lunedì 29 aprile 2024

Come si raccontano gli esteri? La lezione di Francesca Mannocchi

L'ultimo episodio di Globo è, soprattutto, una lezione su come si raccontano gli Esteri e, più in generale, su come si fa giornalismo. 
 
Nella puntata live del podcast, Eugenio Cau è tornato a intervistare Francesca Mannocchi, una “giornalista di storie”, come si è definita lei stessa, preferendo questa descrizione a “inviata di guerra”. 

 Una delle cose che emerge da questa puntata circa il modo più efficace di raccontare gli esteri è la capacità di sintesi, un’attività assai sottovalutata quando ci si sofferma sull’aspetto più romantico e spesso abusato dell’inviato. La sintesi non è soltanto la capacità di riassumere o un’attività quantitativa che consiste in una mera sottrazione. Quando la Mannocchi parla di “sintesi” parla infatti della necessità “tradurre” il contenuto tecnico di un fatto di rilievo giornalistico nella “lingua” di chi legge, in modo che possa essere compreso: 

 “Ho tanto riflettuto su quale dovrebbe essere il modo, non migliore, ma più utile di dire le cose - spiega la giornalista - io posso studiare un mese, leggere i testi più interessanti di sociologia militare ma devo essere in grado di sintetizzare quei testi e quello studio in modo che siano immediatamente comprensibili da chi leggerà il mio articolo o vedrà il mio reportage una sola volta (…) e in quell’unica volta deve capire”. 

 La Mannocchi si sofferma poi su un punto che rappresenta un altro metodo per raccontare con efficacia gli esteri: partire dalle storie delle persone. Andando al di là del dolore individuale, del dolore in sé, le storie dei singoli individui spesso riescono a incarnare la storia collettiva, la storia politica di un Paese attraverso il metodo deduttivo, dal particolare al generale, a patto però che queste storie ne abbiano le potenzialità. Proprio in questo sta la bravura del giornalista, nella scelta delle storie giuste, come ha fatto Francesca Mannocchi con la storia di Fakhri Abu Diab: 

 “Credo che dobbiamo diventare bravi, soprattutto rispetto a crisi così complesse, chiedendoci: ho la storia di questa persona davanti a me che generosamente mi sta consegnando la sua vita, cosa mi vuole dire questa storia? È la storia di un dolore? No è la storia di un atto politico. 

Gerusalemme Est, quartiere di Silwan. Fakhri Abu Diab, 60 anni circa, portavoce da decenni del movimento contro la presenza dei coloni a Gerusalemme Est occupata, si sveglia una mattina e si accorge che l’ordine di demolizione pendente sulla sua casa verrà messo in atto (questa cosa è successa un mese e mezzo fa). 
La sua casa viene effettivamente demolita: questa potrebbe essere la storia di un’ordinaria disperazione di un cittadino palestinese nella Gerusalemme Est occupata oppure potrebbe diventare una storia di un’ordinaria disperazione che ci racconta qualcosa della pratica dell’occupazione: e cioè quella casa viene demolita perché gli israeliani ritengono che non abbia i permessi e che quindi sia abusiva; le case demolite sono spesso abusive? Sì lo sono, perché lo sono? Perché i palestinesi chiedono i permessi e, di cento permessi che chiedono, solo il 3% viene approvato. Contemporaneamente, i coloni israeliani chiedono lo stesso numero di permessi e li ottengono in 48 ore. 
Questo ha fatto sì che negli ultimi decenni la costruzione delle colonie e degli insediamenti fagocitasse intere aree di Gerusalemme Est occupata”. 

 La storia di una persona anziana a cui viene demolita casa può rimanere solo l’istantanea di una storia di disperazione oppure trasformarsi in qualcosa che ci permette di capire davvero in cosa consista la colonizzazione di Gerusalemme Est occupata o anche di riflettere di quanto sia cambiata la pratica delle demolizioni negli ultimi 10 anni.

“Il nostro ruolo - chiude la giornalista - è unire i puntini e liberare i palestinesi dalla retorica della disperazione, dando loro la dignità della responsabilità”.

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