A pochi giornalisti succede di entrare, con un'espressione coniata da loro, nel parlare e nel sentire comune. E' accaduto a Franco Giustolisi, firma storica dell'Espresso, scomparso nelle ultime ore, con 'l'armadio della vergogna'.
Oggi, chiunque conosca la storia recente del nostro Paese o si interessi al nostro Novecento sa che queste parole si riferiscono a un mobile, rinvenuto nel 1994 in un locale di palazzo Cesi-Gaddi (sede di vari organi giudiziari militari) in via degli Acquasparta a Roma.
Conteneva 695 fascicoli d'inchiesta e un Registro generale riportante 2274 notizie di reato, relative a crimini di guerra commessi sul territorio italiano durante l'occupazione nazifascista. In quell'armadio vi erano, tra gli altri, i fascicoli relativi alla strage di Sant'Anna di Stazzema, in Toscana, all'eccidio di Marzabotto, alle Fosse Ardeatine.
Quel mobile girato faccia al muro, scoperto dal procuratore Antonio Intelisano, grazie a Giustolisi che fu il primo della stampa a parlare del caso (e ci scrisse in seguito un libro, intitolato proprio L'armadio della vergogna, ed Nutrimenti) diventò il simbolo stesso della necessità di indagare sui crimini mai puniti della Seconda Guerra Mondiale.
Cronista fin dagli anni Cinquanta per Paese Sera e Italia Domani, poi inviato speciale per la Rai e in seguito per L'Espresso, dopo quella scoperta Giustolisi non smise mai di indagare e portare alla luce con i suoi articoli i lati oscuri delle indagini e le lacune della giustizia sulle stragi nazifasciste.
http://espresso.repubblica.it/attualita/2014/11/10/news/scompare-franco-giustolisi-scopri-l-armadio-della-vergogna-sulle-stragi-nazifasciste-1.187263
martedì 29 settembre 2015
La nostra tribù, mai una corrente. Il ricordo di Luciana Castellina su il manifesto
Quando chi viene a mancare ha più di cent’anni all’evento si è preparati, e dunque il dolore dovrebbe essere minore. E invece non è così, perché proprio la loro lunga vita ci ha finito per abituare all’idea irreale che si tratti di esseri umani dotati di eternità. Pietro Ingrao, per di più, è stato così larga parte della vita di tantissimi di noi che è difficile persino pensare alla sua morte senza pensare alla propria. (E sono certa non solo per quelli di noi già quasi altrettanto vecchi).
Così, quando domenica mi ha raggiunto la telefonata di Chiara e io ero a sedere al sole in un caffè delle Ramblas a Barcellona dove, essendo di passaggio per la Spagna, mi ero fermata per aspettare i risultati elettorali della Catalogna, il suo tristissimo annuncio è stato quasi una fucilata. Perché prima di ogni altra cosa è stato come mi venisse asportato un pezzo del mio stesso corpo.
Così, io credo, è stato per tutta la larghissima tribù chiamata «gli ingraiani», qualcosa che non è stata mai una corrente nel senso stretto della parola perché la nostra introiettata ortodossia non ci avrebbe neppure consentito di immaginare tale la nostra rete.
E però siamo stati forse di più: un modo di intendere la politica, e dunque la vita, al di là della specificità delle analisi e dei programmi che sostenevamo. Sicché sin dall’inizio degli anni ’60 e fino ad oggi, gli ingraiani sono in qualche modo distinguibili, sebbene le loro scelte individuali siano andate col tempo divergendo, dentro e fuori del Manifesto; e poi dentro e fuori le successive labili reincarnazioni del Pci. Oggi poi — dentro una sinistra che fatica a riconoscere i propri stessi connotati e nessuno si sente a casa propria dove sta perché vorrebbe la sua stessa casa diversa da come è –questo tratto storico dell’ingraismo direi che pesa in ciascuno anche di più.
Vorrei che non si perdesse, perché al di là delle scelte diverse cui ha condotto ciascuno di noi, è un patrimonio prezioso e utile anche oggi.
Di quale sia stato il nucleo forte del pensiero di Pietro Ingrao, ho già parlato, io e altri, tante volte, e ancora nell’inserto che il manifesto ha dedicato ai suoi cent’anni, riproposto on line proprio ieri. Vorrei che quelle sue analisi e linee programmatiche che purtroppo il Pci non fece proprie, non venisse annegato, come è accaduto per Enrico Berlinguer, nella retorica riduttiva e stravolgente dell’ “era tanto buono, bravo onesto, ci dà coraggio e passione”.
Oggi, comunque, di Pietro vorrei affidare alla memoria soprattutto due cose, che poi sono in realtà una sola: l’ascolto degli altri e l’idea della politica come, innanzitutto, partecipazione e perciò soggettività delle masse.
Quando incontrava qualcuno, o anche nelle riunioni e persino nel dialogo con un compagno ai margini di un comizio, era sempre lui che per primo chiedeva: “ma tu cosa pensi?” ;“come giudichi quel fatto?”; “cosa proporresti?”. Non era un vezzo, voleva proprio saperlo e poi stava a sentire. Perché il suo modo di essere dirigente stava nel cercare di interpretare il sentire dei compagni. Anche di portare le loro idee a un più alto livello di analisi e proposta, certamente, ma sempre a partire da loro, per arrivare, assieme a loro, e non da solo, a una conclusione, a una scelta.
Per questo quel che per lui contava, quello che a suo parere qualificava la democrazia e la qualità di un partito, era la partecipazione, la capacità di stimolare il protagonismo, la soggettività delle masse. Senza di cui non poteva esserci né teoria né prassi significativa.
Non voglio esplicitare paragoni con l’oggi, sarebbe impietoso.
Rossana, rispondendo ad un’intervista di La Repubblica, ieri ha detto di Pietro, anche della sua reticenza nell’assumere posizioni più nette, come fu al momento in cui noi, pur “ingraiani doc”, operammo la rottura della pubblicazione della rivista Il manifesto. E poi ricorda anche Arco di Trento, quando quel 30 per cento del Pci che rifiutava lo scioglimento del partito proposto dalla maggioranza occhettiana, pur riconoscendosi nella relazione che a nome di tutti aveva fatto Lucio Magri, si divise sulle scelte da compiere: fra chi decise di uscire e dette vita a Rifondazione, e chi — come Pietro — decise invece che sarebbe comunque restato nell’organizzazione, il Pds, che, già malaticcio, veniva alla luce. “Per stare nel gorgo”, come disse con una frase che è rimasta scolpita nella testa di tutti noi. Certo, è vero: se Pietro si fosse unito alla costruzione di un nuovo soggetto politico sarebbe stato diverso, molto diverso. La rifondazione comunista più ricca e davvero rifondativa, per via del suo personale apporto ma anche di quella larga area di quadri ingraiani che costituiva ancora un pezzo vivo del Pci e sarebbero stati preziosi alla nuova impresa; e invece restarono invischiati e di malavoglia nel lento deperire degli organismi che seguirono: il Pds, poi i Ds, infine, ma ormai solo alcuni, nel Pd.
Pietro però capì subito che stare in quel contesto non era più “stare nel gorgo”, perché il gorgo, sebbene assai indebolito, scorreva ormai altrove. E infatti ruppe poco dopo e si impegnò nei movimenti che generazioni più giovani avevano avviato. E da questi fu ascoltato.
La storia come sappiamo non si fa con i se. Ma riflettere su quel passaggio storico, per ragionare sugli errori compiuti, da chi e perché e quali, sarebbe forse utile a chi, come tutti noi, sta cercando di costruire un nuovo soggetto politico.
Per farlo nascere bene mi sembra comunque essenziale portarsi dietro l’insegnamento fondamentale di Pietro, che non è inficiato dal non avere, qualche volta, tentato abbastanza : che non c’è partito che valga la pena di fare se non si attrezza, da subito, a diventare una forza in grado di sollecitare la soggettività popolare, perché questa è più preziosa di ogni ortodossia.
Ma vorrei che di Pietro ci portassimo dietro anche l’ottimismo della volontà.
Era lui che amava citare la famosa parabola di Brecht sul sarto di Ulm (da cui Lucio Magri trasse poi il titolo del suo libro sul comunismo italiano). Come ricorderete, il sarto insisteva che l’uomo avrebbe potuto volare, finché, stufo, il vescovo principe di Ulm gli disse “prova” e questi si gettò dal campanile con le fragili ali che si era costruito. E naturalmente si sfracellò. Brecht però si chiede: chi aveva ragione, il sarto o il vescovo? Perché alla fine l’uomo ha volato. E’ la parabola del comunismo: fino ad ora chi ha provato a realizzarlo su terra si è sfracellato, ma alla fine, come è accaduto con l’aviazione, ci riusciremo.
E’ questo l’impegno che nel momento della scomparsa del nostro prezioso compagno Pietro Ingrao vorrei prendessimo: di provarci.
lunedì 28 settembre 2015
FILIPPO DI BENEDETTO, LO SCHINDLER CALABRESE IN ARGENTINA - http://www.yescalabria.com/filippo-di-benedetto-lo-schindler-calabrese-in-argentina/
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Quanti in Calabria hanno sentito parlare di Filippo di Benedetto? E di Oskar Schindler? Di quest’ultimo sicuramente in tanti, anche grazie alla fortunata pellicola di Steven Spielberg, Schindler’s list, che qualche anno fa ha spopolato nei cinema di tutto il mondo. Del primo presumibilmente in pochi, ancorché la sua storia sia molto simile a quella dell’imprenditore tedesco. Non perché Filippo di Benedetto fosse stato un noto imprenditore, ma perché in Argentina, negli anni della dittatura, salvò dalla morte sicura centinaia di nostri connazionali.
Filippo Di Benedetto, nativo di Saracena in provincia di Cosenza, dove negli anni tra il 1947 e il 1949 era stato anche sindaco del PCI, nei primi anni cinquanta era emigrato in Argentina, a Buenos Aires. Come tanti dirigenti politici di periferia anch’egli era un artigiano, un falegname. Ma la sorte aveva riservato per lui un futuro ben più impegnativo. Nel paese sudamericano, oltre a distinguersi per le sue qualità di ebanista, continuò a coltivare la sua passione più grande, la politica, diventando ben presto il referente ufficiale del Partito Comunista Italiano in quelle lontane terre. Ma fu nel sindacato che profuse il suo impegno maggiore, come responsabile dell’ Inca-Cgil, il patronato del maggiore sindacato italiano, e poi come presidente della Filef, la Federazione Lavoratori Emigranti e Famiglie.
Quando nel 1976 i militari prendono il potere, Filippo di Benedetto è ormai una figura di primo piano tra gli emigrati italiani nel paese dei gauchos, un punto di riferimento politico e sindacale importantissimo per migliaia di connazionali, che a lui ed alla sua organizzazione si rivolgono per qualsiasi cosa, dalla pratica per la pensione italiana fino a casi più complessi afferenti la tutela di particolari diritti.
Ben presto la giunta golpista inizia a mostrare la sua ferocia e sono tanti anche gli italiani che incominciano a finire nelle maglie della repressione. Di questa tragedia le istituzioni italiane vengono puntualmente informate. Solo dal 1976 al 1978 furono presentate più di 1600 denunce all’ambasciata italiana di Buenos Aires, riguardanti persone scomparse con passaporto italiano. Eppure a Roma non si mosse nulla. Perché? Sono state avanzate molte ipotesi al riguardo, tra cui una appare la più plausibile: i militari golpisti erano in gran parte iscritti alla Loggia P2 di Licio Gelli. Poi c’erano gli interessi delle maggiori imprese italiane, alle quali andavano bene rapporti cordiali col nuovo regime. A non far scattare un moto di sdegno immediato nel governo e nei partiti italiani contribuirono anche le modalità scelte dai militari per far fuori gli oppositori: essi venivano sequestrati di notte, portati in centri clandestini e lì torturati fino alla morte. Caricati su aerei, i loro corpi venivano poi buttati nel mare. È la storia di decine di migliaia di desaparecidos, che ormai tutti conosciamo.
In questo clima di silenzi, di omertà, di connivenze e complicità, non tutti però girarono la testa dall’altra parte. Tra questi, tra i giusti che ebbero il coraggio di sfidare uno dei regimi più violenti della storia, ci fu Filippo di Benedetto. Qualcuno, tempo fa, ha scritto: “Filippo Di Benedetto, l’emigrato comunista e l’eroico responsabile a Buenos Aires dell’Inca-Ggil che avrebbe dovuto occuparsi delle pensioni degli emigrati italiani e che invece ruppe gli schemi e si occupò di dar rifugio ai braccati, di preparare passaporti falsi, di fornire i biglietti aerei, di accompagnarli all’aeroporto. La storia non dice quanti furono coloro che si salvarono grazie a loro. Forse un centinaio, forse diverse centinaia” . Iniziamo da qui, da “loro”. Loro chi? Qui ci si riferisce a tre persone, tre italiani che, collaborando tra loro, nell’Argentina di quegli anni salvarono la vita a centinaia di nostri connazionali: Enrico Calamai, viceconsole italiano a Buenos Aires, Gian Giacomo Foà, giornalista del Corriere della Sera e, appunto, Filippo di Benedetto.
In un suo recente libro che ripercorre gli avvenimenti di quegli anni Calamai ricorda che già dopo qualche settimana dal colpo di stato incominciarono a presentarsi alla sede del consolato i familiari delle persone scomparse. In un primo momento il viceconsole tenta un’interlocuzione con le istituzioni, ma ben presto si accorge che sulla vicenda delle sparizioni il regime ha eretto un vero e proprio muro. Capisce allora che l’unica via per impedire che altri italiani finiscano nel nulla è quella di favorire la fuga di quante più persone possibili, tra attivisti politici e sospettati di resistenza al regime. Sono davvero tanti gli argentini di origine italiana che cercano aiuto nel consolato nei primi anni della dittatura: vogliono espatriare, ma non hanno soldi, non hanno mezzi e, prima di ogni altra cosa, non hanno i documenti necessari. Quando il console generale decide, per paura, che quel flusso di persone verso il consolato debba essere in qualche modo bloccato, Calamai non ci sta ed inizia a fare cose che solo una persona dotata di una sterminata sensibilità umana può fare: i richiedenti asilo se li nasconde a casa sua, nelle stanze sotterranee del consolato, dove può, e ad alcuni riesce anche a procurare delle autorizzazioni per farli andare via, in Italia, in altri paesi del Sudamerica.
Tutto ciò non sarebbe stato tuttavia possibile, se il giovane diplomatico non avesse agito sinergicamente con Filippo di Benedetto, come egli stesso ha più tardi riconosciuto. Di Benedetto, già attivo sul fronte della difesa dei diritti umani negli anni sessanta e nei primi anni settanta, sotto le precedenti dittature militari che si susseguirono alla caduta di Peron, si rivelerà un elemento preziosissimo nell’impresa di salvare vite umane dalle mani assassine della giunta golpista guidata da Jorge Rafael Videla. I suoi legami con l’Italia, col Pci, i suoi rapporti permanenti con Giuliano Pajetta, fratello di Giancarlo e responsabile della sezione emigrazione del Partito, la sua conoscenza della comunità italiana, saranno decisivi per la fuga e la salvezza di tanti connazionali minacciati dalla dittatura, ma anche per far arrivare in Italia notizie aggiornate sul clima che regnava in quegli anni in Argentina, sulla durezza della repressione messa in atto dai militari. “C’era il tentativo di lavarsi le mani, di respingere chi chiedeva aiuto. Mi sono trovato piuttosto isolato nel tentativo di dare vita ad un’organizzazione che garantisse al massimo la sicurezza di chi arrivava in consolato. Allora ho avuto aiuto da un sindacalista della CGIL, Filippo di Benedetto. La prima cosa di cui sentii il bisogno era rompere il silenzio stampa, ma i telefoni erano controllati. Filippo pensava così di far arrivare l’informazione in Italia, attraverso suoi amici che lavoravano alle poste, mandando telegrammi, in modo più o meno cifrato”.
Per il suo attivismo a favore dei diritti umani, per aver sfidato la dittatura, Filippo di Benedetto pagò prezzi altissimi. Lui e la sua famiglia. Ho conosciuto personalmente sia lui che alcuni suoi famigliari che in quegli anni sono caduti nelle maglie della repressione e sono rimasto agghiacciato dalle storie che mi hanno raccontato. Molto mi ha colpito la storia di sua nipote, Domenica di Benedetto, figlia di suo fratello Orlando, torturata barbaramente, e di suo marito, Edoardo Czainik, ebreo comunista originario dell’est europa, che non riuscirà a scampare al sequestro e finirà, insieme ad altri trentamila, sulla fredda lista dei desaparecidos. Filippo, che tanti italiani aveva salvato dalla morte, non riuscì a salvare il compagno di un’italiana a lui molto cara, sua nipote. Destino beffardo.
La sua straordinaria umanità è riassunta in queste parole che qualche anno addietro pronunciò nel corso di un’intervista che concesse alla televisione italiana: “Studiavamo sempre un modo nuovo di essere utili agli altri. Non facevamo come quelli che quando gli andavi a parlare di certe cose pensavano subito che gli avresti creato rogne.”
Quando nel 2001 morirà, Gianni Giadresco, partigiano e scrittore romagnolo, di lui dirà: “Chissà se la sua terra d’origine, la Calabria, che lo ha avuto “consultore”, vorrà dedicare un ricordo a questo suo figlio che le ha fatto onore nel mondo, anche se non è diventato uno dei notabili vincenti all’estero. Filippo di Benedetto la sua onestà l’ha dimostrata, vivendo l’umile vita dell’emigrante, rimanendo quello che è sempre stato: povero e onesto.”
[1]Giovanni Villari, Lo strappo del console onorario, Il Manifesto, 04.11.2003.
[2]Enrico Calamai, Niente asilo politico, Diplomazia, diritti umani e desaparecidos, Feltrinelli, 2006.
[3]La storia siamo noi, Enrico Calamai, un eroe scomodo, Mediateca RAI.
[4]Gianni Giadresco, Grave lutto per la Filef la morte di Filippo di Benedetto, Emigrazione notizie, 13.09.2001.
[2]Enrico Calamai, Niente asilo politico, Diplomazia, diritti umani e desaparecidos, Feltrinelli, 2006.
[3]La storia siamo noi, Enrico Calamai, un eroe scomodo, Mediateca RAI.
[4]Gianni Giadresco, Grave lutto per la Filef la morte di Filippo di Benedetto, Emigrazione notizie, 13.09.2001.
[5]Filippo Di Benedetto, in “La crisi infinita. Problemi e contraddizioni del mondo attuale” di Innocenzo Alfano, Aracne 2009.
domenica 27 settembre 2015
Un giovane manifestante saudita condannato a morte e crocifissione
http://www.ossin.org/arabia-saudita/1829-un-giovane-manifestante-saudita-condannato-a-morte-e-crocifissione
sabato 26 settembre 2015
Silencio
http://video.repubblica.it/spettacoli-e-cultura/silencio--5-giornalisti-in-messico-corrispondenti-di-guerra-a-casa-loro/212356/211525?ref=HREC1-25
Il pianto della scavatrice
I Solo l'amare, solo il conoscere conta, non l'aver amato, non l'aver conosciuto. Dà angoscia il vivere di un consumato amore. L'anima non cresce più. Ecco nel calore incantato della notte che piena quaggiù tra le curve del fiume e le sopite visioni della città sparsa di luci, scheggia ancora di mille vite, disamore, mistero, e miseria dei sensi, mi rendono nemiche le forme del mondo, che fino a ieri erano la mia ragione d'esistere. Annoiato, stanco, rincaso, per neri piazzali di mercati, tristi strade intorno al porto fluviale, tra le baracche e i magazzini misti agli ultimi prati. Lì mortale è il silenzio: ma giù, a viale Marconi, alla stazione di Trastevere, appare ancora dolce la sera. Ai loro rioni, alle loro borgate, tornano su motori leggeri - in tuta o coi calzoni di lavoro, ma spinti da un festivo ardore i giovani, coi compagni sui sellini, ridenti, sporchi. Gli ultimi avventori chiacchierano in piedi con voci alte nella notte, qua e là, ai tavolini dei locali ancora lucenti e semivuoti. Stupenda e misera città, che m'hai insegnato ciò che allegri e feroci gli uomini imparano bambini, le piccole cose in cui la grandezza della vita in pace si scopre, come andare duri e pronti nella ressa delle strade, rivolgersi a un altro uomo senza tremare, non vergognarsi di guardare il denaro contato con pigre dita dal fattorino che suda contro le facciate in corsa in un colore eterno d'estate; a difendermi, a offendere, ad avere il mondo davanti agli occhi e non soltanto in cuore, a capire che pochi conoscono le passioni in cui io sono vissuto: che non mi sono fraterni, eppure sono fratelli proprio nell'avere passioni di uomini che allegri, inconsci, interi vivono di esperienze ignote a me. Stupenda e misera città che mi hai fatto fare esperienza di quella vita ignota: fino a farmi scoprire ciò che, in ognun, era il mondo. Una luna morente nel silenzio, che di lei vive, sbianca tra violenti ardori, che miseramente sulla terra muta di vita, coi bei viali, le vecchie viuzze, senza dar luce abbagliano e, in tutto il mondo, le riflette lassù, un po' di calda nuvolaglia. È la notte più bella dell'estate. Trastevere, in un odore di paglia di vecchie stalle, di svuotate osterie, non dorme ancora. Gli angoli bui, le pareti placide risuonano d'incantati rumori. Uomini e ragazzi se ne tornano a casa - sotto festoni di luci ormai sole - verso i loro vicoli, che intasano buio e immondizia, con quel passo blando da cui più l'anima era invasa quando veramente amavo, quando veramente volevo capire. E, come allora, scompaiono cantando. II Povero come un gatto del Colosseo, vivevo in una borgata tutta calce e polverone, lontano dalla città e dalla campagna, stretto ogni giorno in un autobus rantolante: e ogni andata, ogni ritorno era un calvario di sudore e di ansie. Lunghe camminate in una calda caligine, lunghi crepuscoli davanti alle carte ammucchiate sul tavolo, tra strade di fango, muriccioli, casette bagnate di calce e senza infissi, con tende per porte... Passano l'olivaio, lo straccivendolo, venendo da qualche altra borgata, con l'impolverata merce che pareva frutto di furto, e una faccia crudele di giovani invecchiati tra i vizi di chi ha una madre dura e affamata. Rinnovato dal mondo nuovo, libero - una vampa, un fiato che non so dire, alla realtà che umile e sporca, confusa e immensa, brulicava nella meridionale periferia, dava un senso di serena pietà. Un'anima in me, che non era solo mia, una piccola anima in quel mondo sconfinato, cresceva, nutrita dall'allegria di chi amava, anche se non riamato. E tutto si illuminava, a questo amore. Forse ancora di ragazzo, eroicamente, e però maturato dall'esperienza che nasceva ai piedi della storia. Ero al centro del mondo, in quel mondo di borgate tristi, beduine, di gialle praterie sfregate da un vento sempre senza pace, venisse dal caldo mare di Fiumicino, o dall'agro, dove si perdeva la città fra i tuguri; in quel mondo che poteva soltanto dominare, quadrato spettro giallognolo nella giallognola foschia, bucato da mille file uguali di finestre sbarrate, il Penitenziario tra vecchi campi e sopiti casali. Le cartacce e la polvere che cieco il venticello trascinava qua e là, le povere voci senza eco di donnette venute dai monti Sabini, dall'Adriatico, e qua accampate, ormai con torme di deperiti e duri ragazzini stridenti nelle canottiere a pezzi, nei grigi, bruciati calzoncini, i soli africani, le piogge agitate che rendevano torrenti di fango le strade, gli autobus ai capolinea affondati nel loro angolo tra un'ultima striscia d'erba bianca e qualche acido, ardente immondezzaio... era il centro del mondo, com'era al centro della storia il mio amore per esso: e in questa maturità che per essere nascente era ancora amore, tutto era per divenire chiaro - era, chiaro! Quel borgo nudo al vento, non romano, non meridionale, non operaio, era la vita nella sua luce più attuale: vita, e luce della vita, piena nel caos non ancora proletario, come la vuole il rozzo giornale della cellula, l'ultimo sventolio del rotocalco: osso dell'esistenza quotidiana, pura, per essere fin troppo prossima, assoluta per essere fin troppo miseramente umana. --- http://www.gabit.com
III E ora rincaso, ricco di quegli anni così nuovi che non avrei mai pensato di saperli vecchi in un'anima a essi lontana, come a ogni passato. Salgo i viali del Gianicolo, fermo da un bivio liberty, a un largo alberato, a un troncone di mura - ormai al termine della città sull'ondulata pianura che si apre sul mare. E mi rigermina nell'anima - inerte e scura come la notte abbandonata al profumo una semenza ormai troppo matura per dare ancora frutto, nel cumulo di una vita tornata stanca e acerba... Ecco Villa Pamphili, e nel lume che tranquillo riverbera sui nuovi muri, la via dove abito. Presso la mia casa, su un'erba ridotta a un'oscura bava, una traccia sulle voragini scavate di fresco, nel tufo - caduta ogni rabbia di distruzione - rampa contro radi palazzi e pezzi di cielo, inanimata, una scavatrice... Che pena m'invade, davanti a questi attrezzi supini, sparsi qua e là nel fango, davanti a questo canovaccio rosso che pende a un cavalletto, nell'angolo dove la notte sembra più triste? Perché, a questa spenta tinta di sangue, la mia coscienza così ciecamente resiste, si nasconde, quasi per un ossesso rimorso che tutta, nel fondo, la contrista? Perché dentro in me è lo stesso senso di giornate per sempre inadempite che è nel morto firmamento in cui sbianca questa scavatrice? Mi spoglio in una delle mille stanze dove a via Fonteiana si dorme. Su tutto puoi scavare, tempo: speranze passioni. Ma non su queste forme pure della vita... Si riduce ad esse l'uomo, quando colme siano esperienza e fiducia nel mondo... Ah, giorni di Rebibbia, che io credevo persi in una luce di necessità, e che ora so così liberi! Insieme al cuore, allora, pei difficili casi che ne avevano sperduto il corso verso un destino umano, guadagnando in ardore la chiarezza negata, e in ingenuità il negato equilibrio - alla chiarezza all'equilibrio giungeva anche, in quei giorni, la mente. E il cieco rimpianto, segno di ogni mia lotta col mondo, respingevano, ecco, adulte benché inesperte ideologie... Si faceva, il mondo, soggetto non più di mistero ma di storia. Si moltiplicava per mille la gioia del conoscerlo - come ogni uomo, umilmente, conosce. Marx o Gobetti, Gramsci o Croce, furono vivi nelle vive esperienze. Mutò la materia di un decennio d'oscura vocazione, se mi spesi a far chiaro ciò che più pareva essere ideale figura a una ideale generazione; in ogni pagina, in ogni riga che scrivevo, nell'esilio di Rebibbia, c'era quel fervore, quella presunzione, quella gratitudine. Nuovo nella mia nuova condizione di vecchio lavoro e di vecchia miseria, i pochi amici che venivano da me, nelle mattine o nelle sere dimenticate sul Penitenziario, mi videro dentro una luce viva: mite, violento rivoluzionario nel cuore e nella lingua. Un uomo fioriva IV Mi stringe contro il suo vecchio vello, che profuma di bosco, e mi posa il muso con le sue zanne di verro o errante orso dal fiato di rosa, sulla bocca: e intorno a me la stanza è una radura, la coltre corrosa dagli ultimi sudori giovanili, danza come un velame di pollini... E infatti cammino per una strada che avanza tra i primi prati primaverili, sfatti in una luce di paradiso... Trasportato dall'onda dei passi, questa che lascio alle spalle, lieve e misero, non è la periferia di Roma: "Viva Mexico!" è scritto a calce o inciso sui ruderi dei templi, sui muretti ai bivii, decrepiti, leggeri come osso, ai confini di un bruciante cielo senza un brivido. Ecco, in cima a una collina fra le ondulazioni, miste alle nubi, di una vecchia catena appenninica, la città, mezza vuota, benché sia l'ora della mattina, quando vanno le donne alla spesa - o del vespro che indora i bambini che corrono con le mamme fuori dai cortili della scuola. Da un gran silenzio le strade sono invase: si perdono i selciati un po' sconnessi, vecchi come il tempo, grigi come il tempo, e due lunghi listoni di pietra corrono lungo le strade, lucidi e spenti. Qualcuno, in quel silenzio, si muove: qualche vecchia, qualche ragazzetto perduto nei suoi giuochi, dove i portali di un dolce Cinquecento s'aprano sereni, o un pozzetto con bestioline intarsiate sui bordi posi sopra la povera erba, in qualche bivio o canto dimenticato. Si apre sulla cima del colle l'erma piazza del comune, e fra casa e casa, oltre un muretto, e il verde d'un grande castagno, si vede lo spazio della valle: ma non la valle. Uno spazio che tremola celeste o appena cereo... Ma il Corso continua, oltre quella familiare piazzetta sospesa nel cielo appenninico: s'interna fra case più strette, scende un po' a mezza costa: e più in basso - quando le barocche casette diradano ecco apparire la valle - e il deserto. Ancora solo qualche passo verso la svolta, dove la strada è già tra nudi praticelli erti e ricciuti. A manca, contro il pendio, quasi fosse crollata la chiesa, si alza gremita di affreschi, azzurri, rossi, un'abside, pesta di volute lungo le cancellate cicatrici del crollo - da cui soltanto essa, l'immensa conchiglia, sia rimasta a spalancarsi contro il cielo. È lì, da oltre la valle, dal deserto, che prende a soffiare un'aria, lieve, disperata, che incendia la pelle di dolcezza... È come quegli odori che, dai campi bagnati di fresco, o dalle rive di un fiume, soffiano sulla città nei primi giorni di bel tempo: e tu non li riconosci, ma impazzito quasi di rimpianto, cerchi di capire se siano di un fuoco acceso sulla brina, oppure di uve o nespole perdute in qualche granaio intiepidito dal sole della stupenda mattina. Io grido di gioia, così ferito in fondo ai polmoni da quell'aria che come un tepore o una luce respiro guardando la vallata V Un po' di pace basta a rivelare dentro il cuore l'angoscia, limpida, come il fondo del mare in un giorno di sole. Ne riconosci, senza provarlo, il male lì, nel tuo letto, petto, cosce e piedi abbandonati, quale un crocifisso - o quale Noè ubriaco, che sogna, ingenuamente ignaro dell'allegria dei figli, che su lui, i forti, i puri, si divertono... il giorno è ormai su di te, nella stanza come un leone dormente. Per quali strade il cuore si trova pieno, perfetto anche in questa mescolanza di beatitudine e dolore? Un po' di pace... E in te ridesta è la guerra, è Dio. Si distendono appena le passioni, si chiude la fresca ferita appena, che già tu spendi l'anima, che pareva tutta spesa, in azioni di sogno che non rendono niente... Ecco, se acceso alla speranza - che, vecchio leone puzzolente di vodka, dall'offesa sua Russia giura Krusciov al mondo - ecco che tu ti accorgi che sogni. Sembra bruciare nel felice agosto di pace, ogni tua passione, ogni tuo interiore tormento, ogni tua ingenua vergogna di non essere - nel sentimento - al punto in cui il mondo si rinnova. Anzi, quel nuovo soffio di vento ti ricaccia indietro, dove ogni vento cade: e lì, tumore che si ricrea, ritrovi il vecchio crogiolo d'amore, il senso, lo spavento, la gioia. E proprio in quel sopore è la luce... in quella incoscienza d'infante, d'animale o ingenuo libertino è la purezza... i più eroici furori in quella fuga, il più divino sentimento in quel basso atto umano consumato nel sonno mattutino. VI Nella vampa abbandonata del sole mattutino - che riarde, ormai, radendo i cantieri, sugli infissi riscaldati - disperate vibrazioni raschiano il silenzio che perdutamente sa di vecchio latte, di piazzette vuote, d'innocenza. Già almeno dalle sette, quel vibrare cresce col sole. Povera presenza d'una dozzina d'anziani operai, con gli stracci e le canottiere arsi dal sudore, le cui voci rare, le cui lotte contro gli sparsi blocchi di fango, le colate di terra, sembrano in quel tremito disfarsi. Ma tra gli scoppi testardi della benna, che cieca sembra, cieca sgretola, cieca afferra, quasi non avesse meta, un urlo improvviso, umano, nasce, e a tratti si ripete, così pazzo di dolore, che, umano, subito non sembra più, e ridiventa morto stridore. Poi, piano, rinasce, nella luce violenta, tra i palazzi accecati, nuovo, uguale, urlo che solo chi è morente, nell'ultimo istante, può gettare in questo sole che crudele ancora splende già addolcito da un po' d'aria di mare... A gridare è, straziata da mesi e anni di mattutini sudori - accompagnata dal muto stuolo dei suoi scalpellini, la vecchia scavatrice: ma, insieme, il fresco sterro sconvolto, o, nel breve confine dell'orizzonte novecentesco, tutto il quartiere... È la città, sprofondata in un chiarore di festa, - è il mondo. Piange ciò che ha fine e ricomincia. Ciò che era area erbosa, aperto spiazzo, e si fa cortile, bianco come cera, chiuso in un decoro ch'è rancore; ciò che era quasi una vecchia fiera di freschi intonachi sghembi al sole, e si fa nuovo isolato, brulicante in un ordine ch'è spento dolore. Piange ciò che muta, anche per farsi migliore. La luce del futuro non cessa un solo istante di ferirci: è qui, che brucia in ogni nostro atto quotidiano, angoscia anche nella fiducia che ci dà vita, nell'impeto gobettiano verso questi operai, che muti innalzano, nel rione dell'altro fronte umano, il loro rosso straccio di speranza. 1956
giovedì 24 settembre 2015
Riprende il Processo Condor - Il caso Bellizzi e la testimonianza di Almada il maestro combattente che scoprì gli archivi del terrore
Riprende il processo Condor: è il giorno della deposizione
di Martin Almada, il maestro combattente che scoprì gli archivi del terrore,
i documenti che provano il collegamento delle giunte militari per la
eliminazione fisica degli oppositori politici alle dittature latinoamericane.
Secondo Almada, i documenti provano che “gli ordini
partivano direttamente da Washington” e
chiama in causa l’allora segretario di
Stato Kissinger, mente dell’operazione, Pinochet, che aveva il compito di eliminare
tutti i comunisti, e Banzer, dittatore Boliviano, che doveva ripulire le
gerarchie ecclesiastiche dai fermenti progressisti della teologia della
liberazione.
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Martin Almada |
Il Plan condor ha “eliminato le frontiere per eliminare la
gente che la pensava diversamente” dice perentoriamente davanti alla giuria
popolare Almada, nel tentativo di dare una definizione efficace a ciò che è stata questa enorme operazione militare.
Il maestro, divenuto poi anche avvocato, durante la deposizione ha raccontato della sua vita, di come si laureò in scienze dell’educazione e della sua attività politica, finalizzata a migliorare le condizioni di lavoro e di salario dei maestri del Paese. Per questo motivo venne preso di mira dalla giunta militare del Paraguay: venne arrestato senza garanzie, torturato e portato in un posto chiamato “il sepolcro dei vivi” dove si rese subito conto che i torturatori venivano da diversi paesi dell’America Latina. È lì che scoprì l’esistenza del piano: “siamo nelle grinfie del Condor”, gli disse un detenuto, ex appartenente della polizia segreta. Racconta di quando scoprì quegli archivi: “era il 22 dicembre del 1992” - dice con una certa solennità, aggiungendo con grande precisione anche l’orario: “erano le undici del mattino”.
Il maestro, divenuto poi anche avvocato, durante la deposizione ha raccontato della sua vita, di come si laureò in scienze dell’educazione e della sua attività politica, finalizzata a migliorare le condizioni di lavoro e di salario dei maestri del Paese. Per questo motivo venne preso di mira dalla giunta militare del Paraguay: venne arrestato senza garanzie, torturato e portato in un posto chiamato “il sepolcro dei vivi” dove si rese subito conto che i torturatori venivano da diversi paesi dell’America Latina. È lì che scoprì l’esistenza del piano: “siamo nelle grinfie del Condor”, gli disse un detenuto, ex appartenente della polizia segreta. Racconta di quando scoprì quegli archivi: “era il 22 dicembre del 1992” - dice con una certa solennità, aggiungendo con grande precisione anche l’orario: “erano le undici del mattino”.
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Andres Humberto Bellizzi Bellizzi |
Maria e Silvia Bellizzi |
lunedì 21 settembre 2015
Processo Condor e i desaparecidos italiani
Dopo anni di indagini, davanti alla Corte d’Assise di Roma, il processo Condor ha portato al rinvio a giudizio di 35 persone – tra boliviani, cileni, uruguagi e peruviani - per l’uccisione, la scomparsa e la tortura di 23 nostri connazionali, nel Sud America delle dittature.
Il processo, iniziato a febbraio di quest’anno, prende il nome dalla vastissima operazione “Plan Condor” che mirava a contrastare l’insediamento di governi socialisti in America del sud e del centro, attraverso un vero e proprio terrorismo di Stato, con la tortura e l’omicidio degli oppositori politici. Per evitare che la rivoluzione cubana potesse allargarsi, le autorità sudamericane dei governi militari e quelle statunitensi, avevano risposto con il Plan Condor che prevedeva lo scambio di informazioni e l’azione congiunta dei governi militari, coordinate dagli Stati Uniti che consideravano il Sud America come il loro “giardino di casa”. È solo nel 1992 che emerge il disegno criminoso del Plan Condor con la scoperta di alcuni documenti della polizia del Paraguay, gli “archivi del terrore”, contenenti le foto degli oppositori politici uccisi, torturati e scomparsi, e le prove della collaborazione tra le giunte militari.
In quel periodo morirono molti nostri connazionali e, nonostante l’avvenuta commissione dei delitti all’estero, l’art. 8 del codice penale, in deroga alla generale regola della territorialità, permette di perseguire nel nostro Paese, i “delitti politici” commessi all’estero, su richiesta del Ministro della Giustizia. Non è la prima volta che si celebra un processo di questo tipo in Italia. Ci sono precedenti illustri come, tra gli altri, il processo Podlech, Massera ed Esma.
Per quanto riguarda cosa debba intendersi per "delitto politico", la Suprema Corte, nel 2004, in un procedimento a carico di un esponente del regime militare di Videla, ha spiegato che “sono da definirsi “politici”, i delitti offensivi tanto dell’interesse politico dello Stato tanto dei diritti fondamentali dei cittadini, delitti quali l’omicidio volontario, il sequestro di persona e le lesioni personali volontarie che siano stati commessi in territorio estero in danno di cittadini italiani non in circostanze occasionali ma in esecuzione di un preciso piano criminoso diretto alla eliminazione fisica degli oppositori ad un determinato regime senza il rispetto di alcune garanzia processuale ed al solo scopo di contrastare idee tendenze politiche delle vittime, in quanto iscritte a sindacati, partiti politici o associazioni universitarie”. (Cass. Pen. 23181, 28 aprile 2004).
Per rinviare a giudizio i 33 imputati nel processo Condor ci sono voluti 15 anni di indagini e, nel frattempo, molti di questi imputati sono morti, così come è accaduto a Contreras, a capo dei servizi segreti del Cile di Pinochet, imputato nel processo Condor e morto qualche mese fa.
Per quanto riguarda cosa debba intendersi per "delitto politico", la Suprema Corte, nel 2004, in un procedimento a carico di un esponente del regime militare di Videla, ha spiegato che “sono da definirsi “politici”, i delitti offensivi tanto dell’interesse politico dello Stato tanto dei diritti fondamentali dei cittadini, delitti quali l’omicidio volontario, il sequestro di persona e le lesioni personali volontarie che siano stati commessi in territorio estero in danno di cittadini italiani non in circostanze occasionali ma in esecuzione di un preciso piano criminoso diretto alla eliminazione fisica degli oppositori ad un determinato regime senza il rispetto di alcune garanzia processuale ed al solo scopo di contrastare idee tendenze politiche delle vittime, in quanto iscritte a sindacati, partiti politici o associazioni universitarie”. (Cass. Pen. 23181, 28 aprile 2004).
Per rinviare a giudizio i 33 imputati nel processo Condor ci sono voluti 15 anni di indagini e, nel frattempo, molti di questi imputati sono morti, così come è accaduto a Contreras, a capo dei servizi segreti del Cile di Pinochet, imputato nel processo Condor e morto qualche mese fa.
Nel corso del processo Condor hanno già testimoniato, tra i tanti, Nila Heredia, presidente dell’associazione dei familiari delle vittime dei desaparecidos boliviani, parte civile, ed Estela Carlotto, il simbolo della lotta delle mamme e delle nonne di Plaza de Mayo che, senza paura e indomita forza, lottano per la verità.
Nei prossimi giorni si procederà per il caso di Andres Bellizzi, grafico sudamericano di origini calabresi, nato in Uruguay e scomparso in Argentina, per cui verranno sentiti il giornalista Roger Rodriguez, Martin Almada, famoso per aver scoperto gli “archivi del terrore”, e la madre novantunenne del desaparecidos nata a San Basile, in provincia di Cosenza.
l blogger saudita: «Io, vivo dopo 50 frustate in nome di Allah»
http://www.corriere.it/esteri/15_settembre_19/blogger-saudita-io-vivo-50-frustate-nome-allah-14f023a4-5e9d-11e5-8999-34d551e70893.shtml
giovedì 17 settembre 2015
La dimensione della continuità, lungo il cammino di Pace tracciato da Angelo Frammartino
http://www.angeloframmartino.org/it/in-primo-piano/2-in-primo-piano/595-2015-09-01-13-23-36.html
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