Al tempo degli accordi incerti sul cessate il fuoco a Gaza, Rita Baroud, studentessa diventata la voce dalla Striscia perRepubblica, racconta la vita sotto le bombe con la speranza di rinascere dopo oltre 470 giorni di guerra
di Luisa Foti
Rita conta le ore e i minuti che la separano dal cessate il fuoco e da un nuovo inizio, forse di pace o forse un altro inferno, con Gaza quasi completamente rasa al suolo, senza più nulla, se non la terra e le macerie. Rita è una studentessa, dall’inizio della guerra racconta quello che accade nella Striscia per Repubblica, e desidera continuare a fare la giornalista anche oltre questo conflitto; è nata nel 2002, dopo gli accordi di Oslo, dopo il fallimento del vertice di Camp David e durante la seconda intifada, un anno prima che morisse Yasser Arafat, alla fine di un periodo in cui ci si era illusi che la pace tra israeliani e palestinesi fosse una prospettiva possibile.
È il 17 gennaio 2025: il suo viso spunta all’improvviso sul mio schermo quando finalmente riesce a collegarsi alla videochiamata che avremmo dovuto fare il 15 gennaio: «Non posso – mi aveva detto rimandando di due giorni il nostro incontro – devo scrivere un pezzo per Repubblica sull’annuncio della tregua»; ha i capelli neri di media lunghezza, la carnagione olivastra, un volto pallidissimo dai lineamenti armoniosi. I suoi occhi mi sembrano neri e indossa una tuta dello stesso colore. Si trova all’interno di una stanza molto buia le cui pareti portano i segni più evidenti dei bombardamenti: s’intravedono crepe, numerosi fori di varie dimensioni, probabilmente causati da proiettili, schegge o frammenti di un'esplosione; non c’è elettricità.
«Dove ti trovi?», le chiedo.
«Sono a Deir al-Balah», risponde.
«Intendo dove ti trovi in questo momento? Quella è casa tua?», chiedo ancora.
«In un certo senso – mi risponde – mi trovo nell’appartamento in parte danneggiato dei miei parenti; la mia casa, a nord della Striscia, è stata distrutta nei primissimi giorni dei bombardamenti israeliani, il 9 ottobre 2023».
«Presto», le rispondo, «molto presto», aggiunge.
«La mia famiglia è stata costretta ad abbandonare il nord qualche giorno prima del grande esodo del 13 ottobre 2023», racconta.
«Questa casa a Deir al-Balah dove mi trovo adesso è stata bombardata ma è ancora in piedi e, soprattutto, è meglio delle tende, anche se siamo in 18 con un solo bagno», dice; sa di essere fortunata perché la maggior parte degli sfollati vive all’interno di tende molto piccole, appena sufficienti per dormire e muoversi.
«Il cessate il fuoco significa molto – mi dice commentando l’accordo annunciato solo due giorni prima – per me e per tutte le persone a Gaza. Ne abbiamo bisogno non solo per gli aiuti umanitari ma anche perché finisca questo genocidio e tutto questo spargimento di sangue. Abbiamo perso molte persone, parliamo di più di cinquantamila morti, altri feriti gravemente. Io non so se il cessate il fuoco sarà temporaneo o permanente, ma è importante per tornare a respirare».
L’ACCORDO PER IL CESSATE IL FUOCO
Mentre scrivo, le agenzie hanno appena battuto la notizia: è il 19 gennaio e la tregua è in vigore da pochi minuti. Sono passati due giorni da quanto ho sentito Rita.
Benché Trump abbia provato a intestarsene il merito, l’accordo ricalca in gran parte quello proposto dall’amministrazione Biden.Nessuno sa ancora cosa succederà e quanto durerà. Tutto dipende dalla volontà delle parti di rispettare gli obblighi reciproci sul rilascio degli ostaggi e dei prigionieri politici palestinesi – che spesso sono al pari degli ostaggi essendo detenuti senza la formalizzazione di un’accusa.
Gli sfollati provano a raggiungere le loro case, anzi quello che ne resta perché più di due terzi di tutti gli edifici di Gaza hanno subito danni, soprattutto nella parte nord, come riporta un'analisi del Centro satellitare delle Nazioni Unite (Unosat).
Nei prossimi giorni sono previsti massicci aiuti umanitari nella Striscia: entreranno circa 600 camion al giorno e tra qualche ora verranno rilasciati anche i primi tre ostaggi.
I primi tentativi di arrivare a una tregua risalgono a novembre 2023, quando il cessate il fuoco era durato appena sette giorni, prima che riprendessero i bombardamenti. Da allora, si sono susseguiti vari tentativi di trovare una soluzione e sono morte 40mila persone.
Questo cessate il fuoco sarebbe dovuto iniziare alle 8.30 e invece è entrato in vigore con quasi due ore di ritardo: le ultime tredici vittime sono morte a causa di quel ritardo.
DIARIO DA GAZA
Rita è diventata una preziosa testimone da Gaza per diversi mediainternazionali e ha preso il posto di Sami al-Ajrami sul quotidiano Repubblica da quando il giornalista palestinese ha lasciato la Striscia. In questi mesi i pezzi della ventiduenne hanno raccontatoi bombardamenti e una crisi umanitaria senza precedenti.
È grazie a persone come lei e Sami al-Ajrami che abbiamo potuto conoscere questo conflitto: oltre ai reporter palestinesi, nessuno ha avuto accesso alla Striscia, se non embedded con l’esercito israeliano; e l’ingresso a Gaza resterà proibito ancora per molto, almeno fino a quando il cessate il fuoco non sarà definitivo. Sono proprio i giornalisti palestinesi ad aver pagato il prezzo più alto:secondo Reporter Senza Frontiere e la Federazione Internazionale dei Giornalisti, la Palestina è attualmente il luogo più pericoloso al mondo per chi lavora nell’informazione. Nel 2024, oltre la metà dei 104 reporter uccisi a livello globale ha perso la vita a Gaza.
«Mio padre mi aveva detto che alcuni giornalisti erano interessati a ricevere una testimonianza», racconta Rita quando le chiedo della collaborazione con Repubblica.
«Io all’inizio non volevo farlo: pensavo alla mia casa distrutta, agli amici persi e non riuscivo a pensare ad altro. Non avevo nessuna esperienza e non mi sentivo pronta – dice quando mi confessa, ridendo, di aver addirittura fatto una ricerca su Google:“Come essere una brava giornalista” – Poi ho capito che quello che mi stavano chiedevano era un mio dovere: testimoniare».
Nasce così il Diario dalla Striscia. Rita ha talento nella scrittura,s’spira a Youmna El Sayed, giornalista egiziana palestinese, corrispondente da Gaza per Al Jazeera, e scrive testimonianze potenti, come ha fatto il 16 gennaio, il giorno dopo il primo annuncio del cessate il fuoco, in prima pagina su Repubblica. “Ibambini sono stati i primi: sono saltati fuori e hanno iniziato a correre nei vicoli abbandonati (…) nella Striscia è sgorgata la festa, spontanea, che presto – tra fischi, clacson, trombette e spari in aria – si è trasformata in una lunga trama di contraddizioni. Le persone si sono riversate nelle strade di Deir el-Balah, Khan Younis e Nuseirat come se rispondessero a un appello immaginario che li esortava a rompere il silenzio e la paura”.
Eppure i bombardamenti non si sono fermati: “Mentre tutti attendono con impazienza l’attuazione dell’accordo di cessate il fuoco, le esplosioni a Gaza continuano. È come se il conflitto rifiutasse di finire fino all’ultimo momento (…). Gli attacchi aerei nella sola giornata di ieri hanno provocato oltre 50 morti” – scrive di quel giorno diviso tra la speranza e il massacro.
LE COSE CHE SALVANO LA VITA
«I lost myself», mi dice con pochissima voce, come se non volesse più continuare a parlare. Sa bene cosa significa avere ventidue anni a Gaza, con i sogni interrotti: «Ho perso tutto – continua – la mia vita si è fermata. Ho perso amici, ho perso la mia casa, ho perso molto peso, ho perso la mia salute mentale. Sono depressa e, ad essere onesta, non sento più niente, questo sentimento mi sta uccidendo a poco a poco».
Rita ha già vissuto molte guerre prima del 7 ottobre e ha imparato a riconoscere il rumore delle bombe sin da quando era piccola: «Te lo giuro, ricordo bene come fosse ieri la mia prima guerra etutti gli sfollati accolti dalla mia famiglia: avevo solo cinqueanni».
«Lo studio mi ha aiutato a non pensare troppo», mi dice quando iniziamo a parlare di cose che salvano la vita. Mi racconta del progetto che stava portando avanti per l’Università di Bologna, e dei suoi studi in Lingue sospesi per il conflitto.
Anche la musica l'ha aiutata a resistere: Beethoven è stato un rifugio dal rumore senza sosta delle bombe, ma anche i libri – come Orgoglio e pregiudizio di Jane Austen e L’ombra del ventodi Carlos Ruiz Zafón.
Pensa anche a tutti i libri finiti sotto le macerie, in particolare quelli dell’iconica libreria del suo amico Samir Mansour: nel 2021 l’esercito israeliano l’aveva bombardata riducendola in macerie; era stata ricostruita nel 2022 ed è stata distrutta di nuovo.
«Samir Mansour è mio amico, quella era la mia libreria preferita».
RITA E IL FUCILE
Chi avrebbe potuto sciogliere i nostri sguardi, prima che si levasse un fucile?
Rita porta nel suo nome un riferimento poetico e una speranza per il futuro.
«Da dove viene il tuo nome, da quella poesia?» le chiedo.
«Sì, mio padre è un artista, fece una mostra a Gaza con i suoi dipinti e la intitolò Rita e il fucile», come la poesia che Mahmoud Darwish scrisse per la donna che amava. E non era una donna qualunque, era israeliana e solo qualche anno fa se n’è scoperta la vera identità: Rita era Tamar Ben-Ami, coreografa e ballerinaisraeliana di origini polacche.
"Write down I am an arab", il documentario della registaisraeliana Ibtisam Mara’ana Menuhin, racconta non solo del loro amore – poi finito a causa di quel fucile – ma anche di due popoli che pur essendosi sempre odiati sulle carte della geopolitica hanno anche provato ad amarsi.
Ci salutiamo con la promessa di risentirci.
Le ho chiesto di non perdere la speranza mentre attende che tutto finisca davvero.
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