venerdì 26 settembre 2025

Le dissenting opinion: su ciò che resta della legalità costituzionale americana

In un articolo uscito sull'Atlantic, Aziz Huq, professore di diritto costituzionale all'università di Chigaco, ha spiegato l'importanza delle opinioni dissenzienti dei giudici della Corte Suprema


“Con tutto il rispetto, dissento”.

Con la consueta formula di rito, Sonia Sotomayor chiude la sua dura opinione dissenziente nella causa Department of Homeland Security v. D.V.D. del 3 luglio 2025, circa la deportazione di migranti verso paesi terzi e, in particolare, nel Sud Sudan, senza notifiche né garanzie minime di processo facendo un'evidente violazione del quinto emendamento, del diritto internazionale e delle stesse regole procedurali della Corte.

Nel linguaggio tecnico della giustizia costituzionale americana, la disssenting opinion è lo strumento con cui un giudice prende le distanze dalla decisione adottata dalla maggioranza dei giudici della Corte Suprema motivando nel dettaglio le ragioni giuridiche che impediscono di aderire al verdetto.

Nella sua opinione in dissenzo, Sotomayor accusa il Governo federale e la Corte Suprema di calpestare lo Stato di diritto. “Il Governo vuole fare una cosa concreta: deportare otto cittadini stranieri da Djibouti al Sud Sudan, dove rischiano tortura o morte”.

L’ordine di sospensione della Corte, emesso nell’ambito del cosiddetto Shadow Docket, e cioè un provvedimento urgente e non motivato nel merito, ha permesso all’amministrazione Trump di ignorare una precedente ingiunzione federale. E la Corte, scrive Sotomayor, “non chiarisce nulla, lascia il tribunale distrettuale senza alcuna guida, e consente al Governo di continuare a ignorare le fondamenta del diritto”.

La dissenting opinion della giudice Sotomayor non è isolata. Negli ultimi anni, e in particolare durante il secondo mandato di Donald Trump, le opinioni dissenzienti dei tre giudici liberal della Corte Suprema, Kagan, Sotomayor e Jackson, hanno cambiato natura e funzione: non si limitano più a esprimere un disaccordo giuridico formale ma sono diventate - come spiega Aziz Huq in un recente articolo su The Atlantic, “un grido d’allarme” - un’azione di resistenza istituzionale contro una maggioranza che “non gioca più secondo le regole del diritto costituzionale”.

Nel suo editoriale, The Court’s Liberals Are Trying to Tell Americans Something, Aziz Huq analizza come queste dissenting opinions, pur diverse nello stile, convergano su un punto: la maggioranza conservatrice della Corte non sta semplicemente interpretando diversamente la legge. Sta smantellando i presupposti stessi dello Stato di diritto.

“Le loro critiche all’incoerenza, alle contraddizioni interne e all’offuscamento dei fatti - scrive Huq - servono tutte a dire una cosa: il vecchio gioco del diritto è finito. Siamo in un altro mondo”.

Ogni giudice, come spiega Aziz Huq, ha il suo stile e si concentra su specifici elementi per denunciare la parte conservatrice della Corte Suprema.

La giudice Kagan usa uno stile giuridico più tradizionale, ma sempre più duro: denuncia una Corte che “scrive le sue regole” e compie “una presa di potere”.

Le dissenting opinioni della giudice Sotomayor colpiscono per la denuncia morale e politica: “Nessun diritto è al sicuro”, ha scritto la giudice anche in un’altra opinione sul tema della cittadinanza - “quando la maggioranza favorisce l’amministrazione per motivi politici”.


Jackson, infine, si spinge oltre, intrecciando diritto e storia: nella sua dissenting opinion sul caso dell’affirmative action, costruisce una narrazione che collega gli effetti della sentenza alle “ferite sanguinanti del nostro passato razziale”.

In un altro passaggio, commentando la stessa decisione sullo ius soli, Jackson ha definito il tentativo di Trump di riscrivere il principio della cittadinanza per nascita come una “minaccia esistenziale allo Stato di diritto”.

Ci si chiede a che cosa servano queste opinioni espresse in dissenso rispetto alla maggiornza: come spiega Huq, storicamente, le opinioni dissenzienti hanno avuto scarso impatto immediato, ma in un contesto di disgregazione democratica e sfiducia istituzionale, il loro ruolo è diventato ancora più cruciale: “Non cambieranno le menti di ideologi determinati. Ma rappresentano un’estrema difesa della ragione, dei fatti e della coerenza logica — valori sempre più marginalizzati nel nuovo ordine giudiziario”.

Quelle dei giudici liberal, oggi sono il tentativo disperato e lucido di salvare ciò che resta della legalità costituzionale.


domenica 21 settembre 2025

Colombia, le prime storiche sentenze della Jep

Le prime decisioni del tribunale speciale segnano una svolta nel processo di pace colombiano, tra ricerca di verità, giustizia e accuse di impunità

di Luisa Foti

Otto anni dopo la stretta di mano all’Avana tra l’allora presidente Santos e i vertici delle Farc-Ep (Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia – Ejército del Pueblo) in occasione della firma degli accordi di pace, la Colombia volta pagina con le prime storiche sentenze della Jep, la Jurisdicción Especial para la Paz. Non si tratta solo di un verdetto giudiziario: è un passaggio simbolico che mette alla prova la promessa di una “pace stabile e duratura” fatta nel 2016 dopo oltre cinquant’anni di conflitto armato. E anche se la firma dell’intesa non ha significato la fine della violenza – perché in diverse regioni del Paese restano attivi gruppi dissidenti delle Farc smobilitate e altre formazioni armate – quegli accordi, e ora anche queste due decisioni, rappresentano un punto di svolta in un processo di pace per cui il popolo colombiano lotta da decenni.
La Jep, il tribunale speciale, nasce proprio da quell’intesa, da quel sogno di riconciliazione e ricerca della verità che valse all’ex presidente Santos il Premio Nobel per la Pace. In un Paese che conta più di 220mila morti, quasi 7 milioni di sfollati, 45mila sparizioni forzate e tante ferite ancora aperte, la missione del tribunale speciale è duplice: restituire verità alle vittime e garantire che crimini sistematici come sequestri, sparizioni forzate, massacri e falsos positivos non restino impuniti, anche se attraverso modalità differenti da quelle tipiche della giustizia tradizionale.

Chi sono i sette condannati ex comandanti delle Farc
Sette ex comandanti delle Farc sono stati riconosciuti colpevoli di crimini contro l’umanità. La condanna, però, non consiste in pene detentive: gli ex guerriglieri sconteranno otto anni di pene alternative al carcere che consisteranno in lavori di sminamento, progetti di recupero ambientale, ricerca delle persone scomparse e iniziative di memoria e verità.
Si tratta di: Rodrigo Londoño Echeverri, conosciuto come Timochenko, come tributo al maresciallo sovietico Semyon Timoshenko; El Pastor Alape Lascarro, alias di Milton de Jesús Toncel Redondo, membro del segretariato, uomo con formazione religiosa; Joaquín Gómez, storico comandante delle Farc succeduto a Iván Ríos nel Bloque Sur; Jaime Alberto Parra Rodríguez, detto El Médico perché dottore di professione, nonché uno dei dirigenti più influenti dell’organizzazione; Pablo Catatumbo Torres Victoria, comandante del Bloque Occidental, poi negoziatore all’Avana; Rodrigo Granda Escobar, conosciuto come il cancelliere dell’organizzazione marxista-leninista per i suoi rapporti internazionali; infine Julián Gallo Cubillos, alias Carlos Antonio Lozada, comandante e poi senatore dopo il 2016.

Le reazioni

È la prima volta che l’organo giudiziario speciale, nato proprio per dare senso alla transizione, emette due sentenze di questa portata, e le reazioni non sono state unanimi – vale ricordare che lo stesso accordo di pace fu respinto con referendum.
In molti hanno criticato il modello di giustizia riparativa che non prevede neanche un giorno di carcere per chi si è macchiato di torture, violenze sessuali, sparizioni forzate e altri crimini contro l’umanità. A far discutere, inoltre, anche il fatto che i condannati non perderanno i diritti politici: due di loro, Pablo Catatumbo e Julián Gallo siedono tuttora in Parlamento, eletti con il partito Comunes, erede politico delle Farc.
«La decisione della Jep è tardiva, ma storica: impone le prime sanzioni al segretariato delle antiche Farc, in adempimento di quanto stabilito nell’accordo di pace e nella norma costituzionale» ha dichiarato Juan Fernando Cristo, ex ministro dell’interno del governo Santos che ha svolto un ruolo chiave nella negoziazione e nell'attuazione dell’intesa del 2016.
Secondo María Fernanda Carrascal, attivista e parlamentare colombiana, «La sentenza della Jep è un traguardo di un processo ancora incompiuto, in cui come Paese cerchiamo di trovare strade per guarire le ferite, scoprire la verità, avanzare nella riconciliazione e ottenere giustizia».
Vicky Dávila
, giornalista e attuale candidata per le presidenziali del 2026, ha invece accusato l’ex presidente Santos in quanto avrebbe «deviato il cammino» tradendo le vittime e dando impunità ai carnefici. Tenuto prigioniero per sette anni, unico sopravvissuto tra gli undici deputati uccisi dalle Farc, Sigifredo López, ha detto che la decisione non rispetta la sua dignità e l'ha accolta con molta delusione.
Non è mancata la reazione di Íngrid Betancourt: l’ex candidata presidenziale rapita nel 2002 e tenuta in ostaggio per oltre sei anni nella selva ha espresso tutta la sua contrarietà – «I criminali sono quelli che oggi vengono premiati; le vittime restano inascoltate» – e ha annunciato ricorsi non solo presso la Jep ma anche a livello internazionale.

La verità sui falsos positivos
Accanto alla sentenza sui vertici delle Farc, la Jep ha emesso una decisione storica anche su un altro capitolo buio: i cosiddetti falsos positivos.
Per anni, reparti dell’esercito colombiano hanno ucciso civili innocenti facendoli passare per guerriglieri caduti in combattimento, in cambio di incentivi e promozioni. Si stima che le vittime siano state circa 6.500.
Dodici ex militari del battaglione La Popa sono stati riconosciuti colpevoli. Anche per loro la pena non è il carcere ma fino a otto anni di lavori comunitari: opere di memoria per le vittime e progetti a favore delle comunità colpite. Per i gradi più alti che non hanno confessato le proprie responsabilità restano aperti processi ordinari che potrebbero portare fino a vent’anni di reclusione.

Pace imperfetta, conflitto che continua
Nonostante la riconciliazione del 2016, la Colombia non è ancora davvero pacificata. Una parte degli ex guerriglieri Farc-Ep non ha mai deposto le armi e la lotta è confluita in nuove sigle dissidenti che oggi controllano traffici e territori. Il Paese è tornato sotto attacco: imboscate, sequestri e attentati minano la sicurezza del Paese, soprattutto nelle aree rurali. Il governo Petro, che ha fatto della paz total il suo obiettivo, si trova così a trattare con attori armati frammentati e spesso meno controllabili della guerriglia originale.

Le tensioni con gli Stati Uniti
Il contesto attuale in Colombia è tutt’altro che stabile: gli Stati Uniti hanno decertificato la Colombia come Paese impegnato nella lotta al narcotraffico, accusandola di non fare abbastanza. Petro ha reagito duramente: ha ricordato le migliaia di vite colombiane sacrificate nella guerra alla droga e ha sottolineato come la cocaina sia in parte un costrutto economico dell’Occidente, un fenomeno capitalistico che criminalizza la foglia di coca, simbolo culturale e identitario per molte comunità andine.

Verità contro giustizia?
La Jep rappresenta un esperimento unico di giustizia transizionale: non una giustizia puramente punitiva, ma riparativa il cui obiettivo principale è un esercizio di verità.
Gli accordi di pace non sono stati concepiti per riempire le carceri, ma per garantire che le vittime e le loro famiglie sapessero che cosa è accaduto ai loro cari, vivi o scomparsi. Per questo l’intesa si basa su una deroga alla giustizia ordinaria per mettere la verità al centro. Una verità che, seppur dolorosa, è il fondamento di qualsiasi riconciliazione. La pace che ne deriva è imperfetta – ancora da costruire – ma è forse l’unica possibile.