mercoledì 9 luglio 2025

Ritrovato il nipote numero 140, l’annuncio delle Abuelas de Plaza de Mayo

Si tratta del figlio di Graciela Alicia Romero e Raúl Eugenio Metz, due attivisti del Partito rivoluzionario dei lavoratori rapiti nel dicembre 1976

Per tutta la vita, Adriana Metz ha cercato suo fratello senza mai smettere di credere che un giorno lo avrebbe incontrato. Pochi giorni fa, ha potuto finalmente abbracciarlo, restituendo senso a una ricerca durata più di quarant’anni.
Adriana non aveva mai conosciuto suo fratello perché era stato rapito dal regime argentino di Videla dopo che sua madre, Graciela Alicia Romero, lo aveva dato alla luce nel 1977, in un centro di detenzione dove era clandestinamente reclusa a causa del suo attivismo politico.

Il fratello di Adriana è uno dei cinquecento nipoti sottratti alle loro legittime famiglie biologiche, nonché l’ultimo ritrovato in vita al quale è stato possibile restituire un’identità, e una storia.  

L’annuncio del ritrovamento arriva il 7 luglio dalla pagina Instagram delle Abuelas del Plaza de Mayo, le attiviste simbolo della lotta contro il regime che hanno dedicato la loro esistenza alla ricerca dei nietos apropiados: l’uomo è il nipote numero 140. E anche se ne mancano ancora centinaia all’appello bisogna festeggiare, poi si penserà agli altri perché “la identidad florece siempre”, come scritto dalle nonne attiviste con una fiducia nella verità e nella giustizia che dura da 47 anni.

Estela de Carlotto, presidente delle Abuelas, entra trionfante e colma di gioia nella sala dedicata alla conferenza stampa convocata all’Esma, il centro clandestino di detenzione e tortura di Buenos Aires, simbolo del terrorismo di stato, dove vennero tenuti in arresto, torturati, e fatti sparire la maggior parte degli oppositori politici del regime. Il centro è attualmente la sede della Casa por la Identidad e rappresenta la rinascita e la difesa della memoria di quel periodo terribile della storia argentina, a cavallo tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80, nonostante un certo negazionismo stia cercando di riscrivere una parte di quella vicenda.

Accanto alla presidente ci sono anche Manuel Gonçalves Granada, segretario esecutivo della Commissione nazionale per il diritto all’identità (CoNaDI), e Adriana Metz che non sta nella pelle dalla felicità: «Anche se ho sempre lavorato per trovarlo, non mi ero mai immaginata come sarebbe stato quel giorno. Grazie alle Abuelas per averci insegnato che la ricerca è collettiva e che dobbiamo continuare per quei trecento nipoti che mancano a tutti noi».

Chi erano Graciela Alicia Romero e Raúl Eugenio Metz, i genitori del nieto 140
Il nipote ritrovato – che ha avuto modo di incontrare sua sorella Adriana, ma che non si è ancora presentato alla stampa per motivi di privacy – era figlio di Graciela Alicia Romero e Raúl Eugenio Metz, militanti del Partito rivoluzionario dei lavoratori; nell'ottobre 1975 i due avevano avuto Adriana, la loro primogenita.
Raúl, che lavorava nelle ferrovie a Bahía Blanca, aveva subito un primo tentativo di rapimento sul posto di lavoro che lo aveva spinto a trasferirsi con la famiglia a Cutral Có, in provincia di Neuquén, dove aveva trovato lavoro in una ditta edile.

Il sequestro
Il 16 dicembre 1976 un gruppo d’azione composto da esercito e polizia di Neuquén fece irruzione nella casa dei due attivisti. Raul e Graciela vennero sequestrati. In quel momento, Graciela era incinta di cinque mesi. Da quanto risulta, la donna avrebbe partorito il 17 aprile 1977 presso l’Escuelita di Bahía Blanca, il centro clandestino dove era detenuta; il bambino le sarebbe stato sottratto con violenza e dato in adozione.

La desaparicion degli oppositori politici e il rapimento dei nietos
Il fratello di Adriana si aggiunge agli altri 139 casi di nietos restituidos di cui si appropriò la giunta militare insediatasi con un colpo di stato il 24 marzo 1976 e che si rese responsabile di una delle più grosse e sistematiche violazioni dei diritti umani: decine di migliaia di attivisti politici vennero rapiti, imprigionati in maniera clandestina, torturati e fatti sparire. Si contano circa 30mila desaparecidos, persone scomparse il cui corpo, in molti casi, non è stato mai ritrovato, e cinquecento bambini rapiti.

Così come accaduto a Graciela Alicia Romero, le attiviste incinte subivano la sorte più crudele: tenute in vita fino al parto, i loro figli venivano dati in affidamento ad altre famiglie – in alcuni casi proprio alle famiglie degli stessi torturatori –, grazie a false attestazioni di nascita; poi, le madri venivano uccise nei famosi “voli della morte”, la pratica di sterminio che prevedeva di eliminare gli oppositori politici lanciandoli, spesso ancora vivi, nelle acque del Río de la Plata o dell’Atlantico.

Gli attacchi alle associazioni che si battono per la verità e la giustizia 
L’ultimo ritrovamento s’inserisce in un contesto sociale difficile, scandito da tagli ai finanziamenti destinati alle associazioni che si battono per la tutela dei diritti umani, e continui attacchi alle politiche per la verità e la giustizia da parte di Javier Milei. Il presidente argentino è apertamente un negazionista della dolorosa vicenda storica che ha portato alla sparizione forzata di decine di migliaia di persone.

Di recente, le Abuelas hanno denunciato il commissariamento del Banco nazionale dei dati genetici (BNDG), deciso da Milei per ostacolare il riconoscimento delle origini dei bambini sottratti dalla dittatura. E questa è soltanto l’ultima di una serie di azioni contro la memoria, come lo smantellamento della Commissione nazionale per il diritto all’identità e, in particolare, proprio dell’unità speciale che aveva accesso agli archivi statali.

Mancano ancora 300 persone all’appello
«Con il ritrovamento del nipote 140 confermiamo ancora una volta che i nostri nipoti sono tra noi e che, grazie alla perseveranza e al lavoro costante di questi quarantasette anni di lotta, la verità verrà alla luce», ha concluso Estela de Carlotto ricordando che mancano all’appello ancora 300 persone.

 





martedì 1 luglio 2025

Cuba, proteste contro il Tarifazo

Gli studenti scendono in piazza contro l’“apartheid digitale”, l’aumento delle tariffe  internet deciso dalla monopolista Etecsa. Il governo fa concessioni, ma partono denunce e la repressione si fa sentire

di Luisa Foti

A Cuba internet è una questione di classe che separa chi può permetterselo da chi ne è tagliato fuori per i costi esorbitanti delle nuove tariffe: il 30 maggio sono entrate in vigore le nuove offerte per accedere al web annunciate da Etecsa, l’azienda che detiene il monopolio delle telecomunicazioni.

Da strumento per comunicare, studiare, lavorare e mantenere i contatti con il mondo esterno in un Paese sempre più isolato e colpito da una profonda crisi economica, internet è improvvisamente diventato un lusso per la maggior parte dei cubani. 

I nuovi pacchetti prevedono costi di connessione altissimi, un tetto alle ricariche in valuta nazionale, e nuove offerte in dollari accessibili solo a chi dispone di valuta estera: in particolare, il costo per 15 giga di internet supera gli 11mila pesos cubani, l’equivalente di due stipendi medi a Cuba. Le ricariche in moneta nazionale sono limitate a 360 cup al mese per 6 giga: si tratta di una soglia minima superata la quale le ricariche devono essere effettuate in valuta estera o a prezzi altissimi in cup.

Dopo l’annuncio dei rincari, studenti e professori si sono opposti alla decisione del governo: le proteste sono esplose tra i corridoi della facoltà di matematica dell'università dell'Avana e si sono estese in tutto il Paese. Gli universitari hanno organizzato scioperi e boicottaggi delle lezioni, hanno chiesto la revoca delle nuove tariffe e un dialogo con le autorità.

Come si legge dal quotidiano indipendente online 14ymedio, a Cuba non si vedeva una tale indignazione dal 2021, quando il governo aveva soppresso il cuc – il peso convertibile in dollaro – lasciando in circolazione solo il cup, la moneta non convertibile sul mercato internazionale, in un contesto già reso difficile da crisi economica, pandemia e carenza di beni essenziali. La misura aveva contribuito a un’impennata dell’inflazione, aggravando le condizioni di vita e rendendo ancora più difficile accedere a prodotti venduti solo in valuta estera.

Nemmeno gli apagones – i continui blackout –, né la mancanza di medicinali o di cibo erano riusciti a smuovere le proteste. Limitare l’accesso a internet ha avuto un impatto profondo nelle coscienze degli studenti: rendere il web praticamente inaccessibile impedisce di avere uno spazio di libertà di cui i cubani necessitano per esercitare i loro diritti fondamentali, oltre a costituire un grosso danno economico per tutte le aziende che si basano sempre più su tecnologia e trasformazione digitale.

In seguito alle proteste contro quello che è stato definito un regime di “apartheid digitale”, il governo cubano ha fatto un piccolo passo indietro: Tania Velázquez Rodríguez, vicepresidente di Etecsa, che si era inizialmente difesa definendo l’aumento come una “misura necessaria”, ha annunciato alcune eccezioni in favore di studenti e altri settori durante il programma radio-televisivo Mesa Redonda. Secondo le nuove tariffe agevolate, gli studenti potranno accedere a pacchetti fino a 12 giga a un costo di 720 cup, rispetto a quanto invece previsto per gli altri piani, e cioè 15 giga a circa 11mila cup. Le università e il settore sanitario avranno accesso gratuito a internet. 

I costi, però, rimangono elevati per molti studenti, e la differenza di trattamento tra categorie di cittadini rischia di accentuare le disuguaglianze nell’accesso alle risorse digitali; e infatti, le aperture del governo non sono bastate: un gruppo di studenti di giurisprudenza dell'università di Holguín, capoluogo dell’omonima regione situata nella parte orientale dell’isola, ha presentato una denuncia accusando l’azienda di violare i termini contrattuali e i diritti costituzionali, in particolare il diritto all’informazione e all’educazione. 

Uno degli universitari promotori della denuncia contro Etecsa, René Javier, ha pubblicato sulla sua pagina Facebook la denuncia in cui definisce l’aumento unilaterale delle tariffe una misura classista e contraria al diritto. 

Secondo i denuncianti, la decisione di Etecsa tradisce gli ideali della rivoluzione per aprirsi alla “crescente dollarizzazione dell’economia cubana”, oltre ad aggravare il divario tra i vari settori della società in cui nessuno percepisce lo stipendio in dollari o in altra valuta straniera. 

La Feu (federazione studentesca universitaria) che ha sempre avuto una posizione più vicina al governo e che non ha voluto sostenere la denuncia, ha diffuso un comunicato per invitare tutti alla calma e a trovare soluzioni per l’intera comunità. Per dare seguito alle dichiarazioni, la federazione ha promosso la creazione di un gruppo di universitari incaricato di interfacciarsi con Etecsa per individuare soluzioni. L’iniziativa però appare più come un gesto simbolico dal momento che l’azienda ha già escluso ogni ulteriore revisione delle misure adottate. Gli studenti della facoltà di storia e filosofia dell’università dell’Avana hanno chiesto le dimissioni del portavoce della Feu, Ricardo Rodríguez González, giudicato non più in grado di rappresentare i veri bisogni degli universitari nella crisi del tarifazo, come è stato ribattezzato il discusso rincaro delle tariffe internet.

Il Presidente Miguel Díaz-Canel ha dichiarato che “i nemici della Rivoluzione” intendono manipolare l’opinione degli studenti universitari sulle recenti misure adottate da Etecsa, con l’obiettivo di promuovere il sovvertimento dell'ordine pubblico a Cuba; ha poi lodato organizzazioni come la Feu e l'unione dei giovani comunisti che, a suo dire, avrebbero manifestato pacificamente la loro disapprovazione. 

Nei giorni successivi, il governo ha avviato le prime misure repressive: come si apprende dalla pagina Facebook dell'Osservatorio per la libertà accademica, agenti in abiti civili si sono presentati nei campus per sottoporre diversi studenti a interrogatori in quanto accusati di controrivoluzione e di essere sostenuti da agenti esterni per sovvertire il regime cubano.

In un video diffuso dall’Osservatorio una ragazza racconta che alcuni funzionari del DTI, uno degli organismi di repressione del dissenso più temuto sull’isola, si sono presentati a casa sua senza preavviso per intimidire la sua famiglia.

Intanto accademici, artisti, giornalisti e intellettuali cubani hanno condiviso una lettera per supportare le proteste studentesche. “Per la prima volta dopo decenni – si legge – gli studenti cubani, onorando le antiche tradizioni repubblicane (…) hanno alzato la voce contro gli abusi (...). Questo li ha resi obiettivi della macchina repressiva del regime, che ha già avviato una campagna di manipolazione informativa”.

L’appello finale è rivolto alla comunità internazionale: “Difendete studenti e professori” contro “possibili persecuzioni come quelle impiegate durante le proteste di luglio 2021, per le quali centinaia di persone sono ancora in prigione”.



El Funky, il rapper trumpiano che ha rischiato di essere deportato a Cuba

L’artista smentisce chi lo accusa di non essere un vero oppositore del regime castrista e continua a credere nel sogno americano: «Ho fiducia in questo governo»

di Luisa Foti

“Ho 30 giorni per lasciare il paese altrimenti sarò deportato. Chiedo aiuto a tutti i miei fratelli cubani che conoscono il mio percorso anticomunista e ai membri del Congresso di questo Paese. Oggi più che mai ho bisogno del vostro sostegno”.

L’8 maggio scorso sulla sua pagina Instagram, El Funky, rapper e oppositore politico del regime cubano residente negli Stati Uniti dal 2021, pubblica una richiesta di aiuto: secondo la nuova e durissima politica migratoria statunitense, l’ufficio per la cittadinanza e l’immigrazione gli ha rigettato la richiesta di residenza permanente.

Tantissimi i commenti al post: in molti lo attaccano per aver supportato l’attuale presidente repubblicano – “Hai votato Trump, ora tieniti Trump!” – ma arrivano anche i messaggi di sostegno e solidarietà. Tutti insistono su un punto: El Funky, in quanto dissidente del regime castrista, non può essere deportato perché rischierebbe la vita: «È la cosa peggiore che gli possa capitare», spiega in un video un supporter dell’artista, mentre fa un appello, tra gli altri, a María Elvira Salazar, parlamentare repubblicana, figlia di esuli cubani e vicina alla causa del rapper, e Marco Rubio, il Segretario di Stato Usa con radici familiari nell’isola, il quale, però, non ha ritenuto opportuno schierarsi dalla parte del rapper.

Prima di arrivare in America, El Funky era diventato uno degli artisti di punta del movimento di opposizione al regime. La sua storia personale riflette quella di tanti cubani, tra repressione, fuga, speranza ed esilio in Florida.

Eliecer Márquez Duany si fa chiamare El Funky dai tempi in cui da adolescente faceva rap nelle peñas dei quartieri popolari dell’Avana. È nato proprio nella capitale negli anni ’80 e ha scritto il suo primo brano a 16 anni, mischiando il rap alla musica cubana di gruppi come La Charanga Habanera e Los Van Van. Nel 2014 pubblica il suo primo album, The Zombie Flow, e con il tempo si distingue come artista critico nei confronti del governo castrista, fino a diventare membro del Movimento San Isidro, dal nome del quartiere dell’Avana in cui il gruppo si è formato. Si tratta di un collettivo di artisti, giornalisti e intellettuali nato per protestare contro il famoso Decreto 349, la legge che impone l’autorizzazione preventiva del Ministero della Cultura per qualsiasi attività artistica.

Nel 2021 il movimento dà vita alle più grandi proteste contro il regime degli ultimi trent’anni: El Funky, insieme a Maykel Castillo Pérez – più conosciuto come El Osorbo, attualmente detenuto a Cuba proprio in seguito a quelle proteste – Yotuel, Gente de Zona e Descemer Bueno, registra Patria y Vida, un brano che supera il mezzo milione di visualizzazioni in meno di settantadue ore, vince due Latin Grammy e ottiene risonanza internazionale. Il titolo della canzone diventa lo slogan delle proteste ed è una rivisitazione dello storico motto Patria o Muerte in chiave contemporanea: la congiunzione avversativa “o” viene sostituita da una “y” inclusiva; non si nega l’amore per la patria, ma si afferma che la vita ne ha lo stesso valore. “No más mentiras, mi pueblo pide libertad… Ya no gritemos ‘Patria o muerte’ sino ‘Patria y Vida”.
Dopo il successo ottenuto, El Funky lascia Cuba nel 2021 per partecipare alla cerimonia dei Grammy; uomini del regime lo seguono fino all’aeroporto e lo minacciano: «Ti conviene andartene e non tornare più». Dopo la premiazione si rifugia a Miami dove vive tuttora con la famiglia e lavora come addetto alla manutenzione in una scuola elementare. E, nonostante le attuali dure politiche migratorie, soprattutto verso i cittadini latinoamericani, El Funky ha sempre sostenuto il presidente statunitense: «Se avessi potuto votare, avrei votato per Trump. È il presidente più forte quando si tratta di Cuba».

«Probabilmente ci sono troppi cubani qui», ha spiegato di recente dopo l’apertura del caso della sua residenza negli Stati Uniti: «Capisco il tentativo di allontanare chi non ha diritto a restare, ma Trump dovrebbe valutare ogni singolo caso». Con queste parole ha provato a rivendicare la sua posizione, sostenendo di essere uno dei pochi a meritare l’asilo politico in quanto vero anticomunista; a suo dire, la maggior parte dei cubani presenti nel Paese sarebbero invece migranti economici, privi di reali motivi politici per restare.

E c’è chi però insinua che El Funky non sia un vero oppositore castrista, come fa Alain Paparazzi Cubano, un influencer molto seguito su YouTube: il diniego di residenza permanente fatto in base al Cuban Adjustment Act sarebbe collegato ai piccoli reati commessi sull’isola nel 2017, come il possesso di stupefacenti; ma soprattutto, secondo l’influencer, il rapper non sarebbe un vero dissidente. El Funky si difende pubblicando un altro messaggio sul suo account social per contestare le accuse infamanti. Molti rilanciano accusandolo di non essere parte del Movimento di San Isidro: lui risponde con un video in cui incita i manifestanti cantando Patria y Vida durante le proteste antiregime del 2021.

Il 25 maggio 2025 il rapper pubblica l’ultimo messaggio di questa vicenda per rassicurare tutti: “Il caso della mia residenza è stato riaperto”, scrive, precisando di avere molta fiducia nell’amministrazione Trump e nella possibilità di regolarizzare la sua presenza negli States.
Con il supporto di un nuovo team legale, El Funky deve ora decidere come procedere: nel 2021, arrivato negli stati Uniti, i suoi precedenti avvocati gli avevano consigliato il richiedere il parole humanitario CHNV – il permesso attivato da Biden per tutti i cittadini di Cuba, Haiti, Nicaragua e Venezuela – perché più rapido rispetto alla richiesta di asilo; in seguito al parole, avrebbe potuto richiedere la residenza permanente, grazie al Cuban Adjustment Act. Tuttavia, soltanto l’asilo politico gli avrebbe garantito una protezione più solida contro il rischio di deportazione in quanto dissidente. 

Come fa sapere nella sua pagina Instagram, i suoi nuovi avvocati si sono attivati per chiedere l’asilo politico e, in ogni caso, per impedire che il suo ritorno in patria lo esponga al rischio concreto di un regime carcerario duro, sorte toccata al coautore di Patria y Vida, El Osorbo, detenuto presso il carcere di massima sicurezza dedicato agli oppositori politici Kilo 5 y Medio, nella regione di Pinar del Río.

Sono già trascorsi oltre trenta giorni dal post pubblicato l’8 maggio: El Funky è ancora negli Stati Uniti. Viene da chiedersi se abbia messo in dubbio il suo sostegno a Trump, anche solo per un istante.

Intanto, il caso del rapper non è l’unico: Human Rights Watch ha esortato il governo statunitense a garantire la permanenza negli States di altri oppositori per evitare che, una volta deportati a Cuba, subiscano le conseguenze dell’apparato repressivo castrista.