mercoledì 28 maggio 2014

Palestina Mon Amour

  1. Lettera a Luisa Morgantini


    Ciao Luisa,

    è strano scrivere così: solitamente sono io a leggere simili incipit ma la cosa mi piace molto perché mi sembra un dialogo più intimo.
     
Sono stata in Palestina. È stato un grande viaggio, un viaggio che non dimenticherò mai; avrei voluto parlartene proprio quel giorno in cui ci siamo conosciute ma non ne ho avuto modo e così te lo racconto attraverso questa lettera partendo da Gerusalemme.
Distrutta e ricostruita più volte, Gerusalemme sembra aver vissuto tante vite, quelle di tutti gli uomini e le donne che l'hanno abitata e ne hanno lasciato una piccola traccia, un'eco. Da quando re David fece di questa terra la sua capitale, la capitale del regno d’Israele, è tra i luoghi più contesi al mondo, tra le rivendicazioni dei sionisti e la resistenza dei palestinesi, in cui l'assonanza tra Shalom e Salam (Aleikum) sembra essere l'unico motivo di unione e vicinanza.
Mi aspettavo di essere travolta da Yerushalaim. Mi aspettavo di respirare il silenzio in ogni angolo: in ogni tempo, devozione e rispetto. E invece Gerusalemme è spesso pervasa da una religiosità artefatta: molti pellegrini, poco propensi al raccoglimento interiore, assaltano morbosamente i luoghi sacri, trasformando il pellegrinaggio in gita turistica.
Per questo ho preferito ammirare Gerusalemme dopo il tramonto, osservando la luce che, andandosene, lascia tra gli archi le sue ombre e illumina l’essenziale: solo di sera, quando quasi tutti luoghi di culto sono chiusi e le strade svuotate, puoi accorgerti di quanto le pietre che compongono la città vecchia siano il risultato di sovrapposizioni di epoche diverse, messe lì, tutte insieme, a formare il presente.

Siamo arrivati di sabato quando la maggior parte delle attività commerciali è chiusa per lo Shabbat, la festa ebraica del riposo.
Dopo aver varcato la porta di Damasco, una delle otto porte di accesso alla città vecchia, percorrendo velocemente El Wad Ha Gai St, tra gli occhi attenti dei militari israeliani e dei loro mitra, arriviamo al Muro occidentale.
 
Chiamato anche Muro del pianto, il Muro occidentale è il muro di cinta dell'antico secondo Tempio di Salomone. Non rimane niente del Tempio se non questo muro che, da elemento architettonico di supporto, è diventato nel tempo il luogo di culto più importante per la religione ebraica.
Gli enormi blocchi di pietra bianca che formano il muro contengono, tra le loro fessure, tanti pezzettini di carta: si tratta delle preghiere dei fedeli. Questo particolare cattura la nostra vista: rimaniamo immobili per qualche secondo a osservare, continuando subito dopo ad avvicinarci piano, piano.
Io e il mio compagno di viaggio ci dobbiamo separare perché c'è una zona riservata agli uomini e una alle donne. Non è tanto la separazione a colpirmi quanto il fatto che le donne abbiano meno spazio degli uomini per pregare. 
Per ogni pizzino inserito nelle infinite fessure del muro, tra un blocco di pietra bianca e l’altro, decine di essi cadono a terra: è impossibile contenere tutte le preghiere e molte giacciono a terra. Intanto penso a cosa scrivere e osservo il procedimento: c’è un modo per lasciare una preghiera? Una cosa è certa: la gente non ha cura delle preghiere altrui e senza prestare attenzione alle conseguenze, le infila dove capita, lasciando cadere le altre. Pur avendo la borsa sempre piena di fogli, carte o taccuini, non ho neanche un pezzetto di carta. Così, prendo un fazzolettino, e scrivo: c’ho un pensiero ricorrente da molti anni e penso che sia la preghiera giusta. Così sia. Scelgo accuratamente il posto in cui inserirla in modo che nessuna delle altre possa cadere.
Intanto guardo i fedeli allontanarsi mentre camminano all’indietro: è il solo modo per andare via senza dare mai le spalle al muro.
 
Osservo quei blocchi di pietra di cui è composto il muro. Non ci vedo niente se non dei cespugli che crescono ignari di crescere proprio lì, in quel muro, come fosse un banalissimo muro, come se le piante dovessero far caso a dove venire al mondo. 
Lì, ai piedi del muro, vedo gli ultraortodossi: di notte e di giorno pregano e lo fanno con le parole e con il corpo: mentre recitano le preghiere si muovono, ondeggiando avanti e indietro.
 Sono loro a destare in me la maggiore curiosità.
Gli ultraortodossi vivono nella società israeliana ma, di fatto, separati da essa: appena fuori dalla città vecchia, a pochi passi dalle mura, sorge una zona della città quasi inaccessibile. Tappezzato da manifesti che invitano i turisti a non attraversare quel quartiere se non vestiti in maniera pudica, il quartiere di Mea Shearim è popolato dagli ebrei haredim di lingua yiddish, trasferitisi a Gerusalemme alla fine del XIX secolo.
Durante lo shabbat, in particolar modo, i turisti vengono invitati a non scattare foto, a non fumare, né alle coppie è permesso di camminare mano nella mano o baciarsi. Si rischia infatti non solo l’aggressione verbale ma anche il lancio di pietre.

A differenza dei palestinesi, gli ebrei ultraortodossi non danno molta confidenza, sono austeri e si vestono quasi tutti allo stesso modo: il nero delle giacche e dei pantaloni, si accosta a una camicia bianca su cui scendono due boccoli fatti crescere all'altezza dalle basette, ai due lati del viso, e alla Kippah, secondo i dettami della Torah. Sembra che la loro chiusura tradisca superiorità e distacco ma io ci vedo una spiritualità riservata.
Il governo israeliano ha di recente sospeso il sussidio economico che permetteva ai giovani studenti ultraortodossi di non assolvere all’obbligo di leva: la legge che glielo garantiva è stata dichiarata incostituzionale dall’Alta Corte di Giustizia israeliana. Da allora la Knesset avrebbe dovuto trovare una soluzione a questo problema, considerato ormai dall’opinione pubblica come un privilegio ingiustificato.
Nello Stato d’Israele tutti devono fare il servizio militare, anche le donne. È obbligatorio per ebrei e drusi mentre per gli arabi con passaporto israeliano costituisce una scelta. È un dovere oltre che un onore servire una patria la cui esistenza è messa costantemente in pericolo. Le armi diventano oggetti di vita quotidiana. Chi vive qui vede decine di mitra al giorno. Tutti uguali, appesi alle spalle dei militari che li indossano come fossero oggetti ordinari mentre mangiano un gelato o indossano una borsa griffata. C’è una tragica normalità nel portare le armi e compiere, allo stesso tempo, gesti quotidiani. È una educazione alla guerra. 
Se l'esistenza di Israele è messa in pericolo, allora la guerra più che un'eccezione è una costante minaccia: molti Stati non riconoscono Israele che con la forza si è insediato lì solo perché milioni di anni fa qualcuno diceva che quella fosse la sua terra promessa. Esistono decine di risoluzioni Onu contro gli atti di Israele, soprattutto contro la costruzione illegittima di un muro che non rispetta i confini tracciati dagli accordi internazionali del 1967, l'anno in cui venne disegnata la famosa Green line che separa la Cisgiordania dallo Stato d’Israele.
Dopo gli attentati della seconda intifada, per motivi apparentemente di sicurezza, comincia a concretizzarsi un'idea: lì dove si snoda il confine tra Cisgiordania e Israele, si deve costruire una barriera di separazione di cemento con torri di controllo in modo da prevenire altri attentati. Ma questo muro, alto 8 metri per 732 km di lunghezza, invece di attenersi ai confini, entra nei territori palestinesi inglobando gli insediamenti ebraici illegittimamente costruiti, e separando i pozzi d’acqua dai terreni.
Operazione sicurezza - come ha voluto precisare il Premier israeliano proprio durante l’incontro con il Papa - o allargamento illegittimo dei territori?
L’abuso è talmente evidente che anche la Corte israeliana ha ordinato di modificare il tracciato del muro nella parte in cui occupa i territori palestinesi.
La comunità internazionale, però, sta a guardare.
Il muro di separazione è un’esplosione di colori. Solo l’arte poteva rendere accettabile una insulsa barriera di cemento: le immagini di Arafat, Marwan Barghuthi, Leila Kaled si accostano ai famosissimi disegni di Banksy. Sì, è una misera consolazione ma diventa una potentissima arma: la voce che raccoglie la rabbia dei palestinesi, dopo quell'esodo che è un viaggio che ha senso solo in attesa del del ritorno.
Betlemme
Ci spostiamo a Betlemme dove visitiamo i due campi profughi più importanti della Cisgiordania, l’Aida e il Dheishesh Camp. 
Arrivati al check point Betlemme 300, prendiamo un taxi per visitare i posti più importanti in poco tempo. È una giornata molto calda e io mi godo il vento sui capelli affacciandomi al finestrino del taxi. Guardo incuriosita e ritrovo cose familiari. Il paesaggio palestinese mi fa sentire a casa perché mi ricorda le case lasciate a metà della mia Calabria, dove il primo piano rifinito lascia spazio agli altri piani lasciati a metà, spogli, fatti solo di mattoni grezzi. Il microcosmo dei campi profughi riproduce gerarchie rintracciabili ovunque: ci si conosce tutti e si capisce subito a chi si deve portare rispetto e chi invece cammina passando inosservato. Il dolore non li ha resi tutti uguali, anzi ne ha dilatato le differenze. Al Dheishesh Camp ci ritroviamo a festeggiare la liberazione di un detenuto palestinese. Sono tutti pronti ad accoglierlo con sciarpe e bandiere. La sua casa si è trasformata nel punto di arrivo di una maratona, il traguardo di una lunga corsa. Al nostro arrivo, c'è chi mostra maggiori resistenze a un sorriso e chi invece fa di tutto per comunicare attraverso un traduttore online. Basta poco però per farci sentire a nostro agio: dopo qualche sguardo sospettoso e freddo, ci riservano una accoglienza inaspettata.
Il prigioniero appartiene al Fronte popolare per la liberazione della Palestina, la stessa organizzazione di Leila khaled, l
a pasionaria famosa per essere stata la prima donna ad aver partecipato al dirottamento di un volo per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla questione palestinese.
Il Dheishesh camp, il più grande di tutta la Cisgiordania, è stato costruito nel 1949 per ospitare i profughi fuggiti durante la guerra arabo-israeliana. Il conflitto mediorientale è ormai una certezza tanto che l’Alto Commissariato per le Nazioni Unite per i Rifugiati, UNHCR, ha creato un’agenzia solo per questa emergenza. Oggi non ci sono più le baracche iniziali e il campo è pieno di abitazioni arrangiate tanto da sembrare un quartiere popolare più che un campo profughi.
Ad alcuni fa piacere condividere con noi il tempo di un saluto o di uno scambio di poche parole in inglese: “Where do you come from?” ci chiedono di continuo, in un inglese segno del lascito del mandato internazionale dell'Inghilterra. Sorridono alla nostra risposta, aggiungendo il loro welcome pronunciato con la o chiusa.
Probabilmente i parenti desiderano godersi in intimità quell’uomo che ha fatto ritorno a casa. Gli stringiamo la mano ma lui è evidentemente perplesso, non parla inglese e non capisce perche siamo lì a festeggiare con loro, qualcuno forse gli spiega che siamo due turisti. 
Ci sono circa trenta gradi: la loro primavera è la nostra estate. Sono talmente accoglienti che pur non avendo niente non vogliono farci pagare nulla, così come in una piccola bottega dove ci fermiamo a prendere un tè.
  
Mentre chiacchieriamo con alcuni ragazzi, la nostra presenza genera la curiosità di chi abitualmente frequenta quel posto; c’è chi sbircia, chi saluta e chi si ferma, come un ragazzo sulla ventina: terzo anno di scienze politiche, si è fatto qualche mese di carcere per la sua attività politica contro l'occupazione israeliana. La maggior parte dei palestinesi, se non ci è finito direttamente, ha almeno un parente nelle prigioni d'Israele. Mi fermo a comprare una bottiglia d’acqua prima di lasciare il Dheishesh Camp e vedo passare un ragazzino il cui volto sembra essere rappresentato nel murale accanto a lui: il ragazzo si ferma proprio accanto al murale. 
Vi avvicina un uomo e, giustificando quell'impressionante somiglianza, ci spiega che si tratta dello zio del ragazzo. Purtroppo non riesco a prendere nessuna informazione su quell'uomo rappresentato sul muro, se non che fosse un palestinese nato nel 1978, come si legge dalla data riportata sul murale, morto sicuramente per la causa del suo popolo. Quel ragazzino, scolpito nella mia testa, si ferma proprio davanti a quell'immagine e con l’indice tocca la guancia del martire, come la più forte delle sue certezze, il più duro dei giudizi: "Chi è stato a ucciderlo?"  
Tutto è racchiuso in pochi secondi. 
Nablus e Jenin
Nablus è tra i centri più grandi della Palestina: probabilmente è seconda solo a Ramallah, quartier generale della Palestina, per quanto i palestinesi considerino Gerusalemme Est la loro capitale.
Nablus è famosa in tutto il mondo per le sue fabbriche di sapone, come quella dei fratelli Toukan. I pochi operai dediti al mescolamento del magma di soda caustica e olio di oliva e all’impacchettamento di ogni singolo cubetto di sapone, ci hanno permesso di farci visitare la fabbrica: tra le saponette accatastate a formare torri e torri di sapone, un uomo in ginocchio, quasi nascosto, dedica all’impacchettamento dei cubetti quattro movimenti ripetitivi in modo da ricoprire ogni saponetta con una carta 
leggerissima.
Andare a Jenin è stato soprattutto vedere il Freedom Theatre: a nord della Cisgiordania esiste questa piccola comunità dove la resistenza è fatta anche attraverso il teatro. Una “vibrante e creativa comunità artistica", come si legge sul sito della scuola di Teatro che dal 2006 opera nel campo di Jenin per permettere ai profughi di emanciparsi.
“Una ragione per vivere più che una per morire da martiri”, come spiega un ragazzino nel video di presentazione del Teatro della libertà. Quando arriviamo, purtroppo, il teatro è quasi deserto, c'è solo una persona che si offre di spiegarci un po' di cose sul teatro: ci parla degli spettacoli, della scuola teatrale e di come un loro vecchio allievo abbia partecipato a un film candidato agli Oscar come miglior film straniero, “Omar” sorpassato dalla “Grande bellezza”. Prima di salutarli gli dico che ti conosco, Luisa: “Quando la Palestina diventerà uno Stato a tutti gli effetti Luisa Morgantini avrà qui la cittadinanza onoraria!” 
– ci dice l’uomo congedandosi – “Luisa ha fatto tanto per questo teatro soprattutto dopo l’omicidio di Juliano Mer-Khamis”, una delle principali voci della comunità. Secondo quanto riportato dalle agenzie di stampa, Juliano sarebbe stato ucciso da un uomo incappucciato il 4 aprile del 2011. Era un arabo israeliano, attivista, nato da una ebrea comunista - la fondatrice del teatro delle pietre, il padre di questa comunità  e da un palestinese. Era il cuore di questa terra "al cento per cento israeliano e al cento per cento palestinese" come amava definirsi. Ed è forse tutto quello da cui si può ripartire per ricucire gli strappi del conflitto.
Hebron
Quando ti ho inviato quel messaggio, Luisa, mi trovavo a Hebron, la spettrale cittadina trasformata dalla guerra per rivendicare territori e nuovi spazi. 700 coloni si sono posizionati all’interno della cittadina facendo chiudere più di duemila negozi palestinesi. Nessuno smetteva di ricordarcelo camminando tra le saracinesche arrugginite, sotto lo sguardo immobile dei militari israeliani in grado solo di muovere le loro armi senza dare segnali di umanità. Qui la storia sembra prendersi gioco delle cose: proprio Hebron, la città che unisce i devoti delle tre religioni monoteiste al mondo, essendo lì seppelliti i tre patriarchi comuni a cristiani, musulmani ed ebrei, è la città più divisa. Quelle poche persone che ho visto, più che in carne ed ossa, sembravano ombre, camminavano come fossero i resti di se stessi, brandelli, senza più speranza, tanta era la sensazione di fine che vedevo nei loro sguardi. Così come un anziano, così vecchio da camminare quasi totalmente ricurvo da non vedere più il cielo, con la faccia distrutta dal tempo e dal sole che, senza staccare la sua mano dalla mia, ci ha portati in giro per la città a vedere ciò che il conflitto e tanti anni di occupazione israeliana hanno lasciato: macerie e disperazione.
Mar Saba  
C’è un posto nei pressi di Betlemme, il monastero greco-ortodosso di Mar Saba che nasce nel terreno arido di questi posti, nella valle di Kidron. Ne è proibita l’entrata alle donne perché il Santo Saba, le donne, non ce le voleva. Si tratta di uno dei monasteri più antichi al mondo posizionato a est di Betlemme.
Mentre il mio compagno di viaggio si avventura a fare foto panoramiche salendo su per la montagna, io mi fermo e mi dico che quel percorso non fa per me. C’è un sole impossibile e io e il tassista, Murad, ci sediamo ad aspettare. Seguo con gli occhi il mio compagno di viaggio, lo perdo di vista, poi lo rivedo e mi rassicuro: è arrivato in cima e immagino sia stanchissimo. Nel frattempo mi rilasso e aspetto. Murad mi sorride, mi fa un sacco di domande e poi, dopo un po’ di silenzio passato a sopportare l'afa mi dice: “Non sono felice” 
– e rimango spiazzata per quella rivelazione improvvisa fatta a me, una perfetta sconosciuta.
Si toglie gli occhiali: ha gli occhi grandissimi e cadenti, e tanti muscoli come se volesse nascondere la dolcezza nella forza fisica. Io rispondo guardandolo negli occhi, lui continua a parlare. Mi dice anche che non ha mai conosciuto una donna e io non riesco a crederci. “Se guardi una donna poi te la devi sposare e per sposarti devi avere tanti soldi”.
"Mi piacerebbe viaggiare" – dice ancora guardando il cielo terso e io me lo immagino seduto su un aereo in giro per il mondo a realizzare i suoi sogni. Murad ha da poco i documenti palestinesi; prima sul suo passaporto c’era scritto Giordania. La Palestina, fino al 29 novembre 2012, non esiste per il diritto internazionale: con la storica risoluzione 67/19 acquisirà lo status di stato osservatore, quella condizione giuridica che ora gli permette di partecipare alle attività delle Nazioni Unite ma senza diritto di voto né di proposta.
Il vivere quotidiano in Palestina sembra essere difficile ma provo lo stesso a dirgli che se non è felice deve poter credere di cambiare la sua vita. Lui è infastidito, non ci crede. Non so più cosa dire. Cambiamo argomento, torna il mio compagno di viaggio e continuiamo il nostro giro fino all’Herodium, la suggestiva collina a forma di tronco di cono su cui Erode fece costruire una fortezza.
Salutiamo Murad, ci abbracciamo e lui mi lascia una cartolina che riproduce un disegno del muro di separazione: è un invito alla pace “make hummus not wall”.
Torniamo verso Gerusalemme. Il nostro viaggio sta per terminare.
Il ritorno
“Sono stata qui con mio marito ventisei anni fa, avevo la tua età” – mi dice in inglese una gentile signora polacca, mentre si rilassa in uno dei tanti divani dell’ostello che si affaccia sulla Porta di Damasco, a Gerusalemme.
Vuol parlare e mi guarda con gli occhi spalancati di chi sembra riconoscersi in me. Io invece non vedo l’ora di dormire. Il viaggio è stato pesante e ha tagliato molte delle mie ore di sonno. Ormai sono proiettata al ritorno, a ciò che mi attende nella quotidianità di Roma, al mio dottorato e alla tesi ancora tutta da scrivere. Ripenso ai sorrisi delle bambine del Dheishesh camp mentre giocano a calcio. E non riesco a fare altro...
Mi affaccio al balconcino dell’ostello per pensare a cosa sto lasciando. Mi viene la voglia di uscire per tornare su una delle tante terrazze di Gerusalemme, una terrazza a cui mi ero 
affezionata, per portare con me un'immagine definitiva della città. Non ho dubbi: l'immagine è la Cupola della Roccia.   
La Cupola l’avevo ammirata da più posti: l’avevo vista da vicino, seduta sugli scalini della bilancia delle anime dalla Spinata delle Moschee e dal Monte degli Ulivi, dove avevo visto tutta la Città Santa, con la Cupola della Roccia, sullo sfondo, ad autenticare e far brillare quel panorama.
Così mi decido e vado lì, proprio su quel terrazzino per indirizzare il mio sguardo verso il Muro del pianto, oltre il quale splende l’oro della Cupola; mi siedo senza fare niente se non osservare e scattare qualche foto.
Il viaggio è quasi finito. Prepariamo i bagagli con la musica di Amarcord in sottofondo che già mi parla di quel viaggio come di un ricordo. Sono triste. La riproduzione casuale dei brani probabilmente non è affatto casuale. Ho già nostalgia.  
Rientriamo in Italia, io senza valigia, ahimè: il mio bagaglio smarrito nella tratta Tel Aviv - Belgrado mi ha fatto pensare che, probabilmente, qualcosa di me, qualcosa del viaggio, voleva rimanere lì.  
Ciao Luisa, grazie. Ti saluto nell’attesa di rivederci presto.

Luisa

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