venerdì 22 agosto 2025

La furia dell’ICE non risparmia nemmeno i pro-Trump

L’agenzia federale che si occupa del controllo della sicurezza delle frontiere e dell’immigrazione ha

arrestato diversi supporter di Trump che, nonostante tutto, continuano a crede al sogno MAGA


di Luisa Foti

La durissima politica migratoria messa in atto da Donald Trump sta colpendo non solo i suoi

detrattori, ma anche molti tra coloro che lo hanno votato e continuano a sostenerlo. Il cappellino

rosso con l’acronimo MAGA, simbolo della fedele appartenenza alla comunità dei tifosi sfegatati

del presidente degli Stati Uniti, non è sufficiente a proteggere le persone migranti che soggiornano

illegalmente negli States – ma, in alcuni casi, anche legalmente – da una possibile deportazione

nel proprio paese di origine o in paesi terzi.

Nonostante alcune corti distrettuali di livello federale stiano provando a bloccare le politiche di

Trump perché considerate incostituzionali, la macchina dell’ICE (Immigration and Customs

Enforcement), non risparmia nessuno.

Dopo aver potenziato la sua azione attraverso nuovi fondi, tanti arresti giornalieri e blitz sui luoghi

di lavoro, la controversa agenzia federale statunitense, responsabile del controllo della sicurezza

delle frontiere e dell’immigrazione – in sintesi, la polizia dell’immigrazione – si è scatenata anche

contro i migranti residenti negli Usa e sostenitori di Trump, attraverso una sorta di paradossale

effetto boomerang: mamme, lavoratori, finanche cittadini naturalizzati americani, sono tutti finiti nel

mirino di una politica identitaria che ha travolto proprio coloro che l’hanno alimentata.

Nonostante la brutta sorte loro toccata, alcuni continuano a sostenere Trump manifestando una

fiducia incondizionata nel capo come fa, Arpineh Masihi: mai avrebbe immaginato che gli agenti

dell’ICE il 30 giugno si sarebbero davvero presentati a casa sua per portarla via.

La donna, 39 anni, mamma MAGA di tre figli, ha dichiarato ai microfoni della BBC di essere ancora

una supporter del Presidente: «Lo sosterrò fino al giorno della mia morte. Sta rendendo di nuovo

grande l'America», ha detto dal centro di detenzione per migranti di Adelanto, nel deserto del

Mojave in California, famoso per le dure condizioni simili a quelle carcerarie.

Di origini iraniane, negli Stati Uniti Masihi aveva avuto una seconda possibilità, dopo essere stata

condannata nel 2017 per furto con scasso e furto aggravato a due anni di prigione, con

conseguente revoca della Green Card, il famoso permesso di soggiorno permanente.

Tuttavia essendo parte della minoranza cristiano-armena in un Paese a maggioranza sciita, il

giudice le aveva riconosciuto il diritto di restare negli Stati Uniti, evitando così la deportazione in

Iran. Ed è proprio questa la principale preoccupazione dei familiari: Masihi si dice sicura che una

cosa del genere non possa accadere, anche se, come ricorda il Washington Post, una sentenza

della Corte Suprema ha spianato la strada a una tale eventualità.

C’è anche Camila Muñoz tra gli arrestati dall’ICE. Suo marito, Bradley Bartell, dice di non essersi

pentito di aver votato per Trump perché, a suo dire, il presidente è “una vittima della pessima

politica migratoria ereditata dalle precedenti amministrazioni” e starebbe solo cercando di

migliorare il sistema, facendo emergere quanto sia corrotto.

La Muñoz di origini peruviane, alla quale era scaduto il visto per motivi di studio e lavoro all'inizio

della pandemia, stava cercando di ottenere la residenza permanente negli Stati Uniti quando è

stata fermata.

Uno dei casi più eclatanti riguarda Jensy Machado, 38 anni, cittadino naturalizzato statunitense di

origini peruviane. Mentre stava andando a lavoro, l’uomo è stato fermato da agenti dell’ICE che

hanno estratto le armi circondando il suo furgone. A differenza dei due casi precedenti, Machado

ha però messo in discussione il suo sostegno a Trump, sollevando accuse circa una profilazione

razziale degli arresti: «Ero un sostenitore di Trump. Ho votato per lui alle ultime elezioni perché

pensavo che avrebbe agito solo contro i criminali e non contro tutti gli ispanici».

Sta facendo discutere anche il caso di un cittadino iraniano di cui ha parlato il Phoenix New Times,

testata locale indipendente e progressista: Mezhrad Asadi Eidivand, 40 anni, residente a Tempe,

in Arizona, è stato arrestato alla fine del mese di giugno per il possesso illegale di un’arma da

fuoco, pochi giorni dopo il bombardamento americano delle basi iraniane.

L’uomo è stato fermato dal Dipartimento della Sicurezza Interna (DHS) nella sua casa insieme alla

moglie, cittadina statunitense. Durante l’udienza per la convalida dell’arresto, l’avvocata d’ufficio

Debbie Jang lo ha definito un “ateo anti-musulmano” che ha cercato di restare negli States solo

per evitare di rischiare la vita tornando in Iran, nonostante pendesse su di lui un ordine di

espulsione. Eidivand si è sempre dichiarato un grande fan di Trump e della sua politica migratoria,

essendo però ben consapevole che tale politica lo avrebbe potuto danneggiare direttamente.

Molte comunità si dicono sconvolte dall’ondata di arresti indiscriminati: è successo nella cittadina di

Kennett, in Missouri, i cui abitanti, pur essendosi dichiarati favorevoli alle politiche trumpiane

sull’immigrazione, sono rimasti turbati dalla deportazione di una donna, Ming Li Hui, cittadina di

Hong Kong – per tutti Carol – reputata una brava persona e una buona mamma, la quale, pur non

avendo mai commesso alcun reato, non era in regola con la legge sull’immigrazione.

Le ultime statistiche dell'ICE, aggiornate al 29 giugno 2025, mostrano che delle 57.861 persone

detenute, 41.495 (e cioè il 71,17% del totale), non hanno riportato condanne penali. Questo dato è

ulteriormente rafforzato da un elemento: a ogni persona viene attribuito un indice di pericolosità.

L'84% delle persone detenute nelle 201 strutture dell’ICE non ha ricevuto nessun livello di

minaccia.

Si tratta quindi di persone che, nella stragrande maggioranza dei casi, non hanno commesso reati,

e questo contraddice quanto da sempre dichiarato da Trump, ossia che avrebbe deportato il

“peggio del peggio”.

Il nodo della questione è proprio questo: si è accettato che bastasse definire una persona come

“criminale” per legittimare qualsiasi misura da parte del governo, compresa la deportazione, anche

a costo di calpestare diritti fondamentali. Deportare migranti in quanto colpevoli della commissione

di un crimine non era accettabile nemmeno prima; oggi, che a essere perseguiti sono anche gli

innocenti, è ancora più chiaro quanto fosse pericolosa quella logica, nonché contraria alle regole

generali dello Stato di diritto.

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