martedì 2 settembre 2014

Ramallah International Camp - Rifugiati nella nostra terra - Palestina on my mind




Partenza

Il taccuino è in carta riciclata, la copertina è rossa. Lo avevo comprato nella speranza di utilizzarlo proprio in un viaggio; era riposto in un cassetto e forse lui stesso sognava di diventare un diario di viaggio. E così è stato.
L’orologio segna le sei del mattino. La piccola valigia è piena, stracolma e la cerniera cerca di raccogliere tre maglie, due pantaloni e un vestito. Finalmente, dopo 3 mesi, ritorno in Palestina.

“Lei è in ritardo ma potrebbe partire senza valigia. Il cancello è ancora aperto” – mi spiega in un italiano perfetto la donna israeliana addetta alla sicurezza all'aeroporto di Fiumicino. Prima di partire, però, devo subire un interrogatorio sul motivo del viaggio.
Entrare nello Stato di Israele non è così semplice e le autorità potrebbero addirittura vietarne l'ingresso.
“Cosa andrà fare nella custodia della terra santa?” – continua la donna dopo aver osservato il mio passaporto, sfogliando con rara attenzione ogni singola pagina.
“Visiterò la terra santa e aiuterò i francescani della comunità di Ein Karem per la realizzazione di alcuni progetti” – rispondo raccontando una verità parziale. 
“Quindi andrà a fare volontariato… ma lo sa che c’è la guerra?" – mi chiede con il telefono appoggiato sull'orecchio e il collo inclinato, in attesa che qualcuno risponda alla sua telefonata. Parla un po’. Riattacca.
“Mmm voli con un’altra compagnia” – conclude consegnandomi il passaporto.

Le chiedo spiegazioni ma congela risoluta ogni mia richiesta. Io desisto: non ho voglia di litigare e sono molto arrabbiata perché, probabilmente, non parteciperò al campo di volontariato a Ramallah.
Dopo 12 ore di attesa, e dopo aver quasi perso le speranze, riesco ad acquistare un altro biglietto per Tel Aviv. Il volo prevede una sosta ad Atene; lì attendo con due amici incontrati in aeroporto e diretti a Beirut, Giovanni e Francesco, il volo per Tel Aviv. Andranno anche anche loro a fare un campo di volontariato in Libano. Passiamo così tante ore a chiacchierare che quasi rischio di nuovo di perdere l'aereo. Dopo il decollo, con Atene alle mie spalle, il mio sguardo è rivolto verso la Palestina. All’aeroporto di Ben Gurion temo nuovamente domande scomode ma a parte qualche strana domanda –come definita dall’uomo preposto al controllo alla frontiera circa il nome di mio padre – tutto liscio. Tiro un grande respiro di sollievo: finalmente sono arrivata a Tel Aviv, è notte fonda. Attendo i primi compagni di viaggio per raggiungere Ramallah, arriveranno all'alba.

Ramallah
La Cisgiordania non è l'inferno di Gaza ma il muro contribuisce a creare un’altra prigione a cielo aperto. La barriera di separazione israeliana, lunga circa 732 chilometri, è tra le prime cose che vedo dopo aver lasciato l’aeroporto di Tel Aviv con uno sherut, un taxi collettivo preso insieme ai primi compagni di viaggio.
Il muro viene illuminato dalla luce leggera delle prime ore del giorno. Il sole tocca il cemento in modo così naturale che mi sembra quasi normale che un muro divida un Paese e i suoi abitanti.
Rivedo quel muro dopo tre mesi mentre i miei compagni di viaggio, Erica, Manuel, Laura, Angelica e Giovanni, guardano attenti al di là del finestrino ciò che vedono per la prima volta e di cui avevano solo sentito parlare.
Sembra esserci un rappresentante per ogni parte dell'Italia: Erica viene dalla Sardegna, Manuel è abruzzese, Laura è di Milano, Angelica è di Roma; Giovanni ed io rappresentiamo l'estremo sud con la Sicilia e la Calabria.

Lungo il tragitto, incrociamo uno dei check point più famosi della Cisgiordania, Qalandiya, che separa Gerusalemme da Ramallah. Solo i palestinesi che hanno particolari permessi possono attraversarlo e, in generale, agli abitanti della West Bank ne è proibito il transito.
Riconosco immediatamente Qalandiya non appena i miei occhi incrociano il graffito di Arafat, affiancato dal disegno di Marwan Barghouti sulla barriera di separazione.
Qalandiya è anche il nome del campo che sorge alle porte di Ramallah e che accoglie parte dei profughi che furono costretti ad abbandonare le loro case nel 1948 durante la Nakba, letteralmente, "la catastrofe", l’esodo palestinese causato dalla prima guerra arabo-israeliana.
La nostra base si trova nei pressi della tomba di Jasser Arafat. Si tratta di un mausoleo dedicato al leader di Al-Fatah, la cui torre alta undici metri ricorda il giorno della sua morte, l'11 novembre 2004.
A pochi metri è possibile raggiungere anche il museo di Mhammud Darwish, il poeta palestinese che più di tutti è riuscito a cantare con splendidi versi la tragedia palestinese, trasformando la Nakba da dolore privato a dramma collettivo.
Ramallah, nei fatti, è la capitale della Palestina. È qui che ha sede il Consiglio legislativo, è qui che hanno sede le rappresentanza diplomatiche e i vari ministeri, anche se è Gerusalemme Est la vera capitale nell’orizzonte più bello del sogno palestinese.
Al centro ricreativo del comune di Ramallah che sarebbe diventata la nostra casa per quei giorni, ci aspettano i due responsabili del campo, Asad, vulcanico e solare, Sana, donna palestinese il cui velo incornicia un sorriso costante, e Luisa Morgantini. Presidente di Assopacepalestina che da tre anni organizza questo campo di lavoro con il Comune di Ramallah, Luisa è stata vicepresidente del parlamento europeo e da anni si batte per la causa palestinese con una passione smisurata. 

Luisa è appena tornata da Gerusalemme dove ha atteso il corpo di Simone Camilli da Gaza, l’unico reporter italiano rimasto ucciso nella striscia. “La madre di Camilli era sconvolta, è stato bruttissimo” – ci confida con evidente commozione per quel fotografo che lascia una compagna e una bambina di tre anni.
Secondo quanto riporta Rosa Schiano attraverso Nena Angency News, sarebbero già 17 i giornalisti uccisi nell’operazione Margine protettivo.
Luisa ci spiega che cosa faremo, avvertendoci che l'operazione militare a Gaza ha reso necessario modificare il programma del campo. In ogni caso, andrermo a trovare i Ragazzi contro gli insediamenti di Hebron (Youth Against Settlement, YAS), gruppo di giovani attivisti con cui Assopacepalestina collabora da anni per la riapertura di Shuhada street, e il comitato popolare di Bil'in che si batte contro la costruzione del muro nel loro territorio, violando il confine tracciato dalla Green Line.
Il primo giorno si lavora sin dalle 8 del mattino. Durante la colazione Asad ci spiega che cosa fare: l'obiettivo è mettere le casse d’acqua una sopra l’altra, creando due o tre livelli, impacchettare tutto e spedirlo a Gaza. A pranzo prendo una copia del programma. Me ne capita una in arabo: rido perché è, ovviamente, incomprensibile ma mi affascina parecchio come tutte le cose inaccessibili. Guardo con interesse i miei compagni palestinesi leggere quelli che a me sembrano disegni, con la stessa intensità con la quale, quando ero piccola, osservavo mia sorella leggere, alzandomi sulle punte per arrivare al livello della scrivania e sbirciare le pagine del libro. Credevo stesse inventando tutto, che mettesse un po’ della sua fantasia nel pronunciare suoni a caso senza collegamento con le parole scritte nei libri. 
Il programma del campo prevede oltre al lavoro di preparazione dei pacchi di generi alimentari, acqua e vestiti per gli sfollati di Gaza, anche incontri con altri gruppi della resistenza all’occupazione israeliana e la visione di alcuni film "Budrus" o "five broken cameras", docufilm sull'occupazione israeliana.

Hebron

Hebron è tra le città più antiche del mondo, dopo Gerico e Varanasi. Scesi dall'autobus ci incamminiamo per raggiungere la sede degli YAS, gli attivisti di Hebron che ci accolgono offrendoci il pranzo mentre Issa, il fondatore del gruppo, ci racconta di come dal 1994 la più importante strada della città, Shuhada Street, sia stata chiusa limitando la libertà di movimento dei palestinesi.
Per proteggere i coloni che si sono stabiliti lì, Israele ha imposto ai residenti di Hebron sgomberi forzati, coprifuoco, la chiusura di molti negozi, blocchi stradali, l’assoggettamento alla legge militare, e la detenzione senza accuse formali. Circa 13.000 palestinesi hanno così dovuto lasciare le loro case.
Issa Amro è un attivista e ha fondato diversi gruppi non violenti. Riceve periodicamente minacce di morte dai coloni ed è stato ripetutamente arrestato in regime di detenzione amministrativa, lo strumento che permette ad Israele di limitare la libertà personale degli attivisti e di tutti coloro che protestano contro l’occupazione e la violazione dei diritti umani, senza una formale accusa.
La sede dei YAS confina con un edificio occupato proprio dai coloni. Tra le kippah dei bimbi che giocano in cortile, vediamo i soldati israeliani che alla nostra presenza  si posizionano quasi a nascondere l’interno dell’abitazione più che a proteggere la casa: proprio quella è un'abitazione palestinese, sottratta con la forza ai palestinesi e assegnata ai coloni.
Pur essendoci già stata, Hebron è sempre scioccante per l’assurdità dei check point all’interno della città In tutto il resto della Cisgiordania, i check point si trovano al di fuori dei centri abitati: Hebron, i check point, ce li ha al suo interno.
Abd è di Hebron e ci porta nella sua casa, a Shehuda street. Proprio lì, il negozio di suo padre è stato chiuso, così come tutti i negozi della via e su molte delle saracinesche è stata disegnata, a sfregio, la stella di David. Il cortiletto dell'edificio è ricoperto da una rete metallica per evitare che i coloni, tra i più estremisti della West Bank, possano lanciare pietre.
Una volta varcato l’uscio di casa, Abd può andare a sinistra senza incontrare nessun check point, ma se decide di andare a destra sa che dovrà immediatamente superare i controlli militari: è come se per andare al supermercato voi doveste mostrare i documenti e farvi perquisire.

Valle del Giordano

La Valle del Giordano è un vastissimo territorio della Cisgiordania che rientra quasi interamente nella zona C, zona sotto controllo civile e militare israeliano. È quindi un territorio, di fatto, sotto l’occupazione israeliana.  Un tempo era territorio giordano ma nel 1948 è stata invasa da Israele per poi tornare a far parte del territorio palestinese. Con gli accordi di Oslo quella Valle, per il 95%, è diventata zona C.
“Gli accordi di Oslo sono stati i peggiori accordi della storia per la Palestina” – ci spiega il nostro amico di origini beduine che ci fa da guida.
Solo il 5% della Valle è zona A, zona soggetta al controllo palestinese e B, a controllo misto.
I palestinesi della Valle del Giordano hanno grandissime difficoltà ad accedere all’acqua: ogni palestinese ha diritto a 10 litri al giorno a fronte di 200/300 litri a cui ha diritto un cittadino statunitense ed europeo, nonostante l’OMS abbia stabilito intorno a 100 litri la dose che ogni persona dovrebbe avere per vivere. “Le nostre condizioni di vita sono assai più difficili rispetto a chi abita nei campi profughi. Vivere con 10 litri d’acqua al giorno è quasi impossibile: per costringerci ad andarcene, gli israeliani ci rendono la vita difficile” – commenta il giovane palestinese.
“Lì dove vedete zone verdi – ci dice la nostra guida mentre indica con la mano le immense distese di terra piene di palme per la produzione dei datteri – ci sono occupazioni israeliane. Le altre, non coltivabili, sono palestinesi”.
È qui che la campagna per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni contro Israele deve essere giocata: secondo i dati forniti da Bds, il boicottaggio dei prodotti israeliani delle Valle del Giordano sta raggiungendo molti risultati, come ci spiega la nostra guida che, alla fine del giro, ci invita a pranzo.
Riso, pollo e spezie a volontà. Dall'abitazione della nostra guida, il panorama ci emoziona: la Giordania è all'orizzonte.

Centro melchita di ricamo a Ramallah

“Vuoi venire a trovare alcune amiche di mia zia?” – mi chiede Erica. “Si tratta di due donne italiane e una francese che aiutano le donne palestinesi a vendere i loro prodotti”.
Così un pomeriggio ci ritroviamo a bussare al campanello del Centro Melchita di Ramallah, in cui tre donne aiutano trecento donne palestinesi provenienti da otto villaggi dall’area di Ramallah a vendere i loro prodotti: borsellini, borse, orecchini, fermagli, vestiti.
Ricamano a casa e al centro ci vanno solo per consegnare i prodotti.  È Helene, la francese, a coordinarle. Ci offrono una limonata e chiacchieriamo per almeno un'ora.
“Non c’era neanche stata la guerra dei sei giorni quando sono arrivata. Son venuta qui che non conoscevo neanche una parola di Arabo. Ho lavorato come maestra in moltissimi villaggi della Cisgiordania. E poi abbiamo avuto l’idea di questo centro ricamo” – spiega la più loquace delle tre.
Ci raccontano di Zia Agnese, la zia di Erica, che partì come missionaria e dopo una laurea in sociologia in Italia studiò arabo in Giordania.
“Tua zia ha avuto una grande forza ad andarsene in Giordania da sola. Ti ha mai raccontato di quando studiava mentre giocava a corda nella sua stanza ad Aqaba?” – chiede la donna ad Erica che non conosceva affatto questo particolare. "Lo chiederò a zia Agnese. Vi porto i suoi saluti". 
Una corda che roteando crea tanti cerchi attorno a Zia Agnese, così me la immagino, mentre si affacciava alla finestra guardando Aqaba.
Si chiude il cancelletto dietro di noi mentre le donne continuano a salutarci. Chissà se le rivedremo un giorno.

Bil’in
Tra i gruppi della resistenza palestinese, incontriamo il comitato popolare di Bil'in.
Bil'in è un villaggio a pochi chilometri da Ramallah, si tratta di uno dei novantadue villaggi palestinesi ad aver ha subito la costruzione del muro di separazione.
All'arrivo, veniamo accolti da un uomo con una maglia grigia con impressa la faccia di Arrigoni. È un grande benvenuto. Vittorio è un eroe da quelle parti.
Da quando è stato costruito il muro che ha tagliato a metà il villaggio, gli abitanti di Bil’in organizzano una protesta non violenta contro la sottrazione del 60% delle loro terre. La costruzione della barriera di separazione israeliana è stata fatta al di là della Green Line, la linea di separazione che segna il confine tra la West Bank e lo Stato di Israele. La costruzione, ovviamente, è illegale non solo per il diritto internazionale ma anche per la stessa legge israeliana, così come riconosciuto nelle battaglie legali intraprese dal comitato di Bil’in.  
Qui un soldato israeliano ha perso un occhio a causa del lancio di una pietra e ci sono stati diversi feriti palestinesi e, purtroppo, ben due morti palestinesi: Bassem Abu Rahmeh, un uomo di 29 anni morto dopo essere stato colpito al petto da un candelotto lacrimogeno, come documentato anche nel film Five broken cameras e Jawaher Abu Rahmah, una donna di 36 anni.
Con il passare del tempo la protesta ha attirato l’attenzione dei media: oltre alle tante battaglie legali, gli attivisti hanno iniziato a trasformare gli oggetti di guerra come lacrimogeni e le bombe a mano in messaggi di pace: ogni lacrimogeno raccolto è diventato un vaso per i fiori.
Come da accordi con lo stesso coordinatore del comitato di protesta di Bil’in, ci mettiamo a raccogliere i lacrimogeni sparsi nel terreno, che divide la loro terra dal muro.
C’è uno spazio di terra, sorpassato il quale, non vige più la legge civile ma quella militare: in questo spazio, i soldati sono autorizzati a sparare in ogni momento. Solitamente non lo fanno, come ci dicono rassicurandoci prima di partire.
Ma non sono giorni qualunque, c'è molta tensione per via dell'operazione militare israeliana Margine Protettivo. Dopo settantadue ore di tregua, il 20 agosto si ricomincia a bombardare.
La temperatura è alle stelle, il terreno è pieno di alberi e ai loro piedi i frutti dell’occupazione: lacrimogeni, bombe, proiettili.
Così come ci è stato chiesto, insieme agli altri volontari, iniziamo a raccogliere e riporre i lacrimogeni esplosi nel sacco bianco affidatoci dall’uomo con la maglia di Arrigoni.
Improvvisamente, succede qualcosa: vedo i soldati israeliani posizionati sul muro con le loro armi puntate.
Ci capisco poco, capisco solo la paura e l'istinto di correre, seguendo gli altri. Abbandono il sacco pieno di lacrimogeni per correre più in fretta. Continuo a correre. 
Nessuno di noi sa esattamene cosa sta succedendo. Ci lanciano lacrimogeni e bombe di cui non conosciamo l’entità, né la reale capacità di ferire o uccidere.
Alla fine riusciamo a raggiungere una distanza relativamente rassicurante e ci posizioniamo nei pressi dell’autobus. Tutti con il fiatone e una gran paura. Sconvolti. Tutto quello che è successo è inaspettato. 
Il coordinatore è abituato a queste cose: mentre noi corriamo lui rimane indietro e si alza la sua maglia scoprendo il ventre e alzando le mani, mentre la faccia della stampa di Arrigoni sparisce nella schiena. Vuole dire ai soldati che non stiamo facendo niente di male e che vorremmo continuare a fare quello che stiamo facendo, pacificamente.
I militari non ne vogliono sapere e lanciano altri lacrimogeni. I nostri amici palestinesi lanciano qualche pietra, non riescono a trattenersi. Non possiamo più proseguire e tutto il nostro programma va in fumo.
I racconti di tutti, di quei minuti di terrore s'incontrano quando ci ritroviamo sotto gli ulivi ormai al sicuro. C'è chi ha gli occhi rossi e gonfi per aver pianto, chi invece ride nervosamente, chi vuol parlare, chi racconta di essersi ritrovato a correre senza sapere perché. Protestiamo anche per la reazione di chi ha tirato le pietre. Siamo tutti sconvolti. Il viaggio di ritorno ci vede tutti silenziosi. Nessuno, come di consueto, canta sull'autobus. Niente Bella Ciao, né Unadikum, la canzone dedicata ad Arrigoni, solo silenzio. 

Bds, Barghouti - Walls di Hafez Omar

Di ritorno dall’ennesima escursione, viene a trovarci Omar Barghouti una delle voci più autorevoli della campagna internazionale Bds e Hafez Omar, artista che porta avanti la lotta per la liberazione della Palestina attraverso i suoi poster, soprattutto dopo l’arresto del fratello detenuto per motivi politici per circa 10 anni nelle carceri israeliane.
Hafez ha creato una pagina su facebook chiamata “Walls” in cui si possono vedere tutte le sue opere tra le quali la famosa immagine di un detenuto anonimo con impressa sulla maglia la scritta “israeli prison administration”.

Angelo Frammartino

“Quindi tu sei già stata qui” – mi chiede Daniela sedendosi accanto a me sull’autobus verso Ramallah di ritorno dalla Valle del Giordano. Ha capelli lunghissimi e ricci che raccolgono due occhi teneri. Muove le mani con intensità per farsi spiegare meglio e aspetta una mia risposta.
“Sì, tre mesi fa, circa…” – le rispondo.
“Io sono qui per un motivo preciso. Sarei dovuta venire prima ma dopo la laurea ho vissuto in Russia, in Polonia e … ” – spiega quasi giustificandosi.
“Forse era solo adesso il momento giusto”, le dico interrompendo la durezza del suo giudizio.
“Qui è stato ucciso un mio amico, si chiamava Angelo”.
La mia loquacità si placa. Cambia tutto. Distinguo chiaramente gli occhi lucidi di Daniela, mentre parla del suo amico.
“Angelo era un compagno, frequentava rifondazione comunista. Quando sono arrivata alla Porta di Damasco ho cominciato a guardami intorno. Sapevo che lì vicino era stato ucciso Angelo e non riuscivo a stare tranquilla” – mi racconta Daniela.
“Daniela – le dico – forse hai un compito, devi ricordarti di Angelo. Devi far conoscere la sua storia a più persone possibile”.
“Lo so e non ho mai smesso di pensarci”…
”Ti ringrazio di avermene parlato. Ma il cognome… il cognome è calabrese, vero?” – chiedo.
“No, lui era di Monterotondo come me ma – dopo un attimo di riflessione, strofinandosi la mano sulla fronte – è vero, è vero, ora che ci penso lui aveva origini calabresi”.
Arrivati al campo, cerco di collegarmi ad internet attraverso una fragile connessione wi-fi.
Trovo subito una sua foto. Angelo ha occhi chiari, capelli castani e viso dolce, sorriso abbozzato. Ci sono parecchie foto su google ma quella più ricorrente lo ritrae in un abbraccio con un bambino palestinese.
Scopro che viveva a Monterotondo e che studiava giurisprudenza alla Sapienza, come me. Le sue origini, così come tradisce il suo cognome, sono calabresi, in particolare di Caulonia dove ogni anno si tiene un premio per ricordarlo.
Prometto a Daniela di parlarne, di aiutarla nel ricordo. Come era possibile che non sapessi nulla di questo ragazzo morto per l’odio e vittima del suo amore in quanto ucciso proprio da un palestinese? Niente di un mio coetaneo ucciso per sbaglio proprio da quella gente che era andato a proteggere?

Gerusalemme e Angelo

Nell’ultimo giorno le nostre strade si separano: invece di andare a Jenin e Nablus, con tutto il gruppo, seguo i tre ragazzi sardi a Gerusalemme.
Noi quattro – i sardicalabri, come ci chiamano, per la mia presenza che fa di noi un gruppo di sardi meticci –  scegliamo di andare a Gerusalemme. I miei tre amici non hanno ancora visto la Città Santa e così mi offro di mettere a disposizione la mia piccola conoscenza della città.
I tre sardi sono ottimi compagni di viaggio. Una esplosione di vita si manifesta in Erica, occhi grandi e neri e una sorprendente capacità di imitare le persone; Vanessa, sembra fuggita da un film in bianco e nero, espressione fiera ed energica e poi c'è Paolo che in un'altra vita deve essere sicuramente nato in Palestina.
Ero di nuovo a Gerusalemme. Avevo immaginato a lungo la Porta di Damasco, i mercanti arabi contrattare con i turisti, la loro merce esposta e l'invito a fermarsi, l'odore dei felafel, il fumo del Kebab sulla griglia, i tassisti appoggiati sulle loro macchine e le loro sigarette, il volto di Nasser, l'autista che ad Aprile mi aveva condotto a vedere la Knesset, mentre in testa “Tel Aviv, Tel Aviv”, risuonava così come lo avevo ascoltato ad ogni mio risveglio quando avevo alloggiato lì.
Abbiamo i volti stanchi per le poche ore di sonno e siamo scossi dalla perquisizione subita al check-point.
Abbiamo a disposizione un giorno per vedere il più possibile un luogo immenso. Scegliamo così le cose che non si possono non visitare: il Muro Occidentale, il Santo Sepolcro, accontentandoci di vedere la Cupola della Roccia da lontano per via della chiusura della Spianata delle Moschee.
Avviati verso l’ostello, riceviamo un messaggio di Mohamed, chiamato da noi "Armario".
Mohamed è l’anima del gruppo dei ragazzi palestinesi che ci dà appuntamento alla Porta di Damasco. Siamo spiazzati ma contentissimi perchè Mohamed sarebbe dovuto andare a Jenin e Nablus con tutto il resto del gruppo. A causa di una sveglia non sentita, Armario è ancora a casa, a Gerusalemme. Mohammed viene chiamato Armario per via della sua stazza. Armario è l'evoluzione di armadio: così lo aveva definito un ragazzo italiano l'anno precedente. Da allora tutto lo chiamano Armario. Studia all’università di Al-Quds e fa il tirocinio per diventare un avvocato, ha passaporto giordano e la residenza di Gerusalemme.
Varcando la Porta di Damasco lo vediamo da lontano e ci lanciamo verso di lui: è talmente grande che solo in quattro riusciamo ad abbracciarlo senza lasciare nessun pezzo del suo corpo privo della nostra stretta.
Ci porta alla scuola frequentata dal poeta Darwish, a fare un giro nella Gerusalemme Est e a vedere un’altra delle otto porte di Gerusalemme, la porta di Erode.
Proseguiamo salendo sulle mura delle città. 
Passeggiamo senza una meta precisa godendoci solo il panorama e quelle ultime ore di viaggio.
Un murales modifica il nostro percorso attirando la nostra curiosità. Si tratta di un parco giochi, apparentemente, ma è il centro sociale la Torre del Fenicottero, luogo gestito da palestinesi e sotto minaccia di esproprio da parte dello stato di Israele, come mi racconterà anche Armario.
Tra i murales, vedo in lontananza un campetto di calcio.
Il mio cellulare scatta qualche foto: sento che quel posto ha qualcosa da raccontare. Armario saluta l’uomo che ci viene incontro. Un abbraccio, qualche sorriso e Armario sta già parlando con quello che ha l’aria di essere a casa sua.
“Questo campetto verrà dedicato ad un ragazzo italiano ucciso tempo fa a proprio qui” – spiega Armario, raccontandomi quello che quel ragazzo gli aveva appena rivelato.
Armario conosce quel posto perché è tra i punti più belli in cui poter ammirare la Cupola della Roccia e per le continue minacce israeliane per la confisca, ma non conosceva affatto quella storia, la storia di quella uccisione.
Chiedo se il ragazzo rimasto ucciso si chiami Angelo Frammartino.
Il ragazzo non sembra capire. Armario glielo ripete ma l'uomo, desolato, non ricorda il nome della vittima, dell’uomo che aveva perso la vita proprio lì, sul muro che orami non era più macchiato di sangue perché dipinto di bianco.
Il ragazzo si assenta e torna con un mazzo di chiavi. Armario nel frattempo mi spiega che c’è una stanza chiusa a chiave con la foto di questo ragazzo. Solo così potremo scoprire di chi si tratta.
E se si trattasse di Angelo? Fino a qualche giorno fa non ne conoscevo neanche l'esistenza e ora mi ritrovavo lì, proprio lì dove era stato ucciso.
Entriamo e il ragazzo non ha nemmeno il tempo di indicare dove sia posizionata la foto che riconosco immediatamente il suo volto.
È lui, è Angelo.
La sua foto è appoggiata tra il muro e la scrivania in direzione della Cupola della Roccia che da lassù si vede chiaramente. Quel ritratto ha tutta l’aria di essere lì da molto tempo.
Daniela non è lì e l’istinto di prendere il telefono per comunicare con lei si scontra con la consapevolezza di non avere la connessione internet.
Angelo ormai aveva impresso la sua presenza nel nostro viaggio tanto da portarci lì dove otto anni fa aveva perso la vita.
Erica e Vanessa capiscono subito perché nei giorni precedenti avevo raccontato loro di quel ragazzo e della mia idea di scriverci qualcosa. Paolo, invece, non ne sapeva nulla.
“Io sono scettico” – mi confida Paolo – ma quello che è successo oggi è davvero una bella cosa”.
Ci avviamo verso l’ostello con un gattino bianco dalle dimensioni microscopiche che non vuol lasciarci mentre salutiamo Armario con gli occhi gonfi di lacrime e il desiderio di rivederci presto.
L’ostello offre scomode sistemazioni ma una vista eccellente. Dopo aver salutato Erica e Paolo, io e Vanessa facciamo un’ultima chiacchierata sul tetto davanti ad una Gerusalemme che dorme mentre brilla la cupola nella notte.
L’ultimo giorno è una corsa contro il tempo. I negoziati falliti al Cairo per fermare i bombardamenti di Gaza e le minacce di Hamas aumentano la tensione tanto che si parla di una possibile chiusura dell’aeroporto di Ben Gurion.
L’aeroporto però è aperto. Si parte. Saluto i sardi. Le nostre strade si separano davvero. Io continuo sola e, mentre mi allontano sulle scale mobili, guardo gli ultimi due compagni di viaggio, Vanessa e Paolo, lasciati al bar a fare colazione.
Il mio volo fa un’ora di ritardo: a quanto pare l’aereo cambia rotta per evitare i missili provenienti da Gaza. Nel viaggio di ritorno, dopo il decollo, dilato tutte le immagini vissute. Ne cerco un’ultima e penso agli altri, a tutti gli altri compagni e al loro viaggio, come avrebbe fatto Angelo.

Mentre prepari la tua colazione, pensa agli altri,
non dimenticare il cibo delle colombe.
Mentre fai le tue guerre, pensa agli altri,
non dimenticare coloro che chiedono la pace.
Mentre paghi la bolletta dell’acqua, pensa agli altri,
coloro che mungono le nuvole.
Mentre stai per tornare a casa, casa tua, pensa agli altri
Non dimenticare il popolo delle tende.
Mentre dormi contando i pianeti, pensa agli altri,
coloro che non trovano un posto dove dormire.
Mentre liberi te stesso con le metafore, pensa agli altri,
coloro che hanno perso il diritto di esprimersi.
Mentre pensi agli altri, quelli lontani, pensa a te stesso,
e dì: magari fossi una candela in mezzo al buio.

Mahmoud Darwish

2 commenti:

  1. Ho letto l'articolo tutto d'un fiato. Grazie per questa testimonianza che sconvolge l'anima, ma allo stess tempo accarezza il cuore.

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