giovedì 30 ottobre 2025

Testimone del Premio Morrione è Rita Baroud, la giornalista che ha raccontato Gaza con il suo Diario per la Repubblica - via articolo 21

via Articolo 21 

di Luisa Foti 

“Vogliamo solo vivere la nostra vita senza essere uccisi; fate in modo che siano i palestinesi a parlare della loro terra. In giro vedo soltanto la prospettiva occidentale”.

È questo, in sintesi, il cuore del pensiero di Rita Baroud, giornalista palestinese Gen Z, premiata come Testimone del Premio Morrione, per il suo racconto quotidiano del genocidio di Gaza attraverso il suo “Diario” su la Repubblica. Pur appartenendo a una generazione cresciuta con i social network e i video virali, Rita ha scelto consapevolmente di affidare la propria testimonianza non solo ai post o ai reel di Instagram, ma soprattutto alle parole scritte: un diario, un articolo al giorno, come atto di resistenza e memoria.

Durante la giornata finale del Premio, è stato il giornalista Gian Mario Gillio a moderare il dibattito con Rita Baroud e con Paolo Mondani – reporter investigativo, premiato con il riconoscimento Baffo Rosso per le sue inchieste su Report: ne è nato in un confronto profondo sul ruolo dell’informazione nei conflitti e sulla responsabilità etica del giornalismo.

“Non è facile essere una giornalista e dover raccontare la sofferenza del tuo popolo”, ha spiegato Baroud che ha iniziato a conoscere la guerra da quando aveva 5 anni.

“Ogni tanto mi pento di essere diventata una giornalista: avevo vent’anni quando ho iniziato a scrivere; all’epoca volevo semplicemente vivere la mia vita da adolescente invece di dover raccontare il genocidio e spiegare che non tutto è iniziato il 7 ottobre 2023”. E quel racconto è diventato un dovere perché “parliamo di un’occupazione che nasce più di 70 anni fa”.

Durante l’incontro, si è parlato della tragedia della popolazione di Gaza e dei tentativi in corso per provare a ricominciare a vivere dopo il cessate il fuoco: per i palestinesi non è soltanto una questione di pace, ma anche di come decidere il proprio futuro, da protagonisti.

“Molti politici vogliono decidere sulla nostra pelle, ma stiamo parlando della nostra vita”, spiega Rita con parole che suonano come un chiaro riferimento all’accordo di cessate il fuoco che nulla ha a che fare con una vera pace né con la liberazione del popolo palestinese. E la liberazione parte anche dalle parole: perché si continua a parlare di “ostaggi israeliani” e di “prigionieri palestinesi”, quando molti palestinesi vengono trattenuti nelle carceri israeliane senza accuse formali, in condizioni che li rendono ostaggi a tutti gli effetti? Se l’è chiesto più volte anche la giornalista di Gaza, soprattutto quando ha riflettuto sul fatto che questo genocidio è stato raccontato con un certo orientalismo: “In giro vedo solo il punto di vista occidentale, e non quello dei palestinesi; è giusto che l’Occidente se ne occupi, ma è altrettanto essenziale che la narrazione nasca da chi vive quella realtà sulla propria pelle”.

Tra i momenti più toccanti dell’incontro la commozione di Paolo Mondani che ha espresso la sua profonda ammirazione per Baroud: “Dopo Rita, parlare non ha senso”, ha detto, anche ricordando la recente scomparsa del giornalista palestinese Ali Rashid, suo amico dai tempi in cui la Palestina era quasi scomparsa dai palinsesti. Gian Mario Gillio, che ha condotto l’incontro con grande moderazione, ha voluto sottolineare la forza e la chiarezza del messaggio di Baroud, riconoscendole il merito di aver restituito dignità alle persone che in questi anni sono rimaste invisibili nelle cronache occidentali. In chiusura, la commozione di Paolo Mondani ha poi lasciato spazio a un lungo abbraccio tra Gian Mario Gillio e la giornalista palestinese; e quella stretta ha riassunto il senso dell’intera serata.

Rio de Janero contro i narcos. Il sindaco: “Non saremo ostaggio di criminali che seminano paura” - Via lastampa.it

Il numero dei morti è cinque volte più alto di quello registrato nell’operazione del maggio 2021 quanto vennero uccise 28 persone
(su lastampa.it --> 
Rio de Janero contro i narcos. Il sindaco: “Non saremo ostaggio di criminali che seminano paura” - La Stampa)

A guardare dall’esterno sembra un set cinematografico, ma non è un film: è Rio de Janeiro il 28 ottobre 2025 nella più letale operazione contro i narcos nella storia del Brasile. La capitale è in stato di guerra: lo scrivono tutti i principali media brasiliani. Il bilancio è – per ora – di 138 morti, tra cui quattro agenti, in seguito all’operazione lanciata da Cláudio Castro – governatore dello Stato di Rio, appartenente al partito di di Bolsonaro – contro la principale fazione criminale della città, il Comando Vermelho, il Comando rosso, una delle più antiche e potenti organizzazioni criminali del paese nata alla fine anni ‘70.

Chiedendo il sostegno del governo federale brasiliano, Castro ha dichiarato che «si tratta di una operazione dello Stato contro i narcoterroristi». 2.500 sarebbero gli uomini dispiegati nei complessi di Alemão e Penha, dove vivono più di 280mila persone in decine di favelas con l’obiettivo di catturare i leader criminali e contenere l'espansione territoriale del comando narcos.

Il numero dei morti è molto più altro di quello registrato nell’operazione del maggio 2021 quanto vennero uccise 28 persone; anche nel maggio 2022 ci fu un’importante operazione con 24 morti, ma nemmeno sommando i morti si arriva a un bilancio del genere in un'unica azione anti-narcos. La polizia della capitale brasiliana ha agito paralizzando un’intera città, con esecuzioni extragiudizili e, secondo quanto si apprende dai giornali locali, oltre ai 138, ci sarebbero stati anche 81 arresti; 93 i fucili sequestrati.

«Oggi è un giorno importante per Rio de Janeiro, la più grande operazione nella storia della nostra polizia. Non ho dubbi che sia un giorno di duro colpo al crimine. La polizia non lascerà le strade fino a quando la situazione non sarà completamente normalizzata», ha spiegato il governatore. E i Narcos non sono rimasti a guardare: mentre la popolazione veniva avvisata su Whatsapp a partecipare ai blocchi stradali, gli uomini del Comando hanno reagito con droni carichi di granate e fucili d’assalto capaci di bloccare elicotteri e autobus.

Intanto, Edgar Alves Andrade, detto Doca da Penha, leader del Comando Vermelho contro cui pendono decine di mandati di cattura per oltre cento omicidi, continua a essere latitante. La guerriglia è stata portata avanti dalle migliaia di affiliati al gruppo che controllano la gran parte delle favelas: i narcos hanno bloccato le superstrade e gli accessi principali nella zona nord e nella zona sud-ovest della città, mandando in tilt la mobilità in tutto il comune, con autobus dati alle fiamme e negozi obbligati ad abbassare le saracinesche per bloccare la attività commerciali; sospese anche le attività degli ospedali e i voli.

È l’apocalisse in una delle giornate più nere del Brasile. Rio De Janeiro è completamente paralizzata: dopo una riunione d’emergenza al Palazzo del Planalto, i ministri Rui Costa (Casa Civil), Ricardo Lewandowski (Giustizia e Sicurezza) arriveranno nella capitale.

Il sindaco Eduardo Paes ha tranquillizzato gli abitanti dichiarando che Rio «non sarà ostaggio di criminali che vogliono seminare la paura per le strade». Le autorità affermano che «la situazione è sotto controllo», ma il livello di sicurezza resterà attivo ancora per ore.

After starvation - Cosa succede a Gaza dopo mesi di fame forzata?

Le persone gravemente malnutrite non possono ricominciare a mangiare così facilmente. Il semplice atto di tornare a mangiare può essere pericoloso, persino letale. Se ne parla in un articolo di Clayton Dalton, medico d’emergenza e collaboratore del New Yorker, che spiega le conseguenze della sindrome da rialimentazione e gli effetti metabolici a lungo termine della fame.

Refeeding Syndrome, la sindrome da rialimentazione
Chi, dopo una fame prolungata, ricomincia a mangiare troppo rapidamente può essere colpito da una grave sindrome metabolica. L’organismo, abituato alla carenza estrema di nutrienti, non riesce a gestire il ritorno improvviso delle calorie: si producono squilibri chimici potenzialmente fatali che possono causare arresto cardiaco, respiratorio o danni cerebrali. Per questo la rialimentazione deve avvenire sotto stretto controllo medico: esami del sangue, monitoraggio continuo, minime quantità di glucosio, e aumento graduale delle calorie. Ovviamente, in un contesto come Gaza, tutto questo è impossibile.

Le conseguenze a lungo termine della starvation
La sindrome da rialimentazione è una conseguenza immediata della malnutrizione. Ma a lungo termine la fame lascia un’impronta profonda nel corpo. Lo studio sulla Dutch Hunger Winter (la carestia olandese del 1944-45) ha mostrato che chi era stato esposto alla fame nel grembo materno o da bambino, decenni dopo, aveva un rischio maggiore di diabete, malattie cardiache e obesità. In sostanza, la fame “programma” il corpo a sopravvivere alla scarsità; ma quando il cibo torna disponibile, quel meccanismo si ribalta: il metabolismo rallenta, il bisogno di accumulo aumenta e si creano le basi per un nuovo eccesso — obesità, alterazioni metaboliche e conseguenze psicologiche.

L’Assemblea generale dell'ONU vota (di nuovo) contro l’embargo a Cuba nonostante le pressioni Usa

È da trentatré anni che l’Assemblea generale delle Nazioni Unite vota contro l’embargo imposto dagli Stati Uniti a Cuba. Anche il 29 ottobre 2025, la maggioranza dei paesi membri ha approvato la risoluzione che chiede la fine del bloqueo, misura coercitiva unilaterale usata come strumento di pressione politica ed economica, in totale violazione del diritto internazionale.

Quest’anno, però, il voto è stato preceduto da un’intensa offensiva diplomatica americana. Secondo fonti riportate da Reuters, l’amministrazione Trump avrebbe fatto circolare un dispaccio interno del Dipartimento di Stato con istruzioni ai propri diplomatici: convincere il maggior numero possibile di paesi a non sostenere la risoluzione, collegando Cuba alla Russia, e alla guerra in Ucraina.
Gli Stati Uniti sostengono infatti che fino a 5.000 cittadini cubani starebbero combattendo come mercenari al fianco delle forze russe. Una tesi che l’Avana ha definito “menzognera e calunniosa”, accusando Washington di manipolare l’opinione pubblica e di fare pressioni soprattutto sui governi latinoamericani ed europei per sabotare il voto.
Le segnalazioni di cubani sul campo di battaglia ucraino dalla parte di Mosca risalgono al 2023, ma l'Avana aveva specificato che si era trattato di mercenari.
Il governo dell’Avana ha sempre negato ogni responsabilità diretta e ha ribadito di
non incoraggiare né autorizzare i propri cittadini a partecipare al conflitto. In più occasioni, il Ministro degli esteri cubano ha affermato che Cuba non fa parte del conflitto in Ucraina, né partecipa con personale militare in alcun paese, e che mantiene una politica di tolleranza zero verso il mercenarismo e il traffico di persone. 
Sebbene l’isola abbia posizioni politiche di vicinanza con la Russia, soprattutto in funzione anti-statunitense, l’Avana ha sempre negato di fornire soldati o risorse militari a Mosca, e ha anzi dichiarato di aver avviato procedimenti penali contro i cittadini cubani coinvolti individualmente in attività di reclutamento illegale.

Un voto indebolito 
Nonostante la campagna diplomatica statunitense, la risoluzione è stata approvata con 165 voti a favore, 7 contrari e 12 astensioni. Gli Stati Uniti hanno trovato l’appoggio – tutt’altro che inatteso – di Israele, Argentina, Ungheria, Ucraina, Macedonia del Nord e Paraguay. Si tratta comunque di un indebolimento rispetto allo scorso anno, quando la stessa risoluzione era passata con 187 voti favorevoli e soltanto due contrari (USA e Israele). Le pressioni di Washington non sono bastate a bloccarla, ma hanno ridotto il consenso internazionale verso Cuba.

Il rito diplomatico Onu che dura da tre decenni e l'Helms-Burton Act
Dal 1992, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite, che conta 193 membri, ha adottato ogni anno la risoluzione contro l’embargo, con l’unica eccezione del 2020 durante la pandemia. Tuttavia, si tratta di un atto politico poiché solo il Congresso degli Stati Uniti ha il potere di revocare formalmente le sanzioni economiche imposte all’isola dai tempi della Guerra Fredda.
Così come ricordato nel testo della risoluzione, il cuore dell’embargo è l'Helms-Burton Act, approvato il 12 marzo 1996, che ha trasformato in legge federale le sanzioni già imposte a Cuba dagli anni Sessanta, rendendone la revoca possibile solo con un atto del Parlamento. La legge ha ulteriormente rafforzato le restrizioni, vietando a cittadini e imprese statunitensi qualsiasi rapporto economico con l’isola e introducendo anche misure extraterritoriali. 
È questa legge, simbolo del prolungato isolamento di Cuba, a mantenere in vita l’embargo e a suscitare ogni anno la condanna quasi unanime delle Nazioni Unite.

La campagna Usa
Secondo il dispaccio diplomatico rivelato da Reuters, l’amministrazione Trump mira a «ridurre significativamente» i voti a favore di Cuba, affermando che la risoluzione «accusa in modo errato gli Stati Uniti dei problemi dell’isola, che derivano dalla corruzione e dall’incompetenza del regime».
Il documento incoraggia i diplomatici americani a votare contro la risoluzione che chiede la fine dell'embargo, ma accetta anche astensioni o assenze come risultato utile. Parallelamente, Washington avrebbe condiviso con i suoi alleati presunti dettagli sul coinvolgimento di cittadini cubani nel conflitto in Ucraina per sostenere la narrativa anti-Avana.
Il governo cubano, da parte sua, respinge ogni accusa e ribadisce che le difficoltà economiche che attraversa l’isola, tra scarsità di beni, infrastrutture al collasso e inflazione, sono conseguenza diretta di oltre sessant’anni di embargo statunitense, “una forma di punizione collettiva” che continua a violare il diritto internazionale.

martedì 21 ottobre 2025

Presidenziali Bolivia: vince il senatore Rodrigo Paz. È la fine di vent’anni di Mas

Dopo le elezioni di agosto che avevano già estromesso il Movimento per il Socialismo dalla competizione elettorale, il senatore Paz vince il ballottaggio. Si insedierà l’8 novembre

di Luisa Foti


Il senatore Rodrigo Paz Pereira sarà il nuovo presidente della Bolivia, dopo la vittoria al ballottaggio nelle elezioni presidenziali. Finiscono così vent’anni di Mas, il movimento delle comunità indigene e contadine crollato al 3% al primo turno.
È il Tribunale elettorale supremo a decretare la vittoria del senatore nato 58 anni fa in Spagna, dove la sua famiglia era fuggita negli anni delle dittature. Figlio d’arte – suo padre è l’ex presidente di sinistra Jaime Paz Zamora, – con un orientamento centrista e uno sguardo a destra, Paz ha una lunga esperienza in politica e si è presentato alle elezioni con il Partito democratico cristiano (Pdc).

Anche se i sondaggi non lo davano come favorito, in molti ci avrebbero scommesso: dietro di lui, infatti, c’era l’ombra, e la spinta social, del suo candidato vicepresidente Edman Lara, un ex poliziotto di destra che aveva fatto parlare di sé per la sua attività contro la corruzione in polizia. Così il Pdc ha trionfato al primo e al secondo turno. Dopo aver vinto alle elezioni di agosto con il 32%, staccando di sei punti l’ex presidente Jorge Quiroga – e di ben 29 il Mas – il senatore ha vinto al ballottaggio con il 54%, lasciando lo sfidante di destra al 45,46%. Paz ha puntato tutto su moderazione, ricerca del consenso degli elettori del Mas, la promessa di un “capitalismo per tutti” e tasse più basse. In politica estera è chiaro da che parte starà: la Bolivia sta «riconquistando il suo posto sulla scena internazionale», ha detto il futuro presidente facendo riferimento alla relazione che intende avere con gli Usa.

Il paese dovrà ripartire da qui, dopo vent’anni di fede incrollabile in quel movimento antimperialista che è – o è stato – il Mas, che nella prossima legislatura avrà soltanto due rappresentanti alla Camera e nessuno al Senato, dopo aver avuto i due terzi del Congresso in quella precedente. Rompendo con gli Usa, Evo Morales aveva portato il paese a sinistra, nazionalizzando le risorse energetiche, redistribuendo la ricchezza e stringendo alleanze con Cina, Russia, Cuba e Venezuela; inoltre, da qualche tempo il Mas vive una crisi profonda causata dalle rivalità interne tra gli ex amici Evo Morales e l’attuale presidente Luis Arce.

Dopo l'annuncio dei risultati, Edman Lara ha lanciato un appello a “unità e riconciliazione”: sono stati mesi difficili, segnati da una campagna elettorale conflittuale e da una situazione economica complicata. Capita spesso di vedere i boliviani fare code per acquistare il carburante a prezzi altissimi perché la Bolivia non riesce più a ottenere dollari come in passato con l’esportazione del gas naturale. Paz ha ora una grande sfida: far uscire il paese dalla crisi e governare senza la maggioranza assoluta, cercando l’appoggio di altri partiti per le riforme.

venerdì 26 settembre 2025

Le dissenting opinion: su ciò che resta della legalità costituzionale americana

In un articolo uscito sull'Atlantic, Aziz Huq, professore di diritto costituzionale all'università di Chigaco, ha spiegato l'importanza delle opinioni dissenzienti dei giudici della Corte Suprema


“Con tutto il rispetto, dissento”.

Con la consueta formula di rito, Sonia Sotomayor chiude la sua dura opinione dissenziente nella causa Department of Homeland Security v. D.V.D. del 3 luglio 2025, circa la deportazione di migranti verso paesi terzi e, in particolare, nel Sud Sudan, senza notifiche né garanzie minime di processo facendo un'evidente violazione del quinto emendamento, del diritto internazionale e delle stesse regole procedurali della Corte.

Nel linguaggio tecnico della giustizia costituzionale americana, la disssenting opinion è lo strumento con cui un giudice prende le distanze dalla decisione adottata dalla maggioranza dei giudici della Corte Suprema motivando nel dettaglio le ragioni giuridiche che impediscono di aderire al verdetto.

Nella sua opinione in dissenzo, Sotomayor accusa il Governo federale e la Corte Suprema di calpestare lo Stato di diritto. “Il Governo vuole fare una cosa concreta: deportare otto cittadini stranieri da Djibouti al Sud Sudan, dove rischiano tortura o morte”.

L’ordine di sospensione della Corte, emesso nell’ambito del cosiddetto Shadow Docket, e cioè un provvedimento urgente e non motivato nel merito, ha permesso all’amministrazione Trump di ignorare una precedente ingiunzione federale. E la Corte, scrive Sotomayor, “non chiarisce nulla, lascia il tribunale distrettuale senza alcuna guida, e consente al Governo di continuare a ignorare le fondamenta del diritto”.

La dissenting opinion della giudice Sotomayor non è isolata. Negli ultimi anni, e in particolare durante il secondo mandato di Donald Trump, le opinioni dissenzienti dei tre giudici liberal della Corte Suprema, Kagan, Sotomayor e Jackson, hanno cambiato natura e funzione: non si limitano più a esprimere un disaccordo giuridico formale ma sono diventate - come spiega Aziz Huq in un recente articolo su The Atlantic, “un grido d’allarme” - un’azione di resistenza istituzionale contro una maggioranza che “non gioca più secondo le regole del diritto costituzionale”.

Nel suo editoriale, The Court’s Liberals Are Trying to Tell Americans Something, Aziz Huq analizza come queste dissenting opinions, pur diverse nello stile, convergano su un punto: la maggioranza conservatrice della Corte non sta semplicemente interpretando diversamente la legge. Sta smantellando i presupposti stessi dello Stato di diritto.

“Le loro critiche all’incoerenza, alle contraddizioni interne e all’offuscamento dei fatti - scrive Huq - servono tutte a dire una cosa: il vecchio gioco del diritto è finito. Siamo in un altro mondo”.

Ogni giudice, come spiega Aziz Huq, ha il suo stile e si concentra su specifici elementi per denunciare la parte conservatrice della Corte Suprema.

La giudice Kagan usa uno stile giuridico più tradizionale, ma sempre più duro: denuncia una Corte che “scrive le sue regole” e compie “una presa di potere”.

Le dissenting opinioni della giudice Sotomayor colpiscono per la denuncia morale e politica: “Nessun diritto è al sicuro”, ha scritto la giudice anche in un’altra opinione sul tema della cittadinanza - “quando la maggioranza favorisce l’amministrazione per motivi politici”.


Jackson, infine, si spinge oltre, intrecciando diritto e storia: nella sua dissenting opinion sul caso dell’affirmative action, costruisce una narrazione che collega gli effetti della sentenza alle “ferite sanguinanti del nostro passato razziale”.

In un altro passaggio, commentando la stessa decisione sullo ius soli, Jackson ha definito il tentativo di Trump di riscrivere il principio della cittadinanza per nascita come una “minaccia esistenziale allo Stato di diritto”.

Ci si chiede a che cosa servano queste opinioni espresse in dissenso rispetto alla maggiornza: come spiega Huq, storicamente, le opinioni dissenzienti hanno avuto scarso impatto immediato, ma in un contesto di disgregazione democratica e sfiducia istituzionale, il loro ruolo è diventato ancora più cruciale: “Non cambieranno le menti di ideologi determinati. Ma rappresentano un’estrema difesa della ragione, dei fatti e della coerenza logica — valori sempre più marginalizzati nel nuovo ordine giudiziario”.

Quelle dei giudici liberal, oggi sono il tentativo disperato e lucido di salvare ciò che resta della legalità costituzionale.


domenica 21 settembre 2025

Colombia, le prime storiche sentenze della Jep

Le prime decisioni del tribunale speciale segnano una svolta nel processo di pace colombiano, tra ricerca di verità, giustizia e accuse di impunità

di Luisa Foti

Otto anni dopo la stretta di mano all’Avana tra l’allora presidente Santos e i vertici delle Farc-Ep (Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia – Ejército del Pueblo) in occasione della firma degli accordi di pace, la Colombia volta pagina con le prime storiche sentenze della Jep, la Jurisdicción Especial para la Paz. Non si tratta solo di un verdetto giudiziario: è un passaggio simbolico che mette alla prova la promessa di una “pace stabile e duratura” fatta nel 2016 dopo oltre cinquant’anni di conflitto armato. E anche se la firma dell’intesa non ha significato la fine della violenza – perché in diverse regioni del Paese restano attivi gruppi dissidenti delle Farc smobilitate e altre formazioni armate – quegli accordi, e ora anche queste due decisioni, rappresentano un punto di svolta in un processo di pace per cui il popolo colombiano lotta da decenni.
La Jep, il tribunale speciale, nasce proprio da quell’intesa, da quel sogno di riconciliazione e ricerca della verità che valse all’ex presidente Santos il Premio Nobel per la Pace. In un Paese che conta più di 220mila morti, quasi 7 milioni di sfollati, 45mila sparizioni forzate e tante ferite ancora aperte, la missione del tribunale speciale è duplice: restituire verità alle vittime e garantire che crimini sistematici come sequestri, sparizioni forzate, massacri e falsos positivos non restino impuniti, anche se attraverso modalità differenti da quelle tipiche della giustizia tradizionale.

Chi sono i sette condannati ex comandanti delle Farc
Sette ex comandanti delle Farc sono stati riconosciuti colpevoli di crimini contro l’umanità. La condanna, però, non consiste in pene detentive: gli ex guerriglieri sconteranno otto anni di pene alternative al carcere che consisteranno in lavori di sminamento, progetti di recupero ambientale, ricerca delle persone scomparse e iniziative di memoria e verità.
Si tratta di: Rodrigo Londoño Echeverri, conosciuto come Timochenko, come tributo al maresciallo sovietico Semyon Timoshenko; El Pastor Alape Lascarro, alias di Milton de Jesús Toncel Redondo, membro del segretariato, uomo con formazione religiosa; Joaquín Gómez, storico comandante delle Farc succeduto a Iván Ríos nel Bloque Sur; Jaime Alberto Parra Rodríguez, detto El Médico perché dottore di professione, nonché uno dei dirigenti più influenti dell’organizzazione; Pablo Catatumbo Torres Victoria, comandante del Bloque Occidental, poi negoziatore all’Avana; Rodrigo Granda Escobar, conosciuto come il cancelliere dell’organizzazione marxista-leninista per i suoi rapporti internazionali; infine Julián Gallo Cubillos, alias Carlos Antonio Lozada, comandante e poi senatore dopo il 2016.

Le reazioni

È la prima volta che l’organo giudiziario speciale, nato proprio per dare senso alla transizione, emette due sentenze di questa portata, e le reazioni non sono state unanimi – vale ricordare che lo stesso accordo di pace fu respinto con referendum.
In molti hanno criticato il modello di giustizia riparativa che non prevede neanche un giorno di carcere per chi si è macchiato di torture, violenze sessuali, sparizioni forzate e altri crimini contro l’umanità. A far discutere, inoltre, anche il fatto che i condannati non perderanno i diritti politici: due di loro, Pablo Catatumbo e Julián Gallo siedono tuttora in Parlamento, eletti con il partito Comunes, erede politico delle Farc.
«La decisione della Jep è tardiva, ma storica: impone le prime sanzioni al segretariato delle antiche Farc, in adempimento di quanto stabilito nell’accordo di pace e nella norma costituzionale» ha dichiarato Juan Fernando Cristo, ex ministro dell’interno del governo Santos che ha svolto un ruolo chiave nella negoziazione e nell'attuazione dell’intesa del 2016.
Secondo María Fernanda Carrascal, attivista e parlamentare colombiana, «La sentenza della Jep è un traguardo di un processo ancora incompiuto, in cui come Paese cerchiamo di trovare strade per guarire le ferite, scoprire la verità, avanzare nella riconciliazione e ottenere giustizia».
Vicky Dávila
, giornalista e attuale candidata per le presidenziali del 2026, ha invece accusato l’ex presidente Santos in quanto avrebbe «deviato il cammino» tradendo le vittime e dando impunità ai carnefici. Tenuto prigioniero per sette anni, unico sopravvissuto tra gli undici deputati uccisi dalle Farc, Sigifredo López, ha detto che la decisione non rispetta la sua dignità e l'ha accolta con molta delusione.
Non è mancata la reazione di Íngrid Betancourt: l’ex candidata presidenziale rapita nel 2002 e tenuta in ostaggio per oltre sei anni nella selva ha espresso tutta la sua contrarietà – «I criminali sono quelli che oggi vengono premiati; le vittime restano inascoltate» – e ha annunciato ricorsi non solo presso la Jep ma anche a livello internazionale.

La verità sui falsos positivos
Accanto alla sentenza sui vertici delle Farc, la Jep ha emesso una decisione storica anche su un altro capitolo buio: i cosiddetti falsos positivos.
Per anni, reparti dell’esercito colombiano hanno ucciso civili innocenti facendoli passare per guerriglieri caduti in combattimento, in cambio di incentivi e promozioni. Si stima che le vittime siano state circa 6.500.
Dodici ex militari del battaglione La Popa sono stati riconosciuti colpevoli. Anche per loro la pena non è il carcere ma fino a otto anni di lavori comunitari: opere di memoria per le vittime e progetti a favore delle comunità colpite. Per i gradi più alti che non hanno confessato le proprie responsabilità restano aperti processi ordinari che potrebbero portare fino a vent’anni di reclusione.

Pace imperfetta, conflitto che continua
Nonostante la riconciliazione del 2016, la Colombia non è ancora davvero pacificata. Una parte degli ex guerriglieri Farc-Ep non ha mai deposto le armi e la lotta è confluita in nuove sigle dissidenti che oggi controllano traffici e territori. Il Paese è tornato sotto attacco: imboscate, sequestri e attentati minano la sicurezza del Paese, soprattutto nelle aree rurali. Il governo Petro, che ha fatto della paz total il suo obiettivo, si trova così a trattare con attori armati frammentati e spesso meno controllabili della guerriglia originale.

Le tensioni con gli Stati Uniti
Il contesto attuale in Colombia è tutt’altro che stabile: gli Stati Uniti hanno decertificato la Colombia come Paese impegnato nella lotta al narcotraffico, accusandola di non fare abbastanza. Petro ha reagito duramente: ha ricordato le migliaia di vite colombiane sacrificate nella guerra alla droga e ha sottolineato come la cocaina sia in parte un costrutto economico dell’Occidente, un fenomeno capitalistico che criminalizza la foglia di coca, simbolo culturale e identitario per molte comunità andine.

Verità contro giustizia?
La Jep rappresenta un esperimento unico di giustizia transizionale: non una giustizia puramente punitiva, ma riparativa il cui obiettivo principale è un esercizio di verità.
Gli accordi di pace non sono stati concepiti per riempire le carceri, ma per garantire che le vittime e le loro famiglie sapessero che cosa è accaduto ai loro cari, vivi o scomparsi. Per questo l’intesa si basa su una deroga alla giustizia ordinaria per mettere la verità al centro. Una verità che, seppur dolorosa, è il fondamento di qualsiasi riconciliazione. La pace che ne deriva è imperfetta – ancora da costruire – ma è forse l’unica possibile.