 33 anni e in pochi se ne ricordano. “Era il 29 luglio, un venerdì, ed erano passate da poco le otto del mattino. La notizia non ci mise molto a fare il giro della città. Una bomba potentissima era esplosa in Via Pipitone Federico (…) Davanti ai nostri occhi si parò un'immagine spaventosa. L'avrebbe sintetizzata bene, all'indomani, il quotidiano L'Ora, titolando a tutta pagina: “Palermo come Beirut”. Una macchina imbottita di tritolo era stata fatta saltare in aria con un telecomando a distanza, davanti al palazzo dove risiedeva Rocco Chinnici, il capo dell'Ufficio Istruzione”. Con queste parole, Angiolo Pellegrini, capitano dell'arma dei carabinieri negli anni '80 che lavorò a stretto contatto con Falcone, racconta nel suo libro “Noi, gli uomini di Falcone”, la morte di Rocco Chinnici, il magistrato che permise a Falcone e Borsellino di dichiarare guerra alla mafia attraverso una svolta nella modalità di indagine. Fu Chinnici ad inventarsi il “pool”, un gruppo di magistrati che avrebbero condiviso le informazioni e che avrebbero, soprattutto, combattuto questa guerra aggredendo i patrimoni criminali, nella consapevolezza che bisognasse indebolire anche economicamente la mafia per eliminarla. Il pool era una idea molto innovativa negli anni in cui non esistevano ancora le procure antimafia, istituite in seguito solo nel 1991. Pellegrini incontrava Chinnici ogni mattina e benché collaborasse con Falcone, gli piaceva fermarsi a salutare quel magistrato che gli ricordava suo padre: “dietro quel volto compassato, da magistrato tutto d'un pezzo si nascondevano tanto calore umano e tante energie, a volte, anche inaspettate per un uomo della sua età”, scrive Pellegrini “in quegli incontri mattutini davanti a una tazzina di caffè, c'era molto di più di un confronto professionale”. “Capitano, si tenga pronto, sto per disporre l'arresto dei Salvo. I tempi sono ormai maturi”, disse Chinnici al Capitano Pellegrini che rimase spiazzato perché sapeva che “chi tocca i Salvo Muore”. Questo si diceva negli ambienti investigativi e per questo Angiolo Pellegrini raccomandò prudenza a Chinnici per evitare le conseguenze di una indagine contro gli esattori di Salemi, così come venivano chiamati Ignazio e Nino Salvo. Dopo pochi giorni arrivò quel maledetto 29 luglio 1983. Sì, perché la mafia ammazzava davvero solo d'estate. Fu la prima autobomba, di una lunga serie, purtroppo. “Quel giorno, - scrive Pellegrini - Palermo e la Sicilia appresero una parola fino ad allora sconosciuta: “autobomba”. Ci vollero 17 anni e due processi pieni di depistaggi prima di arrivare alla verità: la morte di Chinnici era stata la punizione che la mafia aveva voluto infliggere a Chinnici per aver osato indagare sui democristiani esattori di Salemi. Dopo 33 anni il connubio mafia-politica rimane inalterato ma Chinnici, così come tutti i coraggiosi uomini che hanno lottato e continuano a lottare contro al mafia, sono vivi più che mai nei loro insegnamenti. In una nota intervista rilasciata a Pippo Fava, lo scomodo cronista e intellettuale eliminato allo stesso modo dalla mafia, lasciò il suo testamento spirituale: “parlare ai giovani, alla gente, raccontare chi sono e come si arricchiscono i mafiosi (...) fa parte dei doveri di un giudice. Senza una nuova coscienza, noi, da soli, non ce la faremo mai. (…) La mafia è stata sempre reazione, conservazione, difesa e quindi accumulazione della ricchezza. Prima era il feudo da difendere, ora sono i grandi appalti pubblici, i mercati più opulenti, i contrabbandi che percorrono il mondo e amministrano migliaia di miliardi. La mafia è dunque tragica, forsennata, crudele vocazione alla ricchezza. (...) La mafia stessa è un modo di fare politica mediante la violenza, è fatale quindi che cerchi una complicità, un riscontro, una alleanza con la politica pura, cioè praticamente con il potere”.

giovedì 28 luglio 2016

Ricordando Tiziano Terzani...

Nel giorno dell'anniversario della morte di Tiziano Terzani, è bello rileggere un suo pezzo scritto tanti anni fa, per capire quanto quell'uomo dalla barba bianca e dal sorriso grande fosse profetico e lungimirante. Il Sultano e San Francesco Oriana, dalla finestra di una casa poco lontana da quella in cui anche tu sei nata, guardo le lame austere ed eleganti dei cipressi contro il cielo e ti penso a guardare, dalle tue finestre a New York, il panorama dei grattacieli da cui ora mancano le Torri Gemelle. Mi torna in mente un pomeriggio di tanti, tantissimi anni fa quando assieme facemmo una lunga passeggiata per le stradine di questi nostri colli argentati dagli ulivi. Io mi affacciavo, piccolo, alla professione nella quale tu eri già grande e tu proponesti di scambiarci delle «Lettere da due mondi diversi»: io dalla Cina dell’immediato dopo-Mao in cui andavo a vivere, tu dall’America. Per colpa mia non lo facemmo. Ma è in nome di quella tua generosa offerta di allora, e non certo per coinvolgerti ora in una corrispondenza che tutti e due vogliamo evitare, che mi permetto di scriverti. Davvero mai come ora, pur vivendo sullo stesso pianeta, ho l’impressione di stare in un mondo assolutamente diverso dal tuo. Ti scrivo anche - e pubblicamente per questo - per non far sentire troppo soli quei lettori che forse, come me, sono rimasti sbigottiti dalle tue invettive, quasi come dal crollo delle due Torri. Là morivano migliaia di persone e con loro il nostro senso di sicurezza; nelle tue parole sembra morire il meglio della testa umana - la ragione; il meglio del cuore - la compassione. Il tuo sfogo mi ha colpito, ferito e mi ha fatto pensare a Karl Kraus. «Chi ha qualcosa da dire si faccia avanti e taccia», scrisse, disperato dal fatto che, dinanzi all’indicibile orrore della Prima Guerra Mondiale, alla gente non si fosse paralizzata la lingua. Al contrario, gli si era sciolta, creando tutto attorno un assurdo e confondente chiacchierio. Tacere per Kraus significava riprendere fiato, cercare le parole giuste, riflettere prima di esprimersi. Lui usò di quel consapevole silenzio per scrivere Gli ultimi giorni dell’umanità, un’opera che sembra essere ancora di un’inquietante attualità. Pensare quel che pensi e scriverlo è un tuo diritto. Il problema è però che, grazie alla tua notorietà, la tua brillante lezione di intolleranza arriva ora anche nelle scuole, influenza tanti giovani e questo mi inquieta. Il nostro di ora è un momento di straordinaria importanza. L’orrore indicibile è appena cominciato, ma è ancora possibile fermarlo facendo di questo momento una grande occasione di ripensamento. È un momento anche di enorme responsabilità perché certe concitate parole, pronunciate dalle lingue sciolte, servono solo a risvegliare i nostri istinti più bassi, ad aizzare la bestia dell’odio che dorme in ognuno di noi ed a provocare quella cecità delle passioni che rende pensabile ogni misfatto e permette, a noi come ai nostri nemici, il suicidarsi e l’uccidere. «Conquistare le passioni mi pare di gran lunga più difficile che conquistare il mondo con la forza delle armi. Ho ancora un difficile cammino dinanzi a me», scriveva nel 1925 quella bell’anima di Gandhi. Ed aggiungeva: «Finché l’uomo non si metterà di sua volontà all’ultimo posto fra le altre creature sulla terra, non ci sarà per lui alcuna salvezza». E tu, Oriana, mettendoti al primo posto di questa crociata contro tutti quelli che non sono come te o che ti sono antipatici, credi davvero di offrirci salvezza? La salvezza non è nella tua rabbia accalorata, né nella calcolata campagna militare chiamata, tanto per rendercela più accettabile, «Libertà duratura». O tu pensi davvero che la violenza sia il miglior modo per sconfiggere la violenza? Da che mondo è mondo non c’è stata ancora la guerra che ha messo fine a tutte le guerre. Non lo sarà nemmen questa. Quel che ci sta succedendo è nuovo. Il mondo ci sta cambiando attorno. Cambiamo allora il nostro modo di pensare, il nostro modo di stare al mondo. È una grande occasione. Non perdiamola: rimettiamo in discussione tutto, immaginiamoci un futuro diverso da quello che ci illudevamo d’aver davanti prima dell’11 settembre e soprattutto non arrendiamoci alla inevitabilità di nulla, tanto meno all’inevitabilità della guerra come strumento di giustizia o semplicemente di vendetta. Le guerre sono tutte terribili. Il moderno affinarsi delle tecniche di distruzione e di morte le rendono sempre più tali. Pensiamoci bene: se noi siamo disposti a combattere la guerra attuale con ogni arma a nostra disposizione, compresa quella atomica, come propone il Segretario alla Difesa americano, allora dobbiamo aspettarci che anche i nostri nemici, chiunque essi siano, saranno ancor più determinati di prima a fare lo stesso, ad agire senza regole, senza il rispetto di nessun principio. Se alla violenza del loro attacco alle Torri Gemelle noi risponderemo con una ancor più terribile violenza - ora in Afghanistan, poi in Iraq, poi chi sa dove -, alla nostra ne seguirà necessariamente una loro ancora più orribile e poi un’altra nostra e così via. Perché non fermarsi prima? Abbiamo perso la misura di chi siamo, il senso di quanto fragile ed interconnesso sia il mondo in cui viviamo, e ci illudiamo di poter usare una dose, magari «intelligente», di violenza per mettere fine alla terribile violenza altrui. Cambiamo illusione e, tanto per cominciare, chiediamo a chi fra di noi dispone di armi nucleari, armi chimiche e armi batteriologice - Stati Uniti in testa - d’impegnarsi solennemente con tutta l’umanità a non usarle mai per primo, invece di ricordarcene minacciosamente la disponibilità. Sarebbe un primo passo in una nuova direzione. Non solo questo darebbe a chi lo fa un vantaggio morale - di per sé un’arma importante per il futuro -, ma potrebbe anche disinnescare l’orrore indicibile ora attivato dalla reazione a catena della vendetta. In questi giorni ho ripreso in mano un bellissimo libro (peccato che non sia ancora in italiano) di un vecchio amico, uscito due anni fa in Germania. Il libro si intitola Die Kunst, nicht regiert zu werde n: ethische Politik von Sokrates bis Mozart ( L’arte di non essere governati: l’etica politica da Socrate a Mozart ). L’autore è Ekkehart Krippendorff, che ha insegnato per anni a Bologna prima di tornare all’Università di Berlino. La affascinante tesi di Krippendorff è che la politica, nella sua espressione più nobile, nasce dal superamento della vendetta e che la cultura occidentale ha le sue radici più profonde in alcuni miti, come quello di Caino e quello delle Erinni, intesi da sempre a ricordare all’uomo la necessità di rompere il circolo vizioso della vendetta per dare origine alla civiltà. Caino uccide il fratello, ma Dio impedisce agli uomini di vendicare Abele e, dopo aver marchiato Caino - un marchio che è anche una protezione -, lo condanna all’esilio dove quello fonda la prima città. La vendetta non è degli uomini, spetta a Dio. Secondo Krippendorff il teatro, da Eschilo a Shakespeare, ha avuto una funzione determinante nella formazione dell’uomo occidentale perché col suo mettere sulla scena tutti i protagonisti di un conflitto, ognuno col suo punto di vista, i suoi ripensamenti e le sue possibili scelte di azione, il teatro è servito a far riflettere sul senso delle passioni e sulla inutilità della violenza che non raggiunge mai il suo fine. Purtroppo, oggi, sul palcoscenico del mondo noi occidentali siamo insieme i soli protagonisti ed i soli spettatori, e così, attraverso le nostre televisioni ed i nostri giornali, non ascoltiamo che le nostre ragioni, non proviamo che il nostro dolore. A te, Oriana, i kamikaze non interessano. A me tanto invece. Ho passato giorni in Sri Lanka con alcuni giovani delle «Tigri Tamil», votati al suicidio. Mi interessano i giovani palestinesi di «Hamas» che si fanno saltare in aria nelle pizzerie israeliane. Un po’ di pietà sarebbe forse venuta anche a te se in Giappone, sull’isola di Kyushu, tu avessi visitato Chiran, il centro dove i primi kamikaze vennero addestrati e tu avessi letto le parole, a volte poetiche e tristissime, scritte segretamente prima di andare, riluttanti, a morire per la bandiera e per l’Imperatore. I kamikaze mi interessano perché vorrei capire che cosa li rende così disposti a quell’innaturale atto che è il suicidio e che cosa potrebbe fermarli. Quelli di noi a cui i figli - fortunatamente - sono nati, si preoccupano oggi moltissimo di vederli bruciare nella fiammata di questo nuovo, dilagante tipo di violenza di cui l’ecatombe nelle Torri Gemelle potrebbe essere solo un episodio. Non si tratta di giustificare, di condonare, ma di capire. Capire, perché io sono convinto che il problema del terrorismo non si risolverà uccidendo i terroristi, ma eliminando le ragioni che li rendono tali. Niente nella storia umana è semplice da spiegare e fra un fatto ed un altro c’è raramente una correlazione diretta e precisa. Ogni evento, anche della nostra vita, è il risultato di migliaia di cause che producono, assieme a quell’evento, altre migliaia di effetti, che a loro volta sono le cause di altre migliaia di effetti. L’attacco alle Torri Gemelle è uno di questi eventi: il risultato di tanti e complessi fatti antecedenti. Certo non è l’atto di «una guerra di religione» degli estremisti musulmani per la conquista delle nostre anime, una Crociata alla rovescia, come la chiami tu, Oriana. Non è neppure «un attacco alla libertà ed alla democrazia occidentale», come vorrebbe la semplicistica formula ora usata dai politici. Un vecchio accademico dell’Università di Berkeley, un uomo certo non sospetto di anti-americanismo o di simpatie sinistrorse dà di questa storia una interpretazione completamente diversa. «Gli assassini suicidi dell’11 settembre non hanno attaccato l’America: hanno attaccato la politica estera americana», scrive Chalmers Johnson nel numero di The Nation del 15 ottobre. Per lui, autore di vari libri - l’ultimo, Blowback , contraccolpo, uscito l’anno scorso (in Italia edito da Garzanti ndr ) ha del profetico - si tratterebbe appunto di un ennesimo «contraccolpo» al fatto che, nonostante la fine della Guerra Fredda e lo sfasciarsi dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti hanno mantenuto intatta la loro rete imperiale di circa 800 installazioni militari nel mondo. Con una analisi che al tempo della Guerra Fredda sarebbe parsa il prodotto della disinformazione del Kgb, Chalmers Johnson fa l’elenco di tutti gli imbrogli, complotti, colpi di Stato, delle persecuzioni, degli assassinii e degli interventi a favore di regimi dittatoriali e corrotti nei quali gli Stati Uniti sono stati apertamente o clandestinamente coinvolti in America Latina, in Africa, in Asia e nel Medio Oriente dalla fine della Seconda Guerra Mondiale ad oggi. Il «contraccolpo» dell’attacco alle Torri Gemelle ed al Pentagono avrebbe a che fare con tutta una serie di fatti di questo tipo: fatti che vanno dal colpo di Stato ispirato dalla Cia contro Mossadeq nel 1953, seguito dall’installazione dello Shah in Iran, alla Guerra del Golfo, con la conseguente permanenza delle truppe americane nella penisola araba, in particolare l’Arabia Saudita dove sono i luoghi sacri dell’Islam. Secondo Johnson sarebbe stata questa politica americana «a convincere tanta brava gente in tutto il mondo islamico che gli Stati Uniti sono un implacabile nemico». Così si spiegherebbe il virulento anti-americanismo diffuso nel mondo musulmano e che oggi tanto sorprende gli Stati Uniti ed i loro alleati. Esatta o meno che sia l’analisi di Chalmers Johnson, è evidente che al fondo di tutti i problemi odierni degli americani e nostri nel Medio Oriente c’è, a parte la questione israeliano-palestinese, la ossessiva preoccupazione occidentale di far restare nelle mani di regimi «amici», qualunque essi fossero, le riserve petrolifere della regione. Questa è stata la trappola. L’occasione per uscirne è ora. Perché non rivediamo la nostra dipendenza economica dal petrolio? Perché non studiamo davvero, come avremmo potuto già fare da una ventina d’anni, tutte le possibili fonti alternative di energia? Ci eviteremmo così d’essere coinvolti nel Golfo con regimi non meno repressivi ed odiosi dei talebani; ci eviteremmo i sempre più disastrosi «contraccolpi» che ci verranno sferrati dagli oppositori a quei regimi, e potremmo comunque contribuire a mantenere un migliore equilibrio ecologico sul pianeta. Magari salviamo così anche l’Alaska che proprio un paio di mesi fa è stata aperta ai trivellatori, guarda caso dal presidente Bush, le cui radici politiche - tutti lo sanno - sono fra i petrolieri. A proposito del petrolio, Oriana, sono certo che anche tu avrai notato come, con tutto quel che si sta scrivendo e dicendo sull’Afghanistan, pochissimi fanno notare che il grande interesse per questo paese è legato al fatto d’essere il passaggio obbligato di qualsiasi conduttura intesa a portare le immense risorse di metano e petrolio dell’Asia Centrale (vale a dire di quelle repubbliche ex-sovietiche ora tutte, improvvisamente, alleate con gli Stati Uniti) verso il Pakistan, l’India e da lì nei paesi del Sud Est Asiatico. Il tutto senza dover passare dall’Iran. Nessuno in questi giorni ha ricordato che, ancora nel 1997, due delegazioni degli «orribili» talebani sono state ricevute a Washington (anche al Dipartimento di Stato) per trattare di questa faccenda e che una grande azienda petrolifera americana, la Unocal, con la consulenza niente di meno che di Henry Kissinger, si è impegnata col Turkmenistan a costruire quell’oleodotto attraverso l’Afghanistan. È dunque possibile che, dietro i discorsi sulla necessità di proteggere la libertà e la democrazia, l’imminente attacco contro l’Afghanistan nasconda anche altre considerazioni meno altisonanti, ma non meno determinanti. È per questo che nell’America stessa alcuni intellettuali cominciano a preoccuparsi che la combinazione fra gli interessi dell’industria petrolifera con quelli dell’industria bellica - combinazione ora prominentemente rappresentata nella compagine al potere a Washington - finisca per determinare in un unico senso le future scelte politiche americane nel mondo e per limitare all’interno del paese, in ragione dell’emergenza anti-terrorismo, i margini di quelle straordinarie libertà che rendono l’America così particolare. Il fatto che un giornalista televisivo americano sia stato redarguito dal pulpito della Casa Bianca per essersi chiesto se l’aggettivo «codardi», usato da Bush, fosse appropriato per i terroristi-suicidi, così come la censura di certi programmi e l’allontanamento da alcuni giornali, di collaboratori giudicati non ortodossi, hanno aumentato queste preoccupazioni. L’aver diviso il mondo in maniera - mi pare - «talebana», fra «quelli che stanno con noi e quelli contro di noi», crea ovviamente i presupposti per quel clima da caccia alle streghe di cui l’America ha già sofferto negli anni Cinquanta col maccartismo, quando tanti intellettuali, funzionari di Stato ed accademici, ingiustamente accusati di essere comunisti o loro simpatizzanti, vennero perseguitati, processati e in moltissimi casi lasciati senza lavoro. Il tuo attacco, Oriana - anche a colpi di sputo - alle «cicale» ed agli intellettuali «del dubbio» va in quello stesso senso. Dubitare è una funzione essenziale del pensiero; il dubbio è il fondo della nostra cultura. Voler togliere il dubbio dalle nostre teste è come volere togliere l’aria ai nostri polmoni. Io non pretendo affatto d’aver risposte chiare e precise ai problemi del mondo (per questo non faccio il politico), ma penso sia utile che mi si lasci dubitare delle risposte altrui e mi si lasci porre delle oneste domande. In questi tempi di guerra non deve essere un crimine parlare di pace. Purtroppo anche qui da noi, specie nel mondo «ufficiale» della politica e dell’establishment mediatico, c’è stata una disperante corsa alla ortodossia. È come se l’America ci mettesse già paura. Capita così di sentir dire in televisione a un post-comunista in odore di una qualche carica nel suo partito, che il soldato Ryan è un importante simbolo di quell’America che per due volte ci ha salvato. Ma non c’era anche lui nelle marce contro la guerra americana in Vietnam? Per i politici - me ne rendo conto - è un momento difficilissimo. Li capisco e capisco ancor più l’angoscia di qualcuno che, avendo preso la via del potere come una scorciatoia per risolvere un piccolo conflitto di interessi terreni si ritrova ora alle prese con un enorme conflitto di interessi divini, una guerra di civiltà combattuta in nome di Iddio e di Allah. No. Non li invidio, i politici. Siamo fortunati noi, Oriana. Abbiamo poco da decidere e non trovandoci in mezzo ai flutti del fiume, abbiamo il privilegio di poter stare sulla riva a guardare la corrente. Ma questo ci impone anche grandi responsabilità come quella, non facile, di andare dietro alla verità e di dedicarci soprattutto «a creare campi di comprensione, invece che campi di battaglia», come ha scritto Edward Said, professore di origine palestinese ora alla Columbia University, in un saggio sul ruolo degli intellettuali uscito proprio una settimana prima degli attentati in America. Il nostro mestiere consiste anche nel semplificare quel che è complicato. Ma non si può esagerare, Oriana, presentando Arafat come la quintessenza della doppiezza e del terrorismo ed indicando le comunità di immigrati musulmani da noi come incubatrici di terroristi. Le tue argomentazioni verranno ora usate nelle scuole contro quelle buoniste, da libro Cuore , ma tu credi che gli italiani di domani, educati a questo semplicismo intollerante, saranno migliori? Non sarebbe invece meglio che imparassero, a lezione di religione, anche che cosa è l’Islam? Che a lezione di letteratura leggessero anche Rumi o il da te disprezzato Omar Kayan? Non sarebbe meglio che ci fossero quelli che studiano l’arabo, oltre ai tanti che già studiano l’inglese e magari il giapponese? Lo sai che al ministero degli Esteri di questo nostro paese affacciato sul Mediterraneo e sul mondo musulmano, ci sono solo due funzionari che parlano arabo? Uno attualmente è, come capita da noi, console ad Adelaide in Australia. Mi frulla in testa una frase di Toynbee: «Le opere di artisti e letterati hanno vita più lunga delle gesta di soldati, di statisti e mercanti. I poeti ed i filosofi vanno più in là degli storici. Ma i santi e i profeti valgono di più di tutti gli altri messi assieme». Dove sono oggi i santi ed i profeti? Davvero, ce ne vorrebbe almeno uno! Ci rivorrebbe un San Francesco. Anche i suoi erano tempi di crociate, ma il suo interesse era per «gli altri», per quelli contro i quali combattevano i crociati. Fece di tutto per andarli a trovare. Ci provò una prima volta, ma la nave su cui viaggiava naufragò e lui si salvò a malapena. Ci provò una seconda volta, ma si ammalò prima di arrivare e tornò indietro. Finalmente, nel corso della quinta crociata, durante l’assedio di Damietta in Egitto, amareggiato dal comportamento dei crociati («vide il male ed il peccato»), sconvolto da una spaventosa battaglia di cui aveva visto le vittime, San Francesco attraversò le linee del fronte. Venne catturato, incatenato e portato al cospetto del Sultano. Peccato che non c’era ancora la Cnn - era il 1219 - perché sarebbe interessantissimo rivedere oggi il filmato di quell’incontro. Certo fu particolarissimo perché, dopo una chiacchierata che probabilmente andò avanti nella notte, al mattino il Sultano lasciò che San Francesco tornasse, incolume, all’accampamento dei crociati. Mi diverte pensare che l’uno disse all’altro le sue ragioni, che San Francesco parlò di Cristo, che il Sultano lesse passi del Corano e che alla fine si trovarono d’accordo sul messaggio che il poverello di Assisi ripeteva ovunque: «Ama il prossimo tuo come te stesso». Mi diverte anche immaginare che, siccome il frate sapeva ridere come predicare, fra i due non ci fu aggressività e che si lasciarono di buon umore sapendo che comunque non potevano fermare la storia. Ma oggi? Non fermarla può voler dire farla finire. Ti ricordi, Oriana, Padre Balducci che predicava a Firenze quando noi eravamo ragazzi? Riguardo all’orrore dell’olocausto atomico pose una bella domanda: «La sindrome da fine del mondo, l’alternativa fra essere e non essere, hanno fatto diventare l’uomo più umano?». A guardarsi intorno la risposta mi pare debba essere «No». Ma non possiamo rinunciare alla speranza. «Mi dica, che cosa spinge l’uomo alla guerra?», chiedeva Albert Einstein nel 1932 in una lettera a Sigmund Freud. «È possibile dirigere l’evoluzione psichica dell’uomo in modo che egli diventi più capace di resistere alla psicosi dell’odio e della distruzione?» Freud si prese due mesi per rispondergli. La sua conclusione fu che c’era da sperare: l’influsso di due fattori - un atteggiamento più civile, ed il giustificato timore degli effetti di una guerra futura - avrebbe dovuto mettere fine alle guerre in un prossimo avvenire. Giusto in tempo la morte risparmiò a Freud gli orrori della Seconda Guerra Mondiale. Non li risparmiò invece ad Einstein, che divenne però sempre più convinto della necessità del pacifismo. Nel 1955, poco prima di morire, dalla sua casetta di Princeton in America dove aveva trovato rifugio, rivolse all’umanità un ultimo appello per la sua sopravvivenza: «Ricordatevi che siete uomini e dimenticatevi tutto il resto». Per difendersi, Oriana, non c’è bisogno di offendere (penso ai tuoi sputi ed ai tuoi calci). Per proteggersi non c’è bisogno d’ammazzare. Ed anche in questo possono esserci delle giuste eccezioni. M’è sempre piaciuta nei Jataka , le storie delle vite precedenti di Buddha, quella in cui persino lui, epitome della non violenza, in una incarnazione anteriore uccide. Viaggia su una barca assieme ad altre 500 persone. Lui, che ha già i poteri della preveggenza, «vede» che uno dei passeggeri, un brigante, sta per ammazzare tutti e derubarli e lui lo previene buttandolo nell’acqua ad affogare per salvare gli altri. Essere contro la pena di morte non vuol dire essere contro la pena in genere ed in favore della libertà di tutti i delinquenti. Ma per punire con giustizia occorre il rispetto di certe regole che sono il frutto dell’incivilimento, occorre il convincimento della ragione, occorrono delle prove. I gerarchi nazisti furono portati dinanzi al Tribunale di Norimberga; quelli giapponesi responsabili di tutte le atrocità commesse in Asia, furono portati dinanzi al Tribunale di Tokio prima di essere, gli uni e gli altri, dovutamente impiccati. Le prove contro ognuno di loro erano schiaccianti. Ma quelle contro Osama Bin Laden? «Noi abbiamo tutte le prove contro Warren Anderson, presidente della Union Carbide. Aspettiamo che ce lo estradiate», scrive in questi giorni dall’India agli americani, ovviamente a mo’ di provocazione, Arundhati Roy, la scrittrice de Il Dio delle piccole cose : una come te, Oriana, famosa e contestata, amata ed odiata. Come te, sempre pronta a cominciare una rissa, la Roy ha usato della discussione mondiale su Osama Bin Laden per chiedere che venga portato dinanzi ad un tribunale indiano il presidente americano della Union Carbide responsabile dell’esplosione nel 1984 nella fabbrica chimica di Bhopal in India che fece 16.000 morti. Un terrorista anche lui? Dal punto di vista di quei morti forse sì. L’immagine del terrorista che ora ci viene additata come quella del «nemico» da abbattere è il miliardario saudita che, da una tana nelle montagne dell’Afghanistan, ordina l’attacco alle Torri Gemelle; è l’ingegnere-pilota, islamista fanatico, che in nome di Allah uccide se stesso e migliaia di innocenti; è il ragazzo palestinese che con una borsetta imbottita di dinamite si fa esplodere in mezzo ad una folla. Dobbiamo però accettare che per altri il «terrorista» possa essere l’uomo d’affari che arriva in un paese povero del Terzo Mondo con nella borsetta non una bomba, ma i piani per la costruzione di una fabbrica chimica che, a causa di rischi di esplosione ed inquinamento, non potrebbe mai essere costruita in un paese ricco del Primo Mondo. E la centrale nucleare che fa ammalare di cancro la gente che ci vive vicino? E la diga che disloca decine di migliaia di famiglie? O semplicemente la costruzione di tante piccole industrie che cementificano risaie secolari, trasformando migliaia di contadini in operai per produrre scarpe da ginnastica o radioline, fino al giorno in cui è più conveniente portare quelle lavorazioni altrove e le fabbriche chiudono, gli operai restano senza lavoro e non essendoci più i campi per far crescere il riso, muoiono di fame? Questo non è relativismo. Voglio solo dire che il terrorismo, come modo di usare la violenza, può esprimersi in varie forme, a volte anche economiche, e che sarà difficile arrivare ad una definizione comune del nemico da debellare. I governi occidentali oggi sono uniti nell’essere a fianco degli Stati Uniti; pretendono di sapere esattamente chi sono i terroristi e come vanno combattuti. Molto meno convinti però sembrano i cittadini dei vari paesi. Per il momento non ci sono state in Europa dimostrazioni di massa per la pace; ma il senso del disagio è diffuso così come è diffusa la confusione su quel che si debba volere al posto della guerra. «Dateci qualcosa di più carino del capitalismo», diceva il cartello di un dimostrante in Germania. «Un mondo giusto non è mai NATO», c’era scritto sullo striscione di alcuni giovani che marciavano giorni fa a Bologna. Già. Un mondo «più giusto» è forse quel che noi tutti, ora più che mai, potremmo pretendere. Un mondo in cui chi ha tanto si preoccupa di chi non ha nulla; un mondo retto da principi di legalità ed ispirato ad un po’ più di moralità. La vastissima, composita alleanza che Washington sta mettendo in piedi, rovesciando vecchi schieramenti e riavvicinando paesi e personaggi che erano stati messi alla gogna, solo perché ora tornano comodi, è solo l’ennesimo esempio di quel cinismo politico che oggi alimenta il terrorismo in certe aree del mondo e scoraggia tanta brava gente nei nostri paesi. Gli Stati Uniti, per avere la maggiore copertura possibile e per dare alla guerra contro il terrorismo un crisma di legalità internazionale, hanno coinvolto le Nazioni Unite, eppure gli Stati Uniti stessi rimangono il paese più reticente a pagare le proprie quote al Palazzo di Vetro, sono il paese che non ha ancora ratificato né il trattato costitutivo della Corte Internazionale di Giustizia, né il trattato per la messa al bando delle mine anti-uomo e tanto meno quello di Kyoto sulle mutazioni climatiche. L’interesse nazionale americano ha la meglio su qualsiasi altro principio. Per questo ora Washington riscopre l’utilità del Pakistan, prima tenuto a distanza per il suo regime militare e punito con sanzioni economiche a causa dei suoi esperimenti nucleari; per questo la Cia sarà presto autorizzata di nuovo ad assoldare mafiosi e gangster cui affidare i «lavoretti sporchi» di liquidare qua e là nel mondo le persone che la Cia stessa metterà sulla sua lista nera. Eppure un giorno la politica dovrà ricongiungersi con l’etica se vorremo vivere in un mondo migliore: migliore in Asia come in Africa, a Timbuctu come a Firenze. A proposito, Oriana. Anche a me ogni volta che, come ora, ci passo, questa città mi fa male e mi intristisce. Tutto è cambiato, tutto è involgarito. Ma la colpa non è dell’Islam o degli immigrati che ci si sono installati. Non son loro che han fatto di Firenze una città bottegaia, prostituita al turismo! È successo dappertutto. Firenze era bella quando era più piccola e più povera. Ora è un obbrobrio, ma non perché i musulmani si attendano in Piazza del Duomo, perché i filippini si riuniscono il giovedì in Piazza Santa Maria Novella e gli albanesi ogni giorno attorno alla stazione. È così perché anche Firenze s’è «globalizzata», perché non ha resistito all’assalto di quella forza che, fino ad ieri, pareva irresistibile: la forza del mercato. Nel giro di due anni da una bella strada del centro in cui mi piaceva andare a spasso è scomparsa una libreria storica, un vecchio bar, una tradizionalissima farmacia ed un negozio di musica. Per far posto a che? A tanti negozi di moda. Credimi, anch’io non mi ci ritrovo più. Per questo sto, anch’io ritirato, in una sorta di baita nell’Himalaya indiana dinanzi alle più divine montagne del mondo. Passo ore, da solo, a guardarle, lì maestose ed immobili, simbolo della più grande stabilità, eppure anche loro, col passare delle ore, continuamente diverse e impermanenti come tutto in questo mondo. La natura è una grande maestra, Oriana, e bisogna ogni tanto tornarci a prendere lezione. Tornaci anche tu. Chiusa nella scatola di un appartamento dentro la scatola di un grattacielo, con dinanzi altri grattacieli pieni di gente inscatolata, finirai per sentirti sola davvero; sentirai la tua esistenza come un accidente e non come parte di un tutto molto, molto più grande di tutte le torri che hai davanti e di quelle che non ci sono più. Guarda un filo d’erba al vento e sentiti come lui. Ti passerà anche la rabbia. Ti saluto, Oriana e ti auguro di tutto cuore di trovare pace. Perché se quella non è dentro di noi non sarà mai da nessuna parte.

martedì 19 luglio 2016

57 giorni

Il 19 luglio del 1993, ventitré anni fa, ero a Palermo con i miei genitori per ricordare un giudice morto ammazzato insieme alla sua scorta un anno prima. Sono passati tantissimi anni e per fortuna nessuno dimenticherà mai quel 19 luglio di tanti anni fa e nessuno potrà dimenticare quei 57 giorni che passarono dall'omicidio del giudice Falcone alla Strage di via D'Amelio. Nessuno dimenticherà Emanuela, Claudio, Vincenzo, Walter e Agostino, i cinque uomini e donne della scorta morti insieme al giudice Paolo. Nessuno, però, ha imparato o fa finta di non capire, quanto, purtroppo, certa politica e certe istituzioni vadano a braccetto con la mafia. Ventitré anni fa ero a Palermo per ricordare Borsellino. È da allora che non torno a Palermo. È da allora che ogni anno mi piacerebbe ricordarlo così, tornando a Palermo.

giovedì 9 giugno 2016

Emessa storica sentenza sul Plan Condor in Argentina

È stata emessa la sentenza del Plan Condor in Argentina: è stato condannato l'ex presidente Bignone insieme ad altri quindici militari responsabili del sequestro, della tortura e della sparizione forzata di quasi 100 oppositori politici. Si tratta di una sentenza storica perché per la prima volta, dopo che la storia ce lo aveva raccontato in seguito alla scoperta degli “archivi del terrore”, un tribunale argentino riconosce il piano di collegamento tra le giunte militari e i servizi segreti Usa. Dall'Argentina al Cile, dall'Uruguay al Paraguyay e alla Bolivia, l'operazione Condor mirava a contrastare l'insediamento di “governi rossi”. Questa sentenza si colloca nel lungo percorso che i familiari dei desaparecidos e tutti coloro che sono stati coinvolti dalla violenza politica di questa operazione criminale, stanno percorrendo da molti anni per ridare dignità agli scompari e restituire la verità. Per ascoltare l'emissione della sentenza in Argentina vedi http://www.cij.gov.ar/cijtv/.

lunedì 9 maggio 2016

Macarena Gelman testimone al Processo Condor

È la volta di Macarena Gelman: a testimoniare al processo Condor c'è la nipote del famoso poeta argentino Juan Gelman. Tra i 500 figli di desaparecidos e di oppositori politici argentini, Macarena venne alla luce durante la prigionia di sua madre a Orletti e venne data in adozione in Uruguay: “Macarena è la prova provata dell'esistenza del Plan Condor”, spiega un avvocato in udienza per evidenziare l'importanza della testimonianza. "I miei genitori si chiamavano: Marcelo Ariel Gelman e Maria Claudia Garcia Irureta Goyena", esordisce Macarena che è oggi deputata del Frente Amplio e ha scoperto solo dopo molto tempo di essere la nipote di Juan Gelman. La storia di Macarena è la storia di tanti che come lei vennero dati in adozione e strappati ai loro genitori: solo 115 di loro sono stati ritrovati, scoprendo la verità. Macarena è una di loro. Dopo l'udienza , Macarena partecipa al consueto incontro sul processo Condor alla Fondazione Basso e ad intervistarla c'è Gianni Minà che cerca di raccontare una storia troppo difficile: “alla fine quello che mi è successo credo sia la cosa più bella della mia vita: la verità è sempre la cosa più bella”, dice la donna che ha raccontato del suo rapporto con il nonno. Oltre alla Gelman, anche Barboza, ex militare e dipendente del Ministero della difesa dell'Uruguay, ha testimoniato sulla scomparsa della madre della Gelman, Maria Claudia Garcia Irureta Goyena. Mentre il corpo del padre venne ritrovato nel 1989, in un contenitore assieme ad altri 8 corpi, la madre è ancora desaparecida. Per avere maggiori informazioni sul processo e sulle altre udienze www.24marzo.it.

mercoledì 20 aprile 2016

PENSAMIENTOS

Soy de un país donde hace poco Carlos Molina uruguayo anarquista y payador fue detenido en Bahía Blanca al sur del sur frente al inmenso mar como se dice fue detenido por la policía Carlos Molina estaba cantando hilando coplas sobre el océano enorme los viajes los monstruos del océano enorme o coplas por ejemplo sobre el caballo que se acuesta en la pampa o sobre el cielo un suponer Carlos Molina cantaba como siempre bellezas y dolores cuando de pronto el Che empezó a vivir a morir en su guitarra y así la policía lo detuvo soy de un país donde se llora por el Che o en todo caso se canta por el Che y algunos están contentos con su muerte "vieron" dicen "estaba equivocado la cosa no es así" dicen y cómo carajo será la cosa no lo dicen o prefieren recitar viejos versículos o indicar señalar aconsejar mientras los demás callan miran al aire con los ojos perdidos el comandante Guevara entró a la muerte y allá andará según se dice soy de un país donde costó creer que se moría y muchos un servidor entre otros se consolaba así: "pero si él dice no hay que pelear hasta morir hay que pelear hasta vencer entonces no está muerto" otros lloraban demasiado como quien ha perdido a su padre y yo creo que él no es nuestro padre y con todo respeto creo que está mal llorarlo así soy de un país donde los enemigos no pudieron depositar un solo insulto una sola suciedad una sola pequeña porquería sobre él y hasta algunos lamentaron su muerte no por bondad o humanidad o piedad sino porque esos viejos perros o muertos con permiso sintieron por fin un enemigo que valía la pena que un rayo de peligro entraba en escena y entonces iban a poder morir en serio a manos o a balas de verdad "y no en brazos de esta especie de disolución en que nos vamos disolviendo" como dijo uno de grande apellido soy de un país donde sucedieron o suceden todas estas cosas y aún otras como traiciones y maldades en excesiva cantidad y el pueblo sufre y está ciego y naides lo defiende y sólo el Che se puso de pie para eso pero ahora el comandante Guevara entró a la muerte y allá andará según se dice soy de un país complicadísimo latinoeruocosmopoliurbano criollojudipolacogalleguisitanoira según dicen los textos y los textos que dicen pues dicen y como dicen así será la historia pero yo les aseguro que no es cierto de este país de fantasía se fue Guevara una mañana y otra mañana volvió y siempre ha de volver a este país aunque no sea más que para mirarnos un poco un gran poquito y ¿quién se habrá de aguantar? ¿quién habrá de aguantarle la mirada? pero ahora nomás el comandante Guevara entró a la muerte y allá andará según se dice pregunto yo ¿quién habrá de aguantarle la mirada? ¿ustedes momias del partido comunista argentino? ustedes lo dejaron caer ¿ustedes izquierdistas que sí que no? ustedes lo dejaron caer ¿ustedes dueños de la verdad revelada? ustedes lo dejaron caer ¿ustedes que miraron a China sin entender que mirar a China en realidad era mirar nuestro país? ustedes lo dejaron caer ¿ustedes pequeñitos teóricos del fuego por correo partidarios de la violencia por teléfono o del movimiento de masas metafísico? ustedes lo dejaron caer ¿ustedes sacerdotes del foquismo y más nada? ustedes lo dejaron caer ¿ustedes miembros del club de grandes culos sentados en "lo real"? ustedes lo dejaron caer ¿ustedes los que escupen sobre la vida sin advertir que en realidad están escupiendo contra el gran viento de la historia? ustedes lo dejaron caer ¿ustedes que no creen en la magia? ustedes lo dejaron caer soy de un país donde al comandante Guevara lo dejaron caer: los militares los curas los homeópatas los martilleros públicos los refugiados españoles masoquistas judíos los patrones y los obreros también por ahora "qué hombre qué hombrazo" sin embargo me dijo a mí un obrero pedro se llamaba se llama tiene mujer que no recibe hijitos por nacer y el pedro me decía "qué hombre qué hombrazo cómo lo quiero" decía el albañil pensando en su madre una puta famosa en toda Córdoba y madre de siete hijos que crió con amor Pedro ya con mayúscula ¡cómo saludo tu rencor cómo te beso al pie de tus fracasos! "qué pelotas" me dijo Pedro un día hablándome del Che de ciertos adminículos que hierven bajo la paz conjetural de este país cosmopolita el comandante Guevara entró a la muerte y allá andará según se dice yo estoy escribiendo esto porque la Casa de las Américas de Cuba institución muy respetable ha resuelto publicar un número especial de su revista dedicado a testimonios sobre el Che ahora que lo han muerto según dicen y Roberto Fernández Retamar íntimo mío pero más pedazo mío que anda por ahí por el Caribe formidable y fosforescente y amatorio y conspicuo Roberto como dije ha creído necesario que yo escriba algo sobre esto o tal vez algún otro creyó que así debía ser y pidió artículos poemas etcétera a colaboradores que se sentirán más miserables todavía si eso fuera posible si eso fuera posible en realidad soy de un país donde te hago caso Roberto pero decime o dime por favor ¿qué me pedís o pides? ¿qué escriba realmente? te doy noticias de mi corazón nada más ¿alguno sabe en realidad cuáles son las noticias de mi corazón? ¿alguno cree o creerá que me he negado a llorar excepto con mi mujer o contigo Roberto ahora que narro estas cuestiones y sé que la tristeza como un perro siempre siguió a los hombres molestándolos? soy de un país donde es necesario no amar sino matar a la melancolía y donde no hay que confundir el Che con la tristeza o como dijo Fierro hinchazón con gordura soy de un país donde yo mismo lo dejé caer y quién pagará esa cuenta quién pero lo serio es que en verdad el comandante Guevara entró a la muerte y allá andará según se dice bello con piedras bajo el brazo soy de un país donde ahora Guevara ha de sufrir otras muertes cada cual resolverá su muerte ahora: el que se alegró ya es polvo miserable el que lloró que reflexione el que olvidó que olvide o que recuerde y aquél que recordó sólo tiene derecho a recordar el comandante Guevara entró a la muerte por su cuenta pero ustedes ¿qué habrán de hacer con esa muerte? pequeños míos ¿qué? (como nadie se salva entre paréntesis quiero no por noción de estupideces posiblemente a mí referidas tampoco por piedad o mera precaución esas carnes podridas que no pueden rezar a mediodía quiero como repito repetir una historia que no todos conocen y de la cual hay algunos que desconfían: el poeta que escribe su poema dejando en él la maravilla de la vida y la muerte del comandante Guevara ese porteño cordobés de mirada jodida como de dios como de dioses sorprendidos en medio de su milagro su bota podrida por la selva del mundo quiero decir que este poema o cosa de la que hay que desconfiar en la que hay que creer no se termina en estas páginas amable lector le ruego que siga las noticias de los diarios de la sip y la sap -Sección Angustia Perimida por ejemplo o Son Ángeles Potentes o Sobran Algunos Policías- ruégole gran lector que lea atentamente líneas de sangre que se escriben cada día en Vietnam y también en Bolivia qué joder y también en la Argentina caro lector yo le ruego que lea) el comandante Guevara entró a la muerte y allá andará según se dice sé pocas cosas sé que no debo llorar Ernesto sé que de mí dependés ahora te puedo sepultar con grandes lágrimas pero en realidad no puedo el poeta en realidad se abstiene de llorar se abstiene de escribir un poema sea para la Casa de las Américas sea para lo que sea el poeta apenas si lloró en realidad sigue mirando el mundo sabe algún día la belleza vendrá pero no hoy que estás ausente el poeta apenas sabe vigilar che guevara ahora deseo un gran silencio que baje sobre mi corazón y lo abrigue padre Guevara ¿qué será de tus hijos? ¿por qué te fuiste hermoso sobre caballos de cantar? ¿quién habrá de juntarte otra vez? (C) JUAN GELMAN octubre de 1967

mercoledì 6 aprile 2016

Il calcio tra fascismo e Resistenza. La storia di Bruno Neri, da mediano a combattente antifascista. - Novecento.org

http://www.novecento.org/didattica-in-classe/il-calcio-tra-fascismo-e-resistenza-la-storia-di-bruno-neri-da-mediano-a-combattente-antifascista-1686/

Muore Arellano Stark



Il 9 marzo scorso, uno dei principali imputati del processo Condor, Arellano Stark, famoso per le “carovane della morte” è morto all'età di 94 anni. Condannato in Cile ad una pena simbolica di 6 anni di reclusione, al fine di restituire la giustizia e la verità alle vittime “nella misura del possibile”, non ha mai scontato la pena per motivi di salute: Stark era affetto da morbo di alzheimer. http://www.t13.cl/noticia/nacional/este-miercoles-murio-ex-militar-sergio-arellano-stark.


Processo Condor: le udienze di marzo


Nell'aula bunker del carcere di Rebibbia, il 17 marzo scorso è stata sentita la figlia di Horacio Campiglia, militante del movimento peronista dei Montoneros. Sequestrato dal battaglione 601 guidato da Roman in Brasile, Campiglia venne portato in Argentina e detenuto presso il Pozzo di Mayo. Secondo quanto si è appreso dalla deposizione della donna, ci sarebbero due ipotesi ricostruttive circa la sorte dell'attivista: in base alla prima, l'uomo sarebbe stato fucilato proprio presso lo stesso luogo di detenzione oppure, secondo un'altra versione, sarebbe stato gettato nel fiume Rio de la Plata. Dal Canada in videoconferenza, hanno reso la loro testimonianza anche Edoardo Corro e sua moglie Adriana Chamorro, entrambi detenuti nello stesso luogo di Horacio Campiglia e, il 18 marzo, è stata poi chiamata a testimoniare anche Erlinda Maria Vàsquez Santos, sequestrata nell'aprile del 1978 e detenuta per quaranta giorni nello stesso luogo di prigionia in cui vennero trattenuti illegalmente anche Guillermo Sobrino e Aida Sanz. Le udienze riprenderanno il prossimo 15 aprile con le deposizioni di Jair Krischke e Luis Taub in relazione alla scomparsa di Lorenzo Vinas, altro militante dei montoneros

venerdì 11 marzo 2016

Marzo

Marzo

S'estende la luce e, con essa, il tempo.

lunedì 7 marzo 2016

Nuove dal Condor


Nuove dal Condor. Altri quattro brasiliani tra gli imputati del Condor.

Le ultime udienze dibattimentali del processo Condor sono state dedicate ad Omar Venturelli,desaparecidos, ex prete e militante dei Mir, uno dei gruppi di estrema sinistra di unità proletaria, scomparso subito dopo il golpe di Pinochet. Ci sono state, in particolare, le testimonianze di Mireya Garcia, Jorge Barudy e Pablo Berchenko, importanti per ricostruire le sorti del Professor Venturelli, probabilmente eliminato a Maquehue, la base aerea nei pressi di Temuco, secondo quanto emerge dalla preziosissima deposizione di medico Barudy, l'ultimo ad aver visto Venturelli vivo nella nottetra il 3 e il 4 ottobre del 1973.
Per quanto riguarda le evoluzioni processuali, sono stati rinviati a giudizio altre quattro persone di nazionalità brasiliana, responsabili, secondo l'accusa, di aver collaborato per la realizzazione del Plan Condor e colpevoli della scomparsa di altri connazionali.
Per ulteriori informazioni, www.24marzo.it. Le udienze riprenderanno il 17 marzo.

Alla fondazione Basso l'incontro con i rappresentanti del liceo e i testimoni delle ultime udienze del Processo Condor.

“La memoria è l'anima”. Così uno dei rappresentanti degli studenti del Liceo "Leonardo da Vinci" di Fiumicino, ricorda il valore della memoria, parafrasando un pensiero di Umberto Eco, per ringraziare i testimoni del processo Condor venuti in Italia per il caso Venturelli, l'ex prete e militante dei Mir.
Ci sono anche Maria Maz Venturelli, Mireya Garcia e gli altri testimoni ad accogliere gli studenti che grazie alla Professoressa Nanni hanno approfondito questa pagina di storia che si fa fatica a studiare in tutti i licei d'Italia. Maria Paz Venturelli è la figlia di Omar Venturelli e ha già testimoniato al processo Condor nell'aprile 2015, mentre gli altri testimoni hanno raccontato la loro versione sul caso della scomparsa dell'attivista nelle udienze del 25 e 26 febbraio.
Venturelli è uno dei tanti desaparecidos. Prete a difesa dei mapuches nell'occupazione delle terre regalate ai coloni, viene sospeso a divinis e, diventato professore all'università cattolica, si sposa conFresia Cea Villalobos. Nel '71 nasce la loro figlia Maria Paz, Pacita, come la chiamava suo padre, che oggi vive a Bologna e rappresenta una delle tante testimonianze del Plan Condor.
Omar Venturelli viene fatto prigioniero durante il golpe cileno del 1973: il suo corpo non è mai stato ritrovato. L'ultimo a vedere il Professor Venturelli è proprio il medico Barudy che ha reso una importante testimonianza. In base a quanto aveva ascoltato da un prigioniero che aveva sentito il Professore lamentarsi e piangere per la sua imminente fine in un volo della morte, Venturelli sarebbe sparito nel campo aereo di Maquehue, per essere poi gettato in mare da uno degli elicotteri di Arellano Starck.
All'incontro alla fondazione Basso c'è anche il Professor Pablo Berchenko dell'Università d'Aix en provence, la cui deposizione è stata importante per ricostruire la questione dei bandi militari con i quali il governatore Ramirez, tra gli imputati del processo, aveva individuato i suoi nemici politici. “La giustizia cilena ha rinunciato alla sua funzione per molti anni. Per me è una grande soddisfazione sapere che si realizza qui una vera giustizia, quella di poter dire davanti ad una Corte quello che non abbiamo potuto dire per molti anni e perché la memoria di Omar Venturelli non si perda”.
C'è anche Mireya Garcia dirigente dell'associazione dei famigliari dei desaparecidos stranieri che non trattiene la commozione nel sapere quei giovani così commossi e desiderosi di conoscere il passato e di portare avanti la ricerca della verità.
“Voglio ringraziare quei ragazzi: sono uno spettacolo. Emozionarsi è una espressone di umanità. La lotta per la memoria è una lotta per il futuro. Quello che ha fatto la dittatura non si può superare perciò si può trasformare e vale la pena di stare qui con voi a sentire questi ragazzi”.
Maria Paz Venturelli supera l'emozione e spiega che questo processo è soprattutto un atto egoistico: “è vero che la giustizia non ha frontiere né tempo ma è anche vero che siamo qui per cittadini italiani: guardatemi, sono italiana. Le vittime del processo Condor sono tutte italiane. Anche Giulio Regeni era italiano. Non dimenticatelo mai. E pensate adesso agli immigrati: sono loro i desaparecidos di oggi. Quando sono arrivata in Italia avevo due anni e l'Italia mi ha accolto. Fino al 1989 non sono potuta tornare in Cile. C'è anche Patrizia Sacco di Amnesty che ringrazia i ragazzi del Liceo ed è molto felice che si sia parlato anche del caso Regeni: “arrivo dal presidio che abbiamo organizzato oggi per la verità e giustizia per Giulio”.
L'incontro si chiude con una riflessione del professor Berchenko, a proposito della memoria: “non esiste una memoria ma tante memorie. Anche i militari hanno avuto la loro memoria con la quale si è prodotto uno scontro con la memoria dei sopravvissuti, la memoria non legittimata, vietata. Lo è stata per molto tempo”.

mercoledì 24 febbraio 2016

El Dios pigro - il piede sinistro che passa una volta ogni trent'anni

Al genio, compreso e incompreso, di el chino Recoba. Un bellissimo pezzo di uno dei più forti giocatori al mondo che ha fatto sognare interisti e non - appunto.

Dal blog "zona Cesarini"

http://zonacesarini.net/2015/02/04/recoba-el-dios-pigro/



giovedì 18 febbraio 2016

Auguri Faber

"Il cuore rallenta la testa cammina 
in quel pozzo di piscio e cemento
a quel campo strappato dal vento
a forza di essere vento

porto il nome di tutti i battesimi
ogni nome il sigillo di un lasciapassare
per un guado una terra una nuvola un canto
un diamante nascosto nel pane

per un solo dolcissimo umore del sangue
per la stessa ragione del viaggio viaggiare
Il cuore rallenta e la testa cammina
in un buio di giostre in disuso

qualche rom si è fermato italiano
come un rame a imbrunire su un muro
saper leggere il libro del mondo
con parole cangianti e nessuna scrittura

nei sentieri costretti in un palmo di mano
i segreti che fanno paura
finché un uomo ti incontra e non si riconosce
e ogni terra si accende e si arrende la pace

i figli cadevano dal calendario
Yugoslavia Polonia Ungheria
i soldati prendevano tutti
e tutti buttavano via

e poi Mirka a San Giorgio di maggio
tra le fiamme dei fiori a ridere a bere
e un sollievo di lacrime a invadere gli occhi
e dagli occhi cadere

ora alzatevi spose bambine
che è venuto il tempo di andare
con le vene celesti dei polsi
anche oggi si va a caritare

e se questo vuol dire rubare
questo filo di pane tra miseria e sfortuna
allo specchio di questa kampina
ai miei occhi limpidi come un addio

lo può dire soltanto chi sa di raccogliere in bocca
il punto di vista di Dio

Cvava sero po tute
i kerava
jek sano ot mori
i taha jek jak kon kasta

Poserò la testa sulla tua spalla
e farò
un sogno di mare
e domani un fuoco di legna

vasu ti baro nebo
avi ker
kon ovla so mutavia
kon ovla

perché l'aria azzurra
diventi casa
chi sarà a raccontare
chi sarà

ovla kon ascovi
me gava palan ladi
me gava
palan bura ot croiuti

sarà chi rimane
io seguirò questo migrare
seguirò
questa corrente di ali

venerdì 5 febbraio 2016

Carotenuto e Montiglio testimoni al processo Condor

Sono di Gennaro Carotenuto e Alejandro Montiglio le prime deposizioni del processo Condor in questo nuovo anno. Si tratta del figlio del caposcorta dei Gap di Salvator Allende e dello storico Carotenuto, esperto di America Latina e autore di Todo Cambia, il racconto del dramma della desaparicion con le testimonianze di decine di figli di scomparsi. Dopo l'udienza nell'aula bunker in cui hanno prestato testimonianza sotto giuramento, i due si sono intrattenuti, intervistati dalla giornalista Nadia Angelucci, presso la Fondazione Basso a Roma.
Alejandro Montiglio ha espresso la sua gioia per l'andamento del processo e ha voluto ricordare tutti i suoi compagni socialisti caduti per la lotta contro la dittatura: “uomini onesti e liberi non avrebbero potuto fare altrimenti”. Carotenuto ha raccontato delle leggi di autoamnistia che negli anni si sono succedute per evitare che i responsabili potessero pagare per i loro comportamenti criminali ma anche di una “giustizia nella misura del possibile”, espressione del primo presidente della Corte Costituzionale cilena, rispetto alle condanne emesse contro alcuni responsabili come Arellano Stark, condannato a sei anni di reclusione. Una condanna irrisoria ma pur sempre una condanna e cioè un'eccezione che ha superato le leggi di amnistia, la regola. La lunga deposizione di Carotenuto ha toccato tantissimi temi e soprattutto il dramma della sparizione: non si è trattato di un semplice crimine contro la persona - ha spiegato Carotenuto citando anche la studiosa Gabriella Citroni - ma di un crimine permanente contro l'umanità. Il processo riprenderà il 25 febbraio e, probabilmente, la situazione cilena avrà un'accelerata: come fanno sapere gli avvocati di parte civile, verrà chiesta la separazione dal processo degli imputati cileni per arrivare prima e separatamente a sentenza.