sabato 1 marzo 2025

Il gaslighting di Trump si fonda sul nomos della terra

L’incontro alla Casa Bianca tra Zelensky e Trump non è solo un disastro diplomatico mai visto, ma è un’umiliazione architettata tramite una tecnica specifica: il gaslighting, e cioè la manipolazione politica e giuridica del presidente degli USA, posta in essere con la complicità di Vance e di tutti quelli che credono che il nomos – ossia la legge, il diritto, la giustizia – debba andare indietro alla sua radice etimologica nemein, che significa in primo luogo “prendere, conquistare”. 

Guardare al diritto attraverso l’atto primigenio della conquista-appropriazione è una visione che nel tempo l’umanità ha provato ad abbandonare, per dare alla legge il compito di limitare la guerra di conquista e le aggressioni alla sovranità e all’integrità territoriale degli Stati; in poche parole, di limitare la legge del più forte fisicamente e militarmente.

Il diritto affonderebbe le sue radici nell’appropriazione (violenta) della terra e ieri, in quell’incontro, Trump e Vance hanno incarnato questa visione, bullizzando Zelensky e calpestando la memoria di tutte le vittime della guerra in Ucraina.

Per capire da dove arriva questa visione del mondo, vi consiglio di leggere Le categorie del Politico di Carl Schmitt e poi –  anzi prima – Diritto e conflitti di Gaetano Azzariti, mio maestro e grande studioso del controverso filosofo tedesco (vedi pp. 282 e seguenti). 

Provate poi a pensare a Gaza: questo stesso paradigma può infatti applicarsi anche alla Striscia e, in generale, alla questione palestinese dalla Nakba in poi, con la cacciata dei palestinesi dalle loro terre.


lunedì 3 febbraio 2025

La ragazza di Deir al-Balah

Al tempo degli accordi incerti sul cessate il fuoco a GazaRita Baroud, studentessa diventata la voce dalla Striscia perRepubblica, racconta la vita sotto le bombe con la speranza di rinascere dopo oltre 470 giorni di guerra


di Luisa Foti

Rita conta le ore e i minuti che la separano dal cessate il fuoco e da un nuovo inizio, forse di pace o forse un altro inferno, con Gaza quasi completamente rasa al suolo, senza più nulla, se non la terra e le macerie. Rita è una studentessa, dall’inizio della guerra racconta quello che accade nella Striscia per Repubblica, e desidera continuare a fare la giornalista anche oltre questo conflitto; è nata nel 2002, dopo gli accordi di Oslo, dopo il fallimento del vertice di Camp David e durante la seconda intifada, un anno prima che morisse Yasser Arafatalla fine di un periodo in cui ci si era illusi che la pace tra israeliani palestinesi fosse una prospettiva possibile.

È il 17 gennaio 2025il suo viso spunta all’improvviso sul mio schermo quando finalmente riesce a collegarsi alla videochiamata che avremmo dovuto fare il 15 gennaio: «Non posso – mi aveva detto rimandando di due giorni il nostro incontro – devo scrivere un pezzo per Repubblica sull’annuncio della tregua»; ha i capelli neri di media lunghezza, la carnagione olivastra, un volto pallidissimdai lineamenti armoniosi. I suoi occhi mi sembrano neri e indossa una tuta dello stesso colore. Si trova all’interno di una stanza molto buia le cui pareti portano i segni più evidenti dei bombardamentis’intravedono crepe, numerosi fori di varie dimensioni, probabilmente causati da proiettili, schegge o frammenti di un'esplosionenon c’è elettricità.
«Dove ti trovi?», le chiedo. 
«Sono a Deir al-Balah»risponde.
«Intendo dove ti trovi in questo momento? Quella è casa tua?», chiedo ancora.
«In un certo senso – mi risponde – mi trovo nell’appartamento in parte danneggiato dei miei parenti; la mia casa, a nord della Striscia, è stata distrutta nei primissimi giorni dei bombardamenti israeliani, il 9 ottobre 2023».
«Presto», le rispondo«molto presto»aggiunge.
«La mia famiglia è stata costretta ad abbandonare il nord qualche giorno prima del grande esodo del 13 ottobre 2023»racconta.
«Questa casa a Deir al-Balah dove mi trovo adesso è stata bombardata ma è ancora in piedi e, soprattutto, è meglio delle tende, anche se siamo in 18 con un solo bagno», dice; sa di essere fortunata perché la maggior parte degli sfollati vive all’interno di tende molto piccole, appena sufficienti per dormire e muoversi.
«Il cessate il fuoco significa molto – mi dice commentando l’accordo annunciato solo due giorni prima – per me e per tutte le persone a Gaza. Ne abbiamo bisogno non solo per gli aiuti umanitari ma anche perché finisca questo genocidio e tutto questo spargimento di sangue. Abbiamo perso molte personeparliamo di più di cinquantamila morti, altri feriti gravemente. Io non so se il cessate il fuoco sarà temporaneo o permanente, ma è importante per tornare a respirare».


L’ACCORDO PER IL CESSATE IL FUOCO
Mentre scrivo, le agenzie hanno appena battuto la notizia: è il 19 gennaio e la tregua è in vigore da pochi minuti. Sono passati due giorni da quanto ho sentito Rita.
Benché Trump abbia provato a intestarsene il merito, l’accordo ricalca in gran parte quello proposto dall’amministrazione Biden.Nessuno sa ancora cosa succederà e quanto dureràTutto dipende dalla volontà delle parti di rispettare gli obblighi reciproci sul rilascio degli ostaggi e dei prigionieri politici palestinesi – che spesso sono al pari degli ostaggi essendo detenuti senza la formalizzazione di un’accusa.
Gli sfollati provano a raggiungere le loro case, anzi quello che ne resta perché più di due terzi di tutti gli edifici di Gaza hanno subito danni, soprattutto nella parte nord, come riporta un'analisi del Centro satellitare delle Nazioni Unite (Unosat).
Nei prossimi giorni sono previsti massicci aiuti umanitari nella Striscia: entreranno circa 600 camion al giorno e tra qualche ora verranno rilasciati anche i primi tre ostaggi.
I primi tentativi di arrivare a una tregua risalgono a novembre 2023, quando il cessate il fuoco era durato appena sette giorni, prima che riprendessero i bombardamenti. Da allora, si sono susseguiti vari tentativi di trovare una soluzione e sono morte 40mila persone.
Questo cessate il fuoco sarebbe dovuto iniziare alle 8.30 e invece è entrato in vigore con quasi due ore di ritardole ultime tredici vittime sono morte a causa di quel ritardo. 

DIARIO DA GAZA
Rita è diventata una preziosa testimone da Gaza per diversi mediainternazionali e ha preso il posto di Sami al-Ajrami sul quotidiano Repubblica da quando il giornalista palestinese ha lasciato la StrisciaIn questi mesi i pezzi della ventiduennhanno raccontatobombardamenti e una crisi umanitaria senza precedenti.
È grazie a persone come lei e Sami al-Ajrami che abbiamo potuto conoscere questo conflitto: oltre ai reporter palestinesi, nessuno ha avuto accesso alla Striscia, se non embedded con l’esercito israeliano; e lingresso a Gaza resterà proibito ancora per molto, almeno fino a quando il cessate il fuoco non sarà definitivo. Sono proprio i giornalisti palestinesi ad aver pagato il prezzo più alto:secondo Reporter Senza Frontiere e la Federazione Internazionale dei Giornalisti, la Palestina è attualmente il luogo più pericoloso al mondo per chi lavora nell’informazione. Nel 2024, oltre la metà dei 104 reporter uccisi a livello globale ha perso la vita a Gaza.

«Mio padre mi aveva detto che alcuni giornalisti erano interessati a ricevere una testimonianza», racconta Rita quando le chiedo della collaborazione con Repubblica.
«Io all’inizio non volevo farlo: pensavo alla mia casa distrutta, agli amici persi e non riuscivo a pensare ad altro. Non avevo nessuna esperienza e non mi sentivo pronta – dice quando mi confessa, ridendo, di aver addirittura fatto una ricerca su Google:“Come essere una brava giornalista” – Poi ho capito che quello che mi stavano chiedevano era un mio dovere: testimoniare».
Nasce così il Diario dalla Striscia. Rita ha talento nella scrittura,sspira a Youmna El Sayed, giornalista egiziana palestinese, corrispondente da Gaza per Al Jazeera, e scrive testimonianze potenticome ha fatto il 16 gennaio, il giorno dopo il primo annuncio del cessate il fuoco, in prima pagina su RepubblicaIbambini sono stati i primi: sono saltati fuori e hanno iniziato a correre nei vicoli abbandonati (…) nella Striscia è sgorgata la festa, spontanea, che presto – tra fischi, clacson, trombette e spari in aria  si è trasformata in una lunga trama di contraddizioni. Le persone si sono riversate nelle strade di Deir el-Balah, Khan Younis e Nuseirat come se rispondessero a un appello immaginario che li esortava a rompere il silenzio e la paura”. 
Eppure i bombardamenti non si sono fermati: Mentre tutti attendono con impazienza l’attuazione dell’accordo di cessate il fuoco, le esplosioni a Gaza continuano. È come se il conflitto rifiutasse di finire fino all’ultimo momento (…). Gli attacchi aerei nella sola giornata di ieri hanno provocato oltre 50 morti – scrive di quel giorno diviso tra la speranza e il massacro.


LE COSE CHE SALVANO LA VITA
«I lost myself», mi dice con pochissima voce, come se non volesse più continuare a parlare. Sa bene cosa significa avere ventidue anni a Gaza, con i sogni interrotti: «Ho perso tutto – continua – la mia vita si è fermata. Ho perso amici, ho perso la mia casa, ho perso molto peso, ho perso la mia salute mentale. Sono depressa e, ad essere onesta, non sento più niente, questo sentimento mi sta uccidendo a poco a poco».
Rita ha già vissuto molte guerre prima del 7 ottobre e ha imparato a riconoscere il rumore delle bombe sin da quando era piccola«Te lo giuro, ricordo bene come fosse ieri la mia prima guerra etutti gli sfollati accolti dalla mia famiglia: avevo solo cinqueanni».
«Lo studio mi ha aiutato a non pensare troppo», mi dice quando iniziamo a parlare di cose che salvano la vita. Mi racconta del progetto che stava portando avanti per l’Università di Bologna, e dei suoi studi in Lingue sospesi per il conflitto.
Anche la musica l'ha aiutata a resistere: Beethoven è stato un rifugio dal rumore senza sosta delle bombe, ma anche i libri – come Orgoglio e pregiudizio di Jane Austen e L’ombra del ventodi Carlos Ruiz Zafón.
Pensa anche a tutti i libri finiti sotto le macerie, in particolare quelli dell’iconica libreria del suo amico Samir Mansour: nel 2021 l’esercito israeliano l’aveva bombardata riducendola in macerieera stata ricostruita nel 2022 ed è stata distrutta di nuovo
«Samir Mansour è mio amico, quella era la mia libreria preferita».

RITA E IL FUCILE
Chi avrebbe potuto sciogliere i nostri sguardi, prima che si levasse un fucile?
Rita porta nel suo nome un riferimento poetico e una speranza per il futuro. 
«Da dove viene il tuo nome, da quella poesia?» le chiedo.
«Sì, mio padre è un artista, fece una mostra a Gaza con i suoi dipinti e la intitolò Rita e il fucile», come la poesia che Mahmoud Darwish scrisse per la donna che amava. E non era una donna qualunque, era israeliana e solo qualche anno fa se n’è scoperta la vera identità: Rita era Tamar Ben-Ami, coreografa e ballerinaisraeliana di origini polacche.
"Write down I am an arab", il documentario della registaisraeliana Ibtisam Mara’ana Menuhin, racconta non solo del loro amore – poi finito a causa di quel fucile – ma anche di due popoli che pur essendosi sempre odiati sulle carte della geopolitica hanno anche provato ad amarsi. 
Ci salutiamo con la promessa di risentirci
Le ho chiesto di non perdere la speranza mentre attende che tutto finisca davvero.

giovedì 12 settembre 2024

Il 3 settembre 2024, Peter Schroeder ha scritto un’analisi sulla guerra in Ucraina per Foreign Affairs. Secondo l’analista, c’è solo un modo per porre fine alla guerra: attendere l’uscita di scena di Putin (per morte o per dimissioni). È solo questa l’opzione praticabile. Per quanto Washington abbia cercato di sostenere l'Ucraina (e punire la Russia) da un lato e ridurre i rischi di escalation dall'altro, non ha tenuto conto di una cosa: Putin non cambierà idea. Impedire all'Ucraina di diventare un bastione dell’Occidente è una necessità strategica per il Presidente russo. E si è assunto la tutta la responsabilità di raggiungere quel risultato a qualsiasi costo. 

Secondo Schroeder, quando Putin ordinò l'invasione, non c'era una minaccia urgente alla sicurezza della Russia che richiedesse un'invasione su larga scala. Ed, invece, questa è stata la scelta di Putin.

Sia William Burns, il direttore della CIA, che Eric Green, all'epoca direttore senior del Consiglio di sicurezza nazionale per la Russia, hanno notato quanto altri funzionari russi sembrassero essere fuori dal giro riguardo alla decisione di Putin. Anche all'incontro televisivo di Putin dei suoi massimi funzionari di sicurezza alla vigilia dell'invasione, alcuni partecipanti non sembravano sapere esattamente cosa dire.

Le élite russe alla fine si sono allineate dietro di lui ma prima di febbraio 2022, pochissimi stavano spingendo per un confronto che sarebbe costato così tanto alla Russia e avrebbe infranto le relazioni con l'Occidente.

Non si tratta di una guerra esistenziale per la Russia, anche se spesso questa guerra è stata così retoricamente presentata. È proprio perché è una guerra basata sulla scelta di Putin, solo Putin ha il potere di fermarla, riconoscendo che l’invasione si è rivelata più difficile di quanto si aspettasse.

Come scrive Schroeder, il ritiro delle forze russe dall'Ucraina non minaccerebbe l'esistenza dello stato russo, né probabilmente minaccerebbe nemmeno il suo stesso governo. Putin si è assicurato che nessun potenziale successore sia apparso all'orizzonte. I due che hanno provato a sfidarlo - il leader dell'opposizione Alexei Navalny e l'ammutinato Yevgeny Prigozhin - sono morti (anzi, sarebbe meglio dire, sono stati uccisi).

Il Cremlino ha decenni di esperienza nel plasmare narrazioni nazionali per rafforzare 4la leadership di Putin. Potrebbe facilmente dichiarare la vittoria in Ucraina e lanciare una campagna di comunicazione per giustificare la sua decisione...

Tutta il resto dell'analisi Schroeder si legge qui: 
Putin Will Never Give Up in Ukraine | Foreign Affairs

giovedì 2 maggio 2024

Issa Amro, l'articolo del New York Times sul "Gandhi palestinese"

Il 7 ottobre, mentre l'esercito israeliano si preparava ad attaccare Gaza, Issa Amro, legato allo schienale di una sedia, bendato e imbavagliato, subiva pestaggi, torture e anche violenze di natura sessuale ad opera dei soldati israeliani per più di 10 ore in una base militare.

Oggi Nicholas Casey del Magazine del New York Times ha dedicato un pezzo al “Gandhi palestinese”,
Issa Amro, fotografato da Paolo Pellegrin della Magnum nella foto qui sotto.


Issa non è un terrorista ma un attivista per la causa palestinese. Ho conosciuto Issa esattamente dieci anni fa a Hebron, la città nella quale l’occupazione israeliana mostra il suo volto peggiore; qui Issa ha fondato Yas (Youth Against Settlements), un gruppo di giovani che lotta da tempo contro gli insediamenti illegali attraverso la disobbedienza civile e azioni non violente.

Solo andando nell’antichissima città dei patriarchi è possibile capire cosa significhi vivere con i check-point: così come in molte zone dalla Cisgiordania occupata, a Hebron non esiste libertà di circolazione e per andare da una strada all’altra è spesso necessario attraversare più di un check-point, farsi perquisire e correre il rischio di non riuscire passare o di attendere ore e ore per tornare a casa o andare a lavoro.

Issa Amro, che è stato arrestato e picchiato per il suo attivismo molte altre volte, da anni resiste con una lotta non violenta in un momento in cui la violenza è diventata inevitabile.

Il pezzo  del NYT si legge qui:

Issa Amro’s Nonviolent Resistance in the West Bank - The New York Times (nytimes.com)



lunedì 29 aprile 2024

Come si raccontano gli esteri? La lezione di Francesca Mannocchi

L'ultimo episodio di Globo è, soprattutto, una lezione su come si raccontano gli Esteri e, più in generale, su come si fa giornalismo. 
 
Nella puntata live del podcast, Eugenio Cau è tornato a intervistare Francesca Mannocchi, una “giornalista di storie”, come si è definita lei stessa, preferendo questa descrizione a “inviata di guerra”. 

 Una delle cose che emerge da questa puntata circa il modo più efficace di raccontare gli esteri è la capacità di sintesi, un’attività assai sottovalutata quando ci si sofferma sull’aspetto più romantico e spesso abusato dell’inviato. La sintesi non è soltanto la capacità di riassumere o un’attività quantitativa che consiste in una mera sottrazione. Quando la Mannocchi parla di “sintesi” parla infatti della necessità “tradurre” il contenuto tecnico di un fatto di rilievo giornalistico nella “lingua” di chi legge, in modo che possa essere compreso: 

 “Ho tanto riflettuto su quale dovrebbe essere il modo, non migliore, ma più utile di dire le cose - spiega la giornalista - io posso studiare un mese, leggere i testi più interessanti di sociologia militare ma devo essere in grado di sintetizzare quei testi e quello studio in modo che siano immediatamente comprensibili da chi leggerà il mio articolo o vedrà il mio reportage una sola volta (…) e in quell’unica volta deve capire”. 

 La Mannocchi si sofferma poi su un punto che rappresenta un altro metodo per raccontare con efficacia gli esteri: partire dalle storie delle persone. Andando al di là del dolore individuale, del dolore in sé, le storie dei singoli individui spesso riescono a incarnare la storia collettiva, la storia politica di un Paese attraverso il metodo deduttivo, dal particolare al generale, a patto però che queste storie ne abbiano le potenzialità. Proprio in questo sta la bravura del giornalista, nella scelta delle storie giuste, come ha fatto Francesca Mannocchi con la storia di Fakhri Abu Diab: 

 “Credo che dobbiamo diventare bravi, soprattutto rispetto a crisi così complesse, chiedendoci: ho la storia di questa persona davanti a me che generosamente mi sta consegnando la sua vita, cosa mi vuole dire questa storia? È la storia di un dolore? No è la storia di un atto politico. 

Gerusalemme Est, quartiere di Silwan. Fakhri Abu Diab, 60 anni circa, portavoce da decenni del movimento contro la presenza dei coloni a Gerusalemme Est occupata, si sveglia una mattina e si accorge che l’ordine di demolizione pendente sulla sua casa verrà messo in atto (questa cosa è successa un mese e mezzo fa). 
La sua casa viene effettivamente demolita: questa potrebbe essere la storia di un’ordinaria disperazione di un cittadino palestinese nella Gerusalemme Est occupata oppure potrebbe diventare una storia di un’ordinaria disperazione che ci racconta qualcosa della pratica dell’occupazione: e cioè quella casa viene demolita perché gli israeliani ritengono che non abbia i permessi e che quindi sia abusiva; le case demolite sono spesso abusive? Sì lo sono, perché lo sono? Perché i palestinesi chiedono i permessi e, di cento permessi che chiedono, solo il 3% viene approvato. Contemporaneamente, i coloni israeliani chiedono lo stesso numero di permessi e li ottengono in 48 ore. 
Questo ha fatto sì che negli ultimi decenni la costruzione delle colonie e degli insediamenti fagocitasse intere aree di Gerusalemme Est occupata”. 

 La storia di una persona anziana a cui viene demolita casa può rimanere solo l’istantanea di una storia di disperazione oppure trasformarsi in qualcosa che ci permette di capire davvero in cosa consista la colonizzazione di Gerusalemme Est occupata o anche di riflettere di quanto sia cambiata la pratica delle demolizioni negli ultimi 10 anni.

“Il nostro ruolo - chiude la giornalista - è unire i puntini e liberare i palestinesi dalla retorica della disperazione, dando loro la dignità della responsabilità”.

giovedì 11 aprile 2024

Hai mangiato?

Tutti si ricordano la storia di Hind, la bambina uccisa a Gaza dall’IDF e rimasta per cinque ore, le ultime della sua vita, in una macchina piena di cadaveri prima di morire. La macchina era stata colpita dai tank israeliani. Hind era riuscita a sopravvivere.
Poi si era spenta, mentre era al telefono con sua madre.

Fabio Tonacci è riuscito a trovare la madre della piccola Hind, Wissam Hamadah, e l’ha intervistata. Un ricordo, in particolare, colpisce il giornalista di Repubblica e cioè la premura o la fissazione di ogni madre rispetto ai suoi figli, anche quando stanno morendo: se hanno mangiato.

 Pare che Elsa Morante fosse ossessionata dalla maternità e da questa preoccupazione. Chiedeva alla gente quale fosse la frase d’amore più importante di tutte, quella capace di raccoglierne il senso più profondo, ultimo. «La frase d’amore più vera, l’unica è: hai mangiato?» Ed è il pensiero fisso di ogni madre.

Questa citazione pare non faccia parte dei romanzi della Morante ma viene attribuita a lei e riportata da molti, anche con diverse varianti. Non ho la certezza che quel pensiero possa essere attribuito proprio alla scrittrice.
Di sicuro, in quella frase, c’è molta verità perché è quella fissazione che Wissam tira fuori dai suoi ricordi quando pensa a sua figlia: Hind è morta a stomaco vuoto.

Si ricorda questo Wassim quando racconta di quel giorno a Fabio Tonacci nell’intervista pubblicata oggi su Repubblica a pag. 14: «È morta a stomaco vuoto, la mia Hannud. Non sono riuscita nemmeno a darle i biscotti».
L’ultima premura di una madre nell’ultimo giorno della figlia: a un uomo non sarebbe venuto in mente un ricordo così. Ma le mamme non smettono mai di preoccuparsi per i figli, neppure quando sono morti. E la memoria si aggrappa a ciò che trova. La guerra di Gaza ha riservato alla palestinese Wissam Hamadah la sorte più indecente: in una sera d’inverno, le ha rubato il diritto di proteggere Hind, lasciandole però il dovere di sentirla morire al telefono. Di quel 29 gennaio Wissam non ha dimenticato niente”.

L’intervista si legge qui:
https://www.repubblica.it/esteri/2024/04/10/news/madre_hind_gaza_bambina_scomparsa-422454075/amp/

Il nome segreto, l’esordio letterario di Olga Gambari

Remember the First Time You Saw Your Name: è dalla visione dell’artista contemporanea Marinella Senatore che nasce “Il Nome Segreto”, il primo romanzo di Olga Gambari, giornalista, curatrice d’arte e docente che entra nel mondo della letteratura attraverso la storia di Eva.

La protagonista si immerge nella magia del circo – di cui l’autrice sfoggia un sapere enciclopedico – e nelle città europee più belle – da Venezia, a Cardiff, da Barcellona a Palermo, da Parigi, a Genova, da Nizza fino a Berlino e Bologna – come una Ulisse di oggi, intraprendendo un viaggio inizialmente per scappare ma, in definitiva, per superare un dolore indicibile su cui si erano posati silenzio e reticenze per venti anni.

Sono tante le vite a cui si aggrappa la protagonista prima di rimanere appesa solo alla sua identità ultima, non la più vera, ma l’ultima, la somma di tutte: Eva. E non poteva che partire frammentando il suo io e spargendone pezzettini ovunque, creando nuove identità, tutte quelle che aveva dentro perché “nessuno sa quanti esseri è, quanti ne contiene”, per riprendere, come fa l’autrice, una citazione del più importante scrittore e poeta portoghese Pessoa.

Nel libro c’è arte, cinema e musica, il mondo dell’autrice: c’è la Bella Époque in apertura, quel periodo straordinario di pace e benessere prima delle guerre mondiali, quasi a dirci, sì ora è tutto calmo, adesso però inizia il conflitto; c’è la musica punk dei Dead Kennedy e un famoso concerto degli U2; c’è il suono del violino tzigano di Momon, c’è il cinema dorato di Zampanò, gli angeli di Wim Wenders e ancora tanta altra musica come il blues di Billie Holiday e quella più contemporanea dei Placebo.

È attraverso l’arte che scopriamo uno degli elementi fondamentali di questa narrazione: grazie al quadro di un artista tedesco Paul Friedrich Meyerheim, Al circo, 1861, al Museo di Berlino, entra in scena il circo. Elemento poetico per antonomasia e strumento di emancipazione esistenziale, il circo simboleggia la sovrapposizione tra realtà e finzione e permette a Lupo – un alter ego della protagonista – ed Eva di ritrovare la loro dimensione. Il circo è tutto: se ci credi, in quel momento, è reale.

E l’arte è sempre il viatico, lo strumento per arrivare a un livello di consapevolezza più alto: è grazie a Nefertiti che Eva si apre con Lupo e rivela ciò di cui non aveva mai parlato a nessuno.

È un libro che s’inserisce nella tradizione letteraria che vede il viaggio come strumento di conoscenza e scoperta di se stessi, di superamento dei limiti, un tema fondamentale per tutta la tradizione letteraria occidentale da Omero in poi. È un libro che non segue un flusso narrativo lineare, né una cronologia degli eventi ma alla fine tutto si ricollega; è un romanzo ricco di immagini, come se la penna della scrittrice fosse una telecamera che entra nei luoghi per farci vedere quello che le parole costruiscono con grande verità in ogni suo dettaglio, con suoni, colori e odori; è, infine, anche un romanzo di formazione in cui i due protagonisti cercano il loro posto per stare al mondo, tra esistenze ordinarie e nomadismo anche interiore.

Eva, che all’inizio del suo viaggio è un “castello circondato da acqua senza ponte levatoio”, va alla ricerca del suo ponte e proprio il viaggio è il suo ponte, prima per Cardiff e poi per l’ultima meta, Barcellona, dove accetta la realtà da cui è sempre fuggita: Eva assume l’identità di Nives quando questo accade, e accade come una rivelazione. C’è tutto: distruzione, attraversamento, morte e, in definitiva, rinascita. E verso la fine, con una scrittura con ritmi serrati da togliere il fiato, finalmente Nives perde tutte le sue identità e torna a essere Eva per mezzo di un sogno perché, come scrive Miró, “solo quando sogno vedo chiaro”.