Quando non c’erano i navigatori satellitari, ci si poteva perdere. E ora c’hanno tolto anche questo. Parte da questa intuizione, il secondo album di Galoni, cantautore laziale che torna con “Troppo bassi per i podi” a due anni da Greenwich, l’album di formazione, il fratello maggiore di un disco che esprime, sin dal titolo, la rinuncia a stare sul podio, a confrontarsi con le classifiche, nell’amara consapevolezza di “vite omologate a non avere casa”.
La voce è inconfondibile, quella
ambrata di una rossa alla spina, cambiano le musicalità, rafforzate dalla
dolcezza di un violino, con ukulele, chitarra e percussioni al solito posto.
Spicca Galoni che, con l’amico e
direttore artistico Emanuele Colandrea, ricrea
serate da bar di periferia, quando ti fermi ad ascoltare, per caso, qualcuno di
cui avevi sentito parlare, e tra il fumo di fumatori anarchici noncuranti della
legge Sirchia, intravedi l’artista con una chitarra, i suoi musicisti e tanto
cuore: un altro tempo.
“C’ho messo tempo”, è la classica
ballata folk, semplice e immediata che si affianca a “primavere arabe” per il
suo mai sopito interesse per i sud del mondo. Con “tu dì loro che sto bene”,
assapori l’aria da tempo perduto, quello della malinconia da desiderio e in
“carta da parati” ascolti uno dei pezzi più intensi dell’album. L’attacco di
“ballata sulla gru” ricorda l’inizio di un’indimenticabile canzone del grande
Neil Young con uno straordinario assolo del violino che fa vibrare l’interno
pezzo; “ho perso palla a centrocampo”, con le immancabili metafore calcistiche,
per chi del calcio ne ha sempre fatto una questione poetica.
E poi c’è che dopo aver scritto queste
righe, al di là del condimento con aggettivi che il più possibile rendano
l’idea di album che dovete ascoltare per capire, per me torna un amico con il suo nuovo
album. Sì, perché anche se io, Emanuele, l’ho visto solo due o tre volte nella
vita l’ho subito sentito amico, come qualcuno con cui avrei potuto condividere
il pane. Sarà stato quel concerto di Bob Dylan visto insieme. Non so. Ma forse
ha a che fare con le sue storie: hanno il sapore di appunti, resoconti, di
schizzi a matita, in bianco e nero – “da mercatino dell’usato”, come qualcuno
ha scritto in questi giorni – spunti che mi impongono di restare anche quanto è
troppo tardi. Quando penso a Galoni, penso a qualcuno che prende una sedia e te
lo ritrovi seduto a cantare con una chitarra d’accompagnamento.
E m’immagino di nuovo in quel bar
in cui sono entrata per caso, in una serata infrasettimanale e m’immagino d’andare
via perché troppo tardi, “perché domani si lavora” ma sento un’altra nota e
m’impongono di restare. Domani si lavora, sì, ma oggi si fanno le 4 ad
ascoltare musica.
Sono quelle serate che non
dimenticheremo ma che non appaiono sulle nostre facce quando consegniamo i
curriculum, quando andiamo a lavorare per poche lire al mese, quando stiamo
sulla metropolitana ad aspettare la nostra fermata. Come “la parte degli
angeli”, è tutto ciò che c’è stato ma che evapora, non rimane in superficie, ma
che serve a fare la qualità di un buon whisky.
E prima che se ne vada in giro
per l’Europa a far live, ascoltatelo a Roma il 5 aprile.
Una piccola grande bellezza,
tanto per rimanere popolari.
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