La vita dei cubani tra embargo, la crisi economica, il blackout, l’effetto Trump e la repressione del dissenso
Seduto su un pezzo di cartone appoggiato sui gradini di una bodega dell’Avana vecchia, un uomo attende il suo turno di razionamento, o forse aspetta di annoiarsi in un’altra giornata che sembra uguale a tutte le altre; ha un volto emaciato, ma lo sguardo è rimasto fiero.
La gente attende il suo turno per mangiare: c’è stanchezza e rassegnazione, decadenza e voglia di riscatto.
I colori un tempo luminosi degli edifici dell’Avana vecchia sono sbiaditi. Spesso non rimangono che brandelli di palazzi dilaniati dagli anni di sofferenza: se ne vedono molti in rovina e parzialmente crollati, come se una guerra silenziosa avesse annientato le cose e le vite. In giro, alcuni cani randagi e molte auto d’epoca: scintillanti Chevrolet Bell Air e Cadillac Series 62 circolano insieme ad automobili sovietiche anni ‘80 dallo stile più essenziale; rari i modelli contemporanei cinesi e sudcoreani.
I pochi turisti sono presi d’assalto
da chi cerca qualcosa per sopravvivere: le persone non chiedono soltanto soldi
ma anche saponette e vestiti; ogni tanto del cibo. Poca gente si vede camminare
per le strade in cui la propaganda del regime sembra rimasta a sessant’anni fa:
i volti del Che e Cienfuegos provano a ricordare che la revolución è
ancora in atto, o almeno dovrebbe: in questa situazione, però, è difficile dire
che cosa resta di quel periodo.
Restano i sogni di un paese che, per almeno trent'anni, ha trasformato
un'utopia in realtà perché la rivoluzione cubana non è stata soltanto promessa,
ma costruzione quotidiana – spesso però accompagnata dalla repressione del
dissenso, ritenuta dall’apparato l’unico mezzo per difendere l'ideale
rivoluzionario e impedirne l'implosione; resta un’isola che ha sfidato il mondo
in nome dell'uguaglianza e della giustizia sociale, ideali che si sono
dissolti, lasciando un paese incapace di garantire quei diritti che un tempo
aveva difeso con la radicalità del motto patria o muerte.
La rivoluzione è stata l’unica religione di Stato in cui i cubani hanno
creduto. Oggi, nei volti stanchi di chi passeggia lungo il Malecón dell’Avana o
sosta ai bordi delle bodegas, si riflettono quegli stessi sogni, ma
ormai spezzati, soprattutto dopo la scomparsa di Fidel Castro.
Dal 25 novembre 2016, giorno della morte del líder, sono trascorsi otto anni
e mezzo. Da allora, Cuba ha dovuto fare i conti con la sua assenza, le
conseguenze di un embargo ingiusto che dura da sessantatre anni, e una delle peggiori
crisi economiche degli ultimi decenni: nel 2024 il PIL ha registrato un nuovo
calo del 4% dopo il -1,9% dell’anno precedente, come ha dichiarato l’economista
cubano Omar Everleny Pérez in un’intervista alla Reuters; a questo si aggiunge un’inflazione
al 20% che, sebbene in lieve diminuzione, continua ad aggravare la
vulnerabilità economica delle famiglie.
Il turismo, settore strategico per l’isola, segna una riduzione del numero di visitatori del 7,9% nel 2024, secondo i dati diffusi dall’Istituto statistico di Cuba, anche a causa dei blackout che sono diventati ormai una condizione abituale, con interruzioni che arrivano anche fino a venti ore al giorno in diverse province.
Nonostante la Costituzione del 2019 rappresenti un significativo passo avanti sul
piano delle conquiste sociali – avendo, tra le altre cose, costituzionalizzato
i diritti sessuali e riproduttivi delle donne, e permesso la legalizzazione del
matrimonio tra persone dello stesso sesso – la situazione sul fronte dei
bisogni primari resta drammatica: oggi per le strade dell'Avana si vedono code
interminabili per il pane e le medicine. La libreta de abastecimiento, la
tessera statale che permette di acquistare generi di prima necessità a prezzi
agevolati, come riso, fagioli, un po’ di pollo e prodotti per l’igiene
personale, non riesce a soddisfare completamente il fabbisogno delle famiglie,
spingendo i cubani – ma solo quelli che se lo possono permettere – a rivolgersi
al mercato libero o nero a prezzi altissimi.
L'Avana appare come una capitale decadente e quasi sventrata, dove malinconia e
rassegnazione si mescolano alle note della musica caraibica. Eppure, ciò che
resiste è la dignità: «Per me Cuba è dignità. Nonostante tutti i problemi che
abbiamo, io amo il mio paese. Noi cubani diciamo che possiamo parlare male di
Cuba soltanto tra di noi, ma non con gli altri», scherza Aracelys una donna di mezza
età che gestisce una casa particular nel quartiere Vedado dell’Avana e
racconta del suo attaccamento al líder: «Da quando è morto Fidel è
cambiato tutto. Le sue parole erano magia, tutti i cubani lo ascoltavano. Io
sono nata nel 1967 e posso dire che non c’è mai stato un momento di difficoltà
– e a Cuba ce ne sono stati tanti – in cui Fidel non abbia trovato una
soluzione, mai. Con la sua assenza ci è mancato il punto di riferimento, ci è
mancato un padre, un’ispirazione».
L’effetto Trump
Non tutti hanno amato Castro e la revolución come Aracelys: in questi oltre sessant’anni soprattutto dopo
il crollo dell’Unione Sovietica, quasi tre milioni di cubani hanno lasciato
l’isola in direzione Stati Uniti nella maggior parte dei casi. Da qualche mese,
però, questa via d’uscita non è più disponibile: Donald Trump ha avviato una
delle più dure politiche migratorie degli ultimi decenni, revocando il parole
humanitario, il programma introdotto durante la presidenza Biden che consentiva
ai cittadini di Cuba, Haiti, Nicaragua e Venezuela di entrare negli States con
un permesso temporaneo di due anni, a condizione che avessero uno sponsor
finanziario che garantisse il loro sostentamento economico. Con la revoca di
questa misura, non solo non sarà più possibile entrare negli Usa ma migliaia di
cubani rischiano l’espulsione o saranno costretti a lasciare il paese.
Secondo i dati del Dipartimento della sicurezza interna americana, nel mese
di febbraio 2025 solo 150 cubani sono riusciti a raggiungere gli Stati Uniti. A
marzo il numero è sceso a 132; ad aprile a 130. Un crollo dei dati impressionante
se messo a confronto con i mesi precedenti: 6.295 sono gli arrivi registrati a
gennaio 2025 e 8974 a dicembre 2024, con una riduzione degli ingressi pari al 98%
circa. Appena un anno prima, ad aprile 2024, il numero di cubani entrati negli
Stati Uniti aveva toccato quota 17.873.
Nonostante tutto, il desiderio di raggiungere l’America resta forte, anche
tentando rotte considerate illegali, come racconta, a proposito di suo figlio, Migdalia,
una donna di circa sessant’anni, custode del Museo storico di Playa Girón,
luogo della fallita operazione militare americana del 1961, ricordata come
l’invasione della Baia dei Porci, anche se per i cubani sarà sempre il simbolo
della loro vittoria contro l’imperialismo statunitense.
Migdalia è un’impiegata statale e guadagna quasi 6.000 pesos al mese,
l’equivalente di circa 15 euro al cambio informale. «Mio figlio è bloccato in
Messico. Ho paura di non rivederlo più», racconta in lacrime. «È lì con mia
nuora e mio nipote. Sono arrivati in Messico passando dal Nicaragua, speravano
di attraversare il confine e iniziare una nuova vita, ma ora sono fermi, bloccati.
Non so cosa ne sarà di loro».
Stop al bloqueo
Stop al bloqueo: così si legge sui muri dell’Avana, ma anche in città
come Cienfuegos o Santa Clara. Quello che i cubani chiamano bloqueo è un
embargo economico totale in vigore da oltre sessant’anni, con cui gli Stati
Uniti tentano di piegare il regime. Una misura che, oltre a violare il
principio di non ingerenza negli affari interni, ha avuto un impatto devastante
sulla popolazione, impedendo l’accesso a medicine, carburante e alimenti.
Nell’ottobre 2024, l’assemblea generale dell’Onu ha votato ancora una volta per
la sua revoca: tutti gli stati si sono espressi a favore, tranne gli Stati
Uniti – che continuano a imporre la misura con ostinazione – e Israele. Il
ministro degli esteri cubano Bruno Rodríguez ha definito l’embargo un “atto di
guerra in tempo di pace”, in quanto viola i diritti fondamentali alla vita,
alla salute e all’istruzione. Secondo i dati diffusi dallo stesso ministro, i
danni causati ammonterebbero a oltre 1.499 miliardi di dollari. Yusimara, 41 anni, guida turistica, non ha dubbi: «Se potessi esprimere un
desiderio, fermerei l’embargo: è una condanna economica ma anche esistenziale.
Qui viviamo come in un dopoguerra infinito. Con Obama avevamo sperato nel
cambiamento, poi è tornato tutto come prima con Trump e Biden. E gli Stati
Uniti di oggi mi fanno paura».
«Per essere un Paese del terzo mondo stiamo bene però dobbiamo ricordarci chi siamo, non possiamo competere con l’Occidente. Lo
stop all’embargo sicuramente cambierebbe tutto».
L’incubo dei cubani: gli apagones
Da diverso tempo, a rendere ancora più difficile la vita a Cuba ci sono gli apagones,
i blackout sia programmati sia improvvisi: i cubani vivono il
disagio quotidiano della sospensione dell’energia elettrica che dura diverse
ore al giorno. Risale all’ottobre 2024 uno dei più lunghi blackout della
storia di Cuba: dal 18 al 22 ottobre, a causa di un guasto alla centrale
termoelettrica Matanzas, la più grande del Paese, 10 milioni di persone
rimasero senza elettricità.
Attualmente i blackout si sono moltiplicati fino ad
arrivare alla sospensione quotidiana dell’energia elettrica per più ore al
giorno. Le interruzioni sono una conseguenza dello stato delle infrastrutture
energetiche ormai obsolete e della scarsità di combustibile proveniente dal
Venezuela, paese che vive ormai una crisi profondissima che gli impedisce di sostenere
Cuba come un tempo.
«Qui a Cienfuegos manca l’energia elettrica per tante ore al giorno», dice
Nirma che porta con sé un cane di piccola taglia che la segue ovunque. Vive insieme
alle sue due sorelle, dormono in tre in una sola stanza, le altre due stanze le
affittano ai turisti per campare: «Noi ci siamo attrezzati con un generatore di
corrente e difficilmente rimaniamo senza energia». Rassegnazione e spirito di
sopravvivenza vengono fuori dalle parole della donna che, al di là di tutto, fa parte di quella
fetta della popolazione un po’ più fortunata delle altre: il turismo rimane un canale privilegiato per vivere più dignitosamente e
ottenere valuta forte come dollaro o euro.
Ferrer e Navarro, prigionieri di coscienza
L’8 maggio 2025 Amnesty International ha lanciato un’azione urgente per chiedere il rilascio immediato dei prigionieri
di coscienza cubani José Daniel Ferrer e Félix Navarro Rodríguez, leader del
partito di opposizione Unpacu. Il 29 aprile 2025, la Corte Suprema di Cuba ha
revocato la loro libertà condizionale, accusandoli di aver violato le
restrizioni imposte dopo il rilascio: Ferrer non si sarebbe presentato alle
udienze obbligatorie e Navarro si sarebbe allontanato dal proprio municipio
senza permesso. I due erano stati scarcerati a gennaio, insieme ad altri 551
detenuti, dopo un accordo che aveva portato gli Stati Uniti a rimuovere Cuba
dalla lista dei paesi sponsor del terrorismo; con l’insediamento di Trump, l’isola
è tornata nella blacklist.
Ferrer sostiene che il suo arresto sia basato su motivazioni pretestuose e rappresenti una rappresaglia per la sua
attività politica e umanitaria. Il provvedimento della Corte, pur appellandosi
a violazioni procedurali, fa riferimento ai legami dei dissidenti con
l’ambasciata americana e ai loro appelli al disordine, sollevando dubbi
sull’imparzialità della decisione.
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