L’agenzia federale che si occupa del controllo della sicurezza delle frontiere e dell’immigrazione ha
arrestato diversi supporter di Trump che, nonostante tutto, continuano a crede al sogno MAGA
di Luisa Foti
La durissima politica migratoria messa in atto da Donald Trump sta colpendo non solo i suoi
detrattori, ma anche molti tra coloro che lo hanno votato e continuano a sostenerlo. Il cappellino
rosso con l’acronimo MAGA, simbolo della fedele appartenenza alla comunità dei tifosi sfegatati
del presidente degli Stati Uniti, non è sufficiente a proteggere le persone migranti che soggiornano
illegalmente negli States – ma, in alcuni casi, anche legalmente – da una possibile deportazione
nel proprio paese di origine o in paesi terzi.
Nonostante alcune corti distrettuali di livello federale stiano provando a bloccare le politiche di
Trump perché considerate incostituzionali, la macchina dell’ICE (Immigration and Customs
Enforcement), non risparmia nessuno.
Dopo aver potenziato la sua azione attraverso nuovi fondi, tanti arresti giornalieri e blitz sui luoghi
di lavoro, la controversa agenzia federale statunitense, responsabile del controllo della sicurezza
delle frontiere e dell’immigrazione – in sintesi, la polizia dell’immigrazione – si è scatenata anche
contro i migranti residenti negli Usa e sostenitori di Trump, attraverso una sorta di paradossale
effetto boomerang: mamme, lavoratori, finanche cittadini naturalizzati americani, sono tutti finiti nel
mirino di una politica identitaria che ha travolto proprio coloro che l’hanno alimentata.
Nonostante la brutta sorte loro toccata, alcuni continuano a sostenere Trump manifestando una
fiducia incondizionata nel capo come fa, Arpineh Masihi: mai avrebbe immaginato che gli agenti
dell’ICE il 30 giugno si sarebbero davvero presentati a casa sua per portarla via.
La donna, 39 anni, mamma MAGA di tre figli, ha dichiarato ai microfoni della BBC di essere ancora
una supporter del Presidente: «Lo sosterrò fino al giorno della mia morte. Sta rendendo di nuovo
grande l'America», ha detto dal centro di detenzione per migranti di Adelanto, nel deserto del
Mojave in California, famoso per le dure condizioni simili a quelle carcerarie.
Di origini iraniane, negli Stati Uniti Masihi aveva avuto una seconda possibilità, dopo essere stata
condannata nel 2017 per furto con scasso e furto aggravato a due anni di prigione, con
conseguente revoca della Green Card, il famoso permesso di soggiorno permanente.
Tuttavia essendo parte della minoranza cristiano-armena in un Paese a maggioranza sciita, il
giudice le aveva riconosciuto il diritto di restare negli Stati Uniti, evitando così la deportazione in
Iran. Ed è proprio questa la principale preoccupazione dei familiari: Masihi si dice sicura che una
cosa del genere non possa accadere, anche se, come ricorda il Washington Post, una sentenza
della Corte Suprema ha spianato la strada a una tale eventualità.
C’è anche Camila Muñoz tra gli arrestati dall’ICE. Suo marito, Bradley Bartell, dice di non essersi
pentito di aver votato per Trump perché, a suo dire, il presidente è “una vittima della pessima
politica migratoria ereditata dalle precedenti amministrazioni” e starebbe solo cercando di
migliorare il sistema, facendo emergere quanto sia corrotto.
La Muñoz di origini peruviane, alla quale era scaduto il visto per motivi di studio e lavoro all'inizio
della pandemia, stava cercando di ottenere la residenza permanente negli Stati Uniti quando è
stata fermata.
Uno dei casi più eclatanti riguarda Jensy Machado, 38 anni, cittadino naturalizzato statunitense di
origini peruviane. Mentre stava andando a lavoro, l’uomo è stato fermato da agenti dell’ICE che
hanno estratto le armi circondando il suo furgone. A differenza dei due casi precedenti, Machado
ha però messo in discussione il suo sostegno a Trump, sollevando accuse circa una profilazione
razziale degli arresti: «Ero un sostenitore di Trump. Ho votato per lui alle ultime elezioni perché
pensavo che avrebbe agito solo contro i criminali e non contro tutti gli ispanici».
Sta facendo discutere anche il caso di un cittadino iraniano di cui ha parlato il Phoenix New Times,
testata locale indipendente e progressista: Mezhrad Asadi Eidivand, 40 anni, residente a Tempe,
in Arizona, è stato arrestato alla fine del mese di giugno per il possesso illegale di un’arma da
fuoco, pochi giorni dopo il bombardamento americano delle basi iraniane.
L’uomo è stato fermato dal Dipartimento della Sicurezza Interna (DHS) nella sua casa insieme alla
moglie, cittadina statunitense. Durante l’udienza per la convalida dell’arresto, l’avvocata d’ufficio
Debbie Jang lo ha definito un “ateo anti-musulmano” che ha cercato di restare negli States solo
per evitare di rischiare la vita tornando in Iran, nonostante pendesse su di lui un ordine di
espulsione. Eidivand si è sempre dichiarato un grande fan di Trump e della sua politica migratoria,
essendo però ben consapevole che tale politica lo avrebbe potuto danneggiare direttamente.
Molte comunità si dicono sconvolte dall’ondata di arresti indiscriminati: è successo nella cittadina di
Kennett, in Missouri, i cui abitanti, pur essendosi dichiarati favorevoli alle politiche trumpiane
sull’immigrazione, sono rimasti turbati dalla deportazione di una donna, Ming Li Hui, cittadina di
Hong Kong – per tutti Carol – reputata una brava persona e una buona mamma, la quale, pur non
avendo mai commesso alcun reato, non era in regola con la legge sull’immigrazione.
Le ultime statistiche dell'ICE, aggiornate al 29 giugno 2025, mostrano che delle 57.861 persone
detenute, 41.495 (e cioè il 71,17% del totale), non hanno riportato condanne penali. Questo dato è
ulteriormente rafforzato da un elemento: a ogni persona viene attribuito un indice di pericolosità.
L'84% delle persone detenute nelle 201 strutture dell’ICE non ha ricevuto nessun livello di
minaccia.
Si tratta quindi di persone che, nella stragrande maggioranza dei casi, non hanno commesso reati,
e questo contraddice quanto da sempre dichiarato da Trump, ossia che avrebbe deportato il
“peggio del peggio”.
Il nodo della questione è proprio questo: si è accettato che bastasse definire una persona come
“criminale” per legittimare qualsiasi misura da parte del governo, compresa la deportazione, anche
a costo di calpestare diritti fondamentali. Deportare migranti in quanto colpevoli della commissione
di un crimine non era accettabile nemmeno prima; oggi, che a essere perseguiti sono anche gli
innocenti, è ancora più chiaro quanto fosse pericolosa quella logica, nonché contraria alle regole
generali dello Stato di diritto.
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