giovedì 30 ottobre 2025

Testimone del Premio Morrione è Rita Baroud, la giornalista che ha raccontato Gaza con il suo Diario per la Repubblica - via articolo 21

via Articolo 21 

di Luisa Foti 

“Vogliamo solo vivere la nostra vita senza essere uccisi; fate in modo che siano i palestinesi a parlare della loro terra. In giro vedo soltanto la prospettiva occidentale”.

È questo, in sintesi, il cuore del pensiero di Rita Baroud, giornalista palestinese Gen Z, premiata come Testimone del Premio Morrione, per il suo racconto quotidiano del genocidio di Gaza attraverso il suo “Diario” su la Repubblica. Pur appartenendo a una generazione cresciuta con i social network e i video virali, Rita ha scelto consapevolmente di affidare la propria testimonianza non solo ai post o ai reel di Instagram, ma soprattutto alle parole scritte: un diario, un articolo al giorno, come atto di resistenza e memoria.

Durante la giornata finale del Premio, è stato il giornalista Gian Mario Gillio a moderare il dibattito con Rita Baroud e con Paolo Mondani – reporter investigativo, premiato con il riconoscimento Baffo Rosso per le sue inchieste su Report: ne è nato in un confronto profondo sul ruolo dell’informazione nei conflitti e sulla responsabilità etica del giornalismo.

“Non è facile essere una giornalista e dover raccontare la sofferenza del tuo popolo”, ha spiegato Baroud che ha iniziato a conoscere la guerra da quando aveva 5 anni.

“Ogni tanto mi pento di essere diventata una giornalista: avevo vent’anni quando ho iniziato a scrivere; all’epoca volevo semplicemente vivere la mia vita da adolescente invece di dover raccontare il genocidio e spiegare che non tutto è iniziato il 7 ottobre 2023”. E quel racconto è diventato un dovere perché “parliamo di un’occupazione che nasce più di 70 anni fa”.

Durante l’incontro, si è parlato della tragedia della popolazione di Gaza e dei tentativi in corso per provare a ricominciare a vivere dopo il cessate il fuoco: per i palestinesi non è soltanto una questione di pace, ma anche di come decidere il proprio futuro, da protagonisti.

“Molti politici vogliono decidere sulla nostra pelle, ma stiamo parlando della nostra vita”, spiega Rita con parole che suonano come un chiaro riferimento all’accordo di cessate il fuoco che nulla ha a che fare con una vera pace né con la liberazione del popolo palestinese. E la liberazione parte anche dalle parole: perché si continua a parlare di “ostaggi israeliani” e di “prigionieri palestinesi”, quando molti palestinesi vengono trattenuti nelle carceri israeliane senza accuse formali, in condizioni che li rendono ostaggi a tutti gli effetti? Se l’è chiesto più volte anche la giornalista di Gaza, soprattutto quando ha riflettuto sul fatto che questo genocidio è stato raccontato con un certo orientalismo: “In giro vedo solo il punto di vista occidentale, e non quello dei palestinesi; è giusto che l’Occidente se ne occupi, ma è altrettanto essenziale che la narrazione nasca da chi vive quella realtà sulla propria pelle”.

Tra i momenti più toccanti dell’incontro la commozione di Paolo Mondani che ha espresso la sua profonda ammirazione per Baroud: “Dopo Rita, parlare non ha senso”, ha detto, anche ricordando la recente scomparsa del giornalista palestinese Ali Rashid, suo amico dai tempi in cui la Palestina era quasi scomparsa dai palinsesti. Gian Mario Gillio, che ha condotto l’incontro con grande moderazione, ha voluto sottolineare la forza e la chiarezza del messaggio di Baroud, riconoscendole il merito di aver restituito dignità alle persone che in questi anni sono rimaste invisibili nelle cronache occidentali. In chiusura, la commozione di Paolo Mondani ha poi lasciato spazio a un lungo abbraccio tra Gian Mario Gillio e la giornalista palestinese; e quella stretta ha riassunto il senso dell’intera serata.

Rio de Janero contro i narcos. Il sindaco: “Non saremo ostaggio di criminali che seminano paura” - Via lastampa.it

Il numero dei morti è cinque volte più alto di quello registrato nell’operazione del maggio 2021 quanto vennero uccise 28 persone
(su lastampa.it --> 
Rio de Janero contro i narcos. Il sindaco: “Non saremo ostaggio di criminali che seminano paura” - La Stampa)

A guardare dall’esterno sembra un set cinematografico, ma non è un film: è Rio de Janeiro il 28 ottobre 2025 nella più letale operazione contro i narcos nella storia del Brasile. La capitale è in stato di guerra: lo scrivono tutti i principali media brasiliani. Il bilancio è – per ora – di 138 morti, tra cui quattro agenti, in seguito all’operazione lanciata da Cláudio Castro – governatore dello Stato di Rio, appartenente al partito di di Bolsonaro – contro la principale fazione criminale della città, il Comando Vermelho, il Comando rosso, una delle più antiche e potenti organizzazioni criminali del paese nata alla fine anni ‘70.

Chiedendo il sostegno del governo federale brasiliano, Castro ha dichiarato che «si tratta di una operazione dello Stato contro i narcoterroristi». 2.500 sarebbero gli uomini dispiegati nei complessi di Alemão e Penha, dove vivono più di 280mila persone in decine di favelas con l’obiettivo di catturare i leader criminali e contenere l'espansione territoriale del comando narcos.

Il numero dei morti è molto più altro di quello registrato nell’operazione del maggio 2021 quanto vennero uccise 28 persone; anche nel maggio 2022 ci fu un’importante operazione con 24 morti, ma nemmeno sommando i morti si arriva a un bilancio del genere in un'unica azione anti-narcos. La polizia della capitale brasiliana ha agito paralizzando un’intera città, con esecuzioni extragiudizili e, secondo quanto si apprende dai giornali locali, oltre ai 138, ci sarebbero stati anche 81 arresti; 93 i fucili sequestrati.

«Oggi è un giorno importante per Rio de Janeiro, la più grande operazione nella storia della nostra polizia. Non ho dubbi che sia un giorno di duro colpo al crimine. La polizia non lascerà le strade fino a quando la situazione non sarà completamente normalizzata», ha spiegato il governatore. E i Narcos non sono rimasti a guardare: mentre la popolazione veniva avvisata su Whatsapp a partecipare ai blocchi stradali, gli uomini del Comando hanno reagito con droni carichi di granate e fucili d’assalto capaci di bloccare elicotteri e autobus.

Intanto, Edgar Alves Andrade, detto Doca da Penha, leader del Comando Vermelho contro cui pendono decine di mandati di cattura per oltre cento omicidi, continua a essere latitante. La guerriglia è stata portata avanti dalle migliaia di affiliati al gruppo che controllano la gran parte delle favelas: i narcos hanno bloccato le superstrade e gli accessi principali nella zona nord e nella zona sud-ovest della città, mandando in tilt la mobilità in tutto il comune, con autobus dati alle fiamme e negozi obbligati ad abbassare le saracinesche per bloccare la attività commerciali; sospese anche le attività degli ospedali e i voli.

È l’apocalisse in una delle giornate più nere del Brasile. Rio De Janeiro è completamente paralizzata: dopo una riunione d’emergenza al Palazzo del Planalto, i ministri Rui Costa (Casa Civil), Ricardo Lewandowski (Giustizia e Sicurezza) arriveranno nella capitale.

Il sindaco Eduardo Paes ha tranquillizzato gli abitanti dichiarando che Rio «non sarà ostaggio di criminali che vogliono seminare la paura per le strade». Le autorità affermano che «la situazione è sotto controllo», ma il livello di sicurezza resterà attivo ancora per ore.

After starvation - Cosa succede a Gaza dopo mesi di fame forzata?

Le persone gravemente malnutrite non possono ricominciare a mangiare così facilmente. Il semplice atto di tornare a mangiare può essere pericoloso, persino letale. Se ne parla in un articolo di Clayton Dalton, medico d’emergenza e collaboratore del New Yorker, che spiega le conseguenze della sindrome da rialimentazione e gli effetti metabolici a lungo termine della fame.

Refeeding Syndrome, la sindrome da rialimentazione
Chi, dopo una fame prolungata, ricomincia a mangiare troppo rapidamente può essere colpito da una grave sindrome metabolica. L’organismo, abituato alla carenza estrema di nutrienti, non riesce a gestire il ritorno improvviso delle calorie: si producono squilibri chimici potenzialmente fatali che possono causare arresto cardiaco, respiratorio o danni cerebrali. Per questo la rialimentazione deve avvenire sotto stretto controllo medico: esami del sangue, monitoraggio continuo, minime quantità di glucosio, e aumento graduale delle calorie. Ovviamente, in un contesto come Gaza, tutto questo è impossibile.

Le conseguenze a lungo termine della starvation
La sindrome da rialimentazione è una conseguenza immediata della malnutrizione. Ma a lungo termine la fame lascia un’impronta profonda nel corpo. Lo studio sulla Dutch Hunger Winter (la carestia olandese del 1944-45) ha mostrato che chi era stato esposto alla fame nel grembo materno o da bambino, decenni dopo, aveva un rischio maggiore di diabete, malattie cardiache e obesità. In sostanza, la fame “programma” il corpo a sopravvivere alla scarsità; ma quando il cibo torna disponibile, quel meccanismo si ribalta: il metabolismo rallenta, il bisogno di accumulo aumenta e si creano le basi per un nuovo eccesso — obesità, alterazioni metaboliche e conseguenze psicologiche.

L’Assemblea generale dell'ONU vota (di nuovo) contro l’embargo a Cuba nonostante le pressioni Usa

È da trentatré anni che l’Assemblea generale delle Nazioni Unite vota contro l’embargo imposto dagli Stati Uniti a Cuba. Anche il 29 ottobre 2025, la maggioranza dei paesi membri ha approvato la risoluzione che chiede la fine del bloqueo, misura coercitiva unilaterale usata come strumento di pressione politica ed economica, in totale violazione del diritto internazionale.

Quest’anno, però, il voto è stato preceduto da un’intensa offensiva diplomatica americana. Secondo fonti riportate da Reuters, l’amministrazione Trump avrebbe fatto circolare un dispaccio interno del Dipartimento di Stato con istruzioni ai propri diplomatici: convincere il maggior numero possibile di paesi a non sostenere la risoluzione, collegando Cuba alla Russia, e alla guerra in Ucraina.
Gli Stati Uniti sostengono infatti che fino a 5.000 cittadini cubani starebbero combattendo come mercenari al fianco delle forze russe. Una tesi che l’Avana ha definito “menzognera e calunniosa”, accusando Washington di manipolare l’opinione pubblica e di fare pressioni soprattutto sui governi latinoamericani ed europei per sabotare il voto.
Le segnalazioni di cubani sul campo di battaglia ucraino dalla parte di Mosca risalgono al 2023, ma l'Avana aveva specificato che si era trattato di mercenari.
Il governo dell’Avana ha sempre negato ogni responsabilità diretta e ha ribadito di
non incoraggiare né autorizzare i propri cittadini a partecipare al conflitto. In più occasioni, il Ministro degli esteri cubano ha affermato che Cuba non fa parte del conflitto in Ucraina, né partecipa con personale militare in alcun paese, e che mantiene una politica di tolleranza zero verso il mercenarismo e il traffico di persone. 
Sebbene l’isola abbia posizioni politiche di vicinanza con la Russia, soprattutto in funzione anti-statunitense, l’Avana ha sempre negato di fornire soldati o risorse militari a Mosca, e ha anzi dichiarato di aver avviato procedimenti penali contro i cittadini cubani coinvolti individualmente in attività di reclutamento illegale.

Un voto indebolito 
Nonostante la campagna diplomatica statunitense, la risoluzione è stata approvata con 165 voti a favore, 7 contrari e 12 astensioni. Gli Stati Uniti hanno trovato l’appoggio – tutt’altro che inatteso – di Israele, Argentina, Ungheria, Ucraina, Macedonia del Nord e Paraguay. Si tratta comunque di un indebolimento rispetto allo scorso anno, quando la stessa risoluzione era passata con 187 voti favorevoli e soltanto due contrari (USA e Israele). Le pressioni di Washington non sono bastate a bloccarla, ma hanno ridotto il consenso internazionale verso Cuba.

Il rito diplomatico Onu che dura da tre decenni e l'Helms-Burton Act
Dal 1992, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite, che conta 193 membri, ha adottato ogni anno la risoluzione contro l’embargo, con l’unica eccezione del 2020 durante la pandemia. Tuttavia, si tratta di un atto politico poiché solo il Congresso degli Stati Uniti ha il potere di revocare formalmente le sanzioni economiche imposte all’isola dai tempi della Guerra Fredda.
Così come ricordato nel testo della risoluzione, il cuore dell’embargo è l'Helms-Burton Act, approvato il 12 marzo 1996, che ha trasformato in legge federale le sanzioni già imposte a Cuba dagli anni Sessanta, rendendone la revoca possibile solo con un atto del Parlamento. La legge ha ulteriormente rafforzato le restrizioni, vietando a cittadini e imprese statunitensi qualsiasi rapporto economico con l’isola e introducendo anche misure extraterritoriali. 
È questa legge, simbolo del prolungato isolamento di Cuba, a mantenere in vita l’embargo e a suscitare ogni anno la condanna quasi unanime delle Nazioni Unite.

La campagna Usa
Secondo il dispaccio diplomatico rivelato da Reuters, l’amministrazione Trump mira a «ridurre significativamente» i voti a favore di Cuba, affermando che la risoluzione «accusa in modo errato gli Stati Uniti dei problemi dell’isola, che derivano dalla corruzione e dall’incompetenza del regime».
Il documento incoraggia i diplomatici americani a votare contro la risoluzione che chiede la fine dell'embargo, ma accetta anche astensioni o assenze come risultato utile. Parallelamente, Washington avrebbe condiviso con i suoi alleati presunti dettagli sul coinvolgimento di cittadini cubani nel conflitto in Ucraina per sostenere la narrativa anti-Avana.
Il governo cubano, da parte sua, respinge ogni accusa e ribadisce che le difficoltà economiche che attraversa l’isola, tra scarsità di beni, infrastrutture al collasso e inflazione, sono conseguenza diretta di oltre sessant’anni di embargo statunitense, “una forma di punizione collettiva” che continua a violare il diritto internazionale.

martedì 21 ottobre 2025

Presidenziali Bolivia: vince il senatore Rodrigo Paz. È la fine di vent’anni di Mas

Dopo le elezioni di agosto che avevano già estromesso il Movimento per il Socialismo dalla competizione elettorale, il senatore Paz vince il ballottaggio. Si insedierà l’8 novembre

di Luisa Foti


Il senatore Rodrigo Paz Pereira sarà il nuovo presidente della Bolivia, dopo la vittoria al ballottaggio nelle elezioni presidenziali. Finiscono così vent’anni di Mas, il movimento delle comunità indigene e contadine crollato al 3% al primo turno.
È il Tribunale elettorale supremo a decretare la vittoria del senatore nato 58 anni fa in Spagna, dove la sua famiglia era fuggita negli anni delle dittature. Figlio d’arte – suo padre è l’ex presidente di sinistra Jaime Paz Zamora, – con un orientamento centrista e uno sguardo a destra, Paz ha una lunga esperienza in politica e si è presentato alle elezioni con il Partito democratico cristiano (Pdc).

Anche se i sondaggi non lo davano come favorito, in molti ci avrebbero scommesso: dietro di lui, infatti, c’era l’ombra, e la spinta social, del suo candidato vicepresidente Edman Lara, un ex poliziotto di destra che aveva fatto parlare di sé per la sua attività contro la corruzione in polizia. Così il Pdc ha trionfato al primo e al secondo turno. Dopo aver vinto alle elezioni di agosto con il 32%, staccando di sei punti l’ex presidente Jorge Quiroga – e di ben 29 il Mas – il senatore ha vinto al ballottaggio con il 54%, lasciando lo sfidante di destra al 45,46%. Paz ha puntato tutto su moderazione, ricerca del consenso degli elettori del Mas, la promessa di un “capitalismo per tutti” e tasse più basse. In politica estera è chiaro da che parte starà: la Bolivia sta «riconquistando il suo posto sulla scena internazionale», ha detto il futuro presidente facendo riferimento alla relazione che intende avere con gli Usa.

Il paese dovrà ripartire da qui, dopo vent’anni di fede incrollabile in quel movimento antimperialista che è – o è stato – il Mas, che nella prossima legislatura avrà soltanto due rappresentanti alla Camera e nessuno al Senato, dopo aver avuto i due terzi del Congresso in quella precedente. Rompendo con gli Usa, Evo Morales aveva portato il paese a sinistra, nazionalizzando le risorse energetiche, redistribuendo la ricchezza e stringendo alleanze con Cina, Russia, Cuba e Venezuela; inoltre, da qualche tempo il Mas vive una crisi profonda causata dalle rivalità interne tra gli ex amici Evo Morales e l’attuale presidente Luis Arce.

Dopo l'annuncio dei risultati, Edman Lara ha lanciato un appello a “unità e riconciliazione”: sono stati mesi difficili, segnati da una campagna elettorale conflittuale e da una situazione economica complicata. Capita spesso di vedere i boliviani fare code per acquistare il carburante a prezzi altissimi perché la Bolivia non riesce più a ottenere dollari come in passato con l’esportazione del gas naturale. Paz ha ora una grande sfida: far uscire il paese dalla crisi e governare senza la maggioranza assoluta, cercando l’appoggio di altri partiti per le riforme.

venerdì 26 settembre 2025

Le dissenting opinion: su ciò che resta della legalità costituzionale americana

In un articolo uscito sull'Atlantic, Aziz Huq, professore di diritto costituzionale all'università di Chigaco, ha spiegato l'importanza delle opinioni dissenzienti dei giudici della Corte Suprema


“Con tutto il rispetto, dissento”.

Con la consueta formula di rito, Sonia Sotomayor chiude la sua dura opinione dissenziente nella causa Department of Homeland Security v. D.V.D. del 3 luglio 2025, circa la deportazione di migranti verso paesi terzi e, in particolare, nel Sud Sudan, senza notifiche né garanzie minime di processo facendo un'evidente violazione del quinto emendamento, del diritto internazionale e delle stesse regole procedurali della Corte.

Nel linguaggio tecnico della giustizia costituzionale americana, la disssenting opinion è lo strumento con cui un giudice prende le distanze dalla decisione adottata dalla maggioranza dei giudici della Corte Suprema motivando nel dettaglio le ragioni giuridiche che impediscono di aderire al verdetto.

Nella sua opinione in dissenzo, Sotomayor accusa il Governo federale e la Corte Suprema di calpestare lo Stato di diritto. “Il Governo vuole fare una cosa concreta: deportare otto cittadini stranieri da Djibouti al Sud Sudan, dove rischiano tortura o morte”.

L’ordine di sospensione della Corte, emesso nell’ambito del cosiddetto Shadow Docket, e cioè un provvedimento urgente e non motivato nel merito, ha permesso all’amministrazione Trump di ignorare una precedente ingiunzione federale. E la Corte, scrive Sotomayor, “non chiarisce nulla, lascia il tribunale distrettuale senza alcuna guida, e consente al Governo di continuare a ignorare le fondamenta del diritto”.

La dissenting opinion della giudice Sotomayor non è isolata. Negli ultimi anni, e in particolare durante il secondo mandato di Donald Trump, le opinioni dissenzienti dei tre giudici liberal della Corte Suprema, Kagan, Sotomayor e Jackson, hanno cambiato natura e funzione: non si limitano più a esprimere un disaccordo giuridico formale ma sono diventate - come spiega Aziz Huq in un recente articolo su The Atlantic, “un grido d’allarme” - un’azione di resistenza istituzionale contro una maggioranza che “non gioca più secondo le regole del diritto costituzionale”.

Nel suo editoriale, The Court’s Liberals Are Trying to Tell Americans Something, Aziz Huq analizza come queste dissenting opinions, pur diverse nello stile, convergano su un punto: la maggioranza conservatrice della Corte non sta semplicemente interpretando diversamente la legge. Sta smantellando i presupposti stessi dello Stato di diritto.

“Le loro critiche all’incoerenza, alle contraddizioni interne e all’offuscamento dei fatti - scrive Huq - servono tutte a dire una cosa: il vecchio gioco del diritto è finito. Siamo in un altro mondo”.

Ogni giudice, come spiega Aziz Huq, ha il suo stile e si concentra su specifici elementi per denunciare la parte conservatrice della Corte Suprema.

La giudice Kagan usa uno stile giuridico più tradizionale, ma sempre più duro: denuncia una Corte che “scrive le sue regole” e compie “una presa di potere”.

Le dissenting opinioni della giudice Sotomayor colpiscono per la denuncia morale e politica: “Nessun diritto è al sicuro”, ha scritto la giudice anche in un’altra opinione sul tema della cittadinanza - “quando la maggioranza favorisce l’amministrazione per motivi politici”.


Jackson, infine, si spinge oltre, intrecciando diritto e storia: nella sua dissenting opinion sul caso dell’affirmative action, costruisce una narrazione che collega gli effetti della sentenza alle “ferite sanguinanti del nostro passato razziale”.

In un altro passaggio, commentando la stessa decisione sullo ius soli, Jackson ha definito il tentativo di Trump di riscrivere il principio della cittadinanza per nascita come una “minaccia esistenziale allo Stato di diritto”.

Ci si chiede a che cosa servano queste opinioni espresse in dissenso rispetto alla maggiornza: come spiega Huq, storicamente, le opinioni dissenzienti hanno avuto scarso impatto immediato, ma in un contesto di disgregazione democratica e sfiducia istituzionale, il loro ruolo è diventato ancora più cruciale: “Non cambieranno le menti di ideologi determinati. Ma rappresentano un’estrema difesa della ragione, dei fatti e della coerenza logica — valori sempre più marginalizzati nel nuovo ordine giudiziario”.

Quelle dei giudici liberal, oggi sono il tentativo disperato e lucido di salvare ciò che resta della legalità costituzionale.


domenica 21 settembre 2025

Colombia, le prime storiche sentenze della Jep

Le prime decisioni del tribunale speciale segnano una svolta nel processo di pace colombiano, tra ricerca di verità, giustizia e accuse di impunità

di Luisa Foti

Otto anni dopo la stretta di mano all’Avana tra l’allora presidente Santos e i vertici delle Farc-Ep (Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia – Ejército del Pueblo) in occasione della firma degli accordi di pace, la Colombia volta pagina con le prime storiche sentenze della Jep, la Jurisdicción Especial para la Paz. Non si tratta solo di un verdetto giudiziario: è un passaggio simbolico che mette alla prova la promessa di una “pace stabile e duratura” fatta nel 2016 dopo oltre cinquant’anni di conflitto armato. E anche se la firma dell’intesa non ha significato la fine della violenza – perché in diverse regioni del Paese restano attivi gruppi dissidenti delle Farc smobilitate e altre formazioni armate – quegli accordi, e ora anche queste due decisioni, rappresentano un punto di svolta in un processo di pace per cui il popolo colombiano lotta da decenni.
La Jep, il tribunale speciale, nasce proprio da quell’intesa, da quel sogno di riconciliazione e ricerca della verità che valse all’ex presidente Santos il Premio Nobel per la Pace. In un Paese che conta più di 220mila morti, quasi 7 milioni di sfollati, 45mila sparizioni forzate e tante ferite ancora aperte, la missione del tribunale speciale è duplice: restituire verità alle vittime e garantire che crimini sistematici come sequestri, sparizioni forzate, massacri e falsos positivos non restino impuniti, anche se attraverso modalità differenti da quelle tipiche della giustizia tradizionale.

Chi sono i sette condannati ex comandanti delle Farc
Sette ex comandanti delle Farc sono stati riconosciuti colpevoli di crimini contro l’umanità. La condanna, però, non consiste in pene detentive: gli ex guerriglieri sconteranno otto anni di pene alternative al carcere che consisteranno in lavori di sminamento, progetti di recupero ambientale, ricerca delle persone scomparse e iniziative di memoria e verità.
Si tratta di: Rodrigo Londoño Echeverri, conosciuto come Timochenko, come tributo al maresciallo sovietico Semyon Timoshenko; El Pastor Alape Lascarro, alias di Milton de Jesús Toncel Redondo, membro del segretariato, uomo con formazione religiosa; Joaquín Gómez, storico comandante delle Farc succeduto a Iván Ríos nel Bloque Sur; Jaime Alberto Parra Rodríguez, detto El Médico perché dottore di professione, nonché uno dei dirigenti più influenti dell’organizzazione; Pablo Catatumbo Torres Victoria, comandante del Bloque Occidental, poi negoziatore all’Avana; Rodrigo Granda Escobar, conosciuto come il cancelliere dell’organizzazione marxista-leninista per i suoi rapporti internazionali; infine Julián Gallo Cubillos, alias Carlos Antonio Lozada, comandante e poi senatore dopo il 2016.

Le reazioni

È la prima volta che l’organo giudiziario speciale, nato proprio per dare senso alla transizione, emette due sentenze di questa portata, e le reazioni non sono state unanimi – vale ricordare che lo stesso accordo di pace fu respinto con referendum.
In molti hanno criticato il modello di giustizia riparativa che non prevede neanche un giorno di carcere per chi si è macchiato di torture, violenze sessuali, sparizioni forzate e altri crimini contro l’umanità. A far discutere, inoltre, anche il fatto che i condannati non perderanno i diritti politici: due di loro, Pablo Catatumbo e Julián Gallo siedono tuttora in Parlamento, eletti con il partito Comunes, erede politico delle Farc.
«La decisione della Jep è tardiva, ma storica: impone le prime sanzioni al segretariato delle antiche Farc, in adempimento di quanto stabilito nell’accordo di pace e nella norma costituzionale» ha dichiarato Juan Fernando Cristo, ex ministro dell’interno del governo Santos che ha svolto un ruolo chiave nella negoziazione e nell'attuazione dell’intesa del 2016.
Secondo María Fernanda Carrascal, attivista e parlamentare colombiana, «La sentenza della Jep è un traguardo di un processo ancora incompiuto, in cui come Paese cerchiamo di trovare strade per guarire le ferite, scoprire la verità, avanzare nella riconciliazione e ottenere giustizia».
Vicky Dávila
, giornalista e attuale candidata per le presidenziali del 2026, ha invece accusato l’ex presidente Santos in quanto avrebbe «deviato il cammino» tradendo le vittime e dando impunità ai carnefici. Tenuto prigioniero per sette anni, unico sopravvissuto tra gli undici deputati uccisi dalle Farc, Sigifredo López, ha detto che la decisione non rispetta la sua dignità e l'ha accolta con molta delusione.
Non è mancata la reazione di Íngrid Betancourt: l’ex candidata presidenziale rapita nel 2002 e tenuta in ostaggio per oltre sei anni nella selva ha espresso tutta la sua contrarietà – «I criminali sono quelli che oggi vengono premiati; le vittime restano inascoltate» – e ha annunciato ricorsi non solo presso la Jep ma anche a livello internazionale.

La verità sui falsos positivos
Accanto alla sentenza sui vertici delle Farc, la Jep ha emesso una decisione storica anche su un altro capitolo buio: i cosiddetti falsos positivos.
Per anni, reparti dell’esercito colombiano hanno ucciso civili innocenti facendoli passare per guerriglieri caduti in combattimento, in cambio di incentivi e promozioni. Si stima che le vittime siano state circa 6.500.
Dodici ex militari del battaglione La Popa sono stati riconosciuti colpevoli. Anche per loro la pena non è il carcere ma fino a otto anni di lavori comunitari: opere di memoria per le vittime e progetti a favore delle comunità colpite. Per i gradi più alti che non hanno confessato le proprie responsabilità restano aperti processi ordinari che potrebbero portare fino a vent’anni di reclusione.

Pace imperfetta, conflitto che continua
Nonostante la riconciliazione del 2016, la Colombia non è ancora davvero pacificata. Una parte degli ex guerriglieri Farc-Ep non ha mai deposto le armi e la lotta è confluita in nuove sigle dissidenti che oggi controllano traffici e territori. Il Paese è tornato sotto attacco: imboscate, sequestri e attentati minano la sicurezza del Paese, soprattutto nelle aree rurali. Il governo Petro, che ha fatto della paz total il suo obiettivo, si trova così a trattare con attori armati frammentati e spesso meno controllabili della guerriglia originale.

Le tensioni con gli Stati Uniti
Il contesto attuale in Colombia è tutt’altro che stabile: gli Stati Uniti hanno decertificato la Colombia come Paese impegnato nella lotta al narcotraffico, accusandola di non fare abbastanza. Petro ha reagito duramente: ha ricordato le migliaia di vite colombiane sacrificate nella guerra alla droga e ha sottolineato come la cocaina sia in parte un costrutto economico dell’Occidente, un fenomeno capitalistico che criminalizza la foglia di coca, simbolo culturale e identitario per molte comunità andine.

Verità contro giustizia?
La Jep rappresenta un esperimento unico di giustizia transizionale: non una giustizia puramente punitiva, ma riparativa il cui obiettivo principale è un esercizio di verità.
Gli accordi di pace non sono stati concepiti per riempire le carceri, ma per garantire che le vittime e le loro famiglie sapessero che cosa è accaduto ai loro cari, vivi o scomparsi. Per questo l’intesa si basa su una deroga alla giustizia ordinaria per mettere la verità al centro. Una verità che, seppur dolorosa, è il fondamento di qualsiasi riconciliazione. La pace che ne deriva è imperfetta – ancora da costruire – ma è forse l’unica possibile.

venerdì 22 agosto 2025

La furia dell’ICE non risparmia nemmeno i pro-Trump

L’agenzia federale che si occupa del controllo della sicurezza delle frontiere e dell’immigrazione ha

arrestato diversi supporter di Trump che, nonostante tutto, continuano a crede al sogno MAGA


di Luisa Foti

La durissima politica migratoria messa in atto da Donald Trump sta colpendo non solo i suoi

detrattori, ma anche molti tra coloro che lo hanno votato e continuano a sostenerlo. Il cappellino

rosso con l’acronimo MAGA, simbolo della fedele appartenenza alla comunità dei tifosi sfegatati

del presidente degli Stati Uniti, non è sufficiente a proteggere le persone migranti che soggiornano

illegalmente negli States – ma, in alcuni casi, anche legalmente – da una possibile deportazione

nel proprio paese di origine o in paesi terzi.

Nonostante alcune corti distrettuali di livello federale stiano provando a bloccare le politiche di

Trump perché considerate incostituzionali, la macchina dell’ICE (Immigration and Customs

Enforcement), non risparmia nessuno.

Dopo aver potenziato la sua azione attraverso nuovi fondi, tanti arresti giornalieri e blitz sui luoghi

di lavoro, la controversa agenzia federale statunitense, responsabile del controllo della sicurezza

delle frontiere e dell’immigrazione – in sintesi, la polizia dell’immigrazione – si è scatenata anche

contro i migranti residenti negli Usa e sostenitori di Trump, attraverso una sorta di paradossale

effetto boomerang: mamme, lavoratori, finanche cittadini naturalizzati americani, sono tutti finiti nel

mirino di una politica identitaria che ha travolto proprio coloro che l’hanno alimentata.

Nonostante la brutta sorte loro toccata, alcuni continuano a sostenere Trump manifestando una

fiducia incondizionata nel capo come fa, Arpineh Masihi: mai avrebbe immaginato che gli agenti

dell’ICE il 30 giugno si sarebbero davvero presentati a casa sua per portarla via.

La donna, 39 anni, mamma MAGA di tre figli, ha dichiarato ai microfoni della BBC di essere ancora

una supporter del Presidente: «Lo sosterrò fino al giorno della mia morte. Sta rendendo di nuovo

grande l'America», ha detto dal centro di detenzione per migranti di Adelanto, nel deserto del

Mojave in California, famoso per le dure condizioni simili a quelle carcerarie.

Di origini iraniane, negli Stati Uniti Masihi aveva avuto una seconda possibilità, dopo essere stata

condannata nel 2017 per furto con scasso e furto aggravato a due anni di prigione, con

conseguente revoca della Green Card, il famoso permesso di soggiorno permanente.

Tuttavia essendo parte della minoranza cristiano-armena in un Paese a maggioranza sciita, il

giudice le aveva riconosciuto il diritto di restare negli Stati Uniti, evitando così la deportazione in

Iran. Ed è proprio questa la principale preoccupazione dei familiari: Masihi si dice sicura che una

cosa del genere non possa accadere, anche se, come ricorda il Washington Post, una sentenza

della Corte Suprema ha spianato la strada a una tale eventualità.

C’è anche Camila Muñoz tra gli arrestati dall’ICE. Suo marito, Bradley Bartell, dice di non essersi

pentito di aver votato per Trump perché, a suo dire, il presidente è “una vittima della pessima

politica migratoria ereditata dalle precedenti amministrazioni” e starebbe solo cercando di

migliorare il sistema, facendo emergere quanto sia corrotto.

La Muñoz di origini peruviane, alla quale era scaduto il visto per motivi di studio e lavoro all'inizio

della pandemia, stava cercando di ottenere la residenza permanente negli Stati Uniti quando è

stata fermata.

Uno dei casi più eclatanti riguarda Jensy Machado, 38 anni, cittadino naturalizzato statunitense di

origini peruviane. Mentre stava andando a lavoro, l’uomo è stato fermato da agenti dell’ICE che

hanno estratto le armi circondando il suo furgone. A differenza dei due casi precedenti, Machado

ha però messo in discussione il suo sostegno a Trump, sollevando accuse circa una profilazione

razziale degli arresti: «Ero un sostenitore di Trump. Ho votato per lui alle ultime elezioni perché

pensavo che avrebbe agito solo contro i criminali e non contro tutti gli ispanici».

Sta facendo discutere anche il caso di un cittadino iraniano di cui ha parlato il Phoenix New Times,

testata locale indipendente e progressista: Mezhrad Asadi Eidivand, 40 anni, residente a Tempe,

in Arizona, è stato arrestato alla fine del mese di giugno per il possesso illegale di un’arma da

fuoco, pochi giorni dopo il bombardamento americano delle basi iraniane.

L’uomo è stato fermato dal Dipartimento della Sicurezza Interna (DHS) nella sua casa insieme alla

moglie, cittadina statunitense. Durante l’udienza per la convalida dell’arresto, l’avvocata d’ufficio

Debbie Jang lo ha definito un “ateo anti-musulmano” che ha cercato di restare negli States solo

per evitare di rischiare la vita tornando in Iran, nonostante pendesse su di lui un ordine di

espulsione. Eidivand si è sempre dichiarato un grande fan di Trump e della sua politica migratoria,

essendo però ben consapevole che tale politica lo avrebbe potuto danneggiare direttamente.

Molte comunità si dicono sconvolte dall’ondata di arresti indiscriminati: è successo nella cittadina di

Kennett, in Missouri, i cui abitanti, pur essendosi dichiarati favorevoli alle politiche trumpiane

sull’immigrazione, sono rimasti turbati dalla deportazione di una donna, Ming Li Hui, cittadina di

Hong Kong – per tutti Carol – reputata una brava persona e una buona mamma, la quale, pur non

avendo mai commesso alcun reato, non era in regola con la legge sull’immigrazione.

Le ultime statistiche dell'ICE, aggiornate al 29 giugno 2025, mostrano che delle 57.861 persone

detenute, 41.495 (e cioè il 71,17% del totale), non hanno riportato condanne penali. Questo dato è

ulteriormente rafforzato da un elemento: a ogni persona viene attribuito un indice di pericolosità.

L'84% delle persone detenute nelle 201 strutture dell’ICE non ha ricevuto nessun livello di

minaccia.

Si tratta quindi di persone che, nella stragrande maggioranza dei casi, non hanno commesso reati,

e questo contraddice quanto da sempre dichiarato da Trump, ossia che avrebbe deportato il

“peggio del peggio”.

Il nodo della questione è proprio questo: si è accettato che bastasse definire una persona come

“criminale” per legittimare qualsiasi misura da parte del governo, compresa la deportazione, anche

a costo di calpestare diritti fondamentali. Deportare migranti in quanto colpevoli della commissione

di un crimine non era accettabile nemmeno prima; oggi, che a essere perseguiti sono anche gli

innocenti, è ancora più chiaro quanto fosse pericolosa quella logica, nonché contraria alle regole

generali dello Stato di diritto.

mercoledì 9 luglio 2025

Ritrovato il nipote numero 140, l’annuncio delle Abuelas de Plaza de Mayo

Si tratta del figlio di Graciela Alicia Romero e Raúl Eugenio Metz, due attivisti del Partito rivoluzionario dei lavoratori rapiti nel dicembre 1976

Per tutta la vita, Adriana Metz ha cercato suo fratello senza mai smettere di credere che un giorno lo avrebbe incontrato. Pochi giorni fa, ha potuto finalmente abbracciarlo, restituendo senso a una ricerca durata più di quarant’anni.
Adriana non aveva mai conosciuto suo fratello perché era stato rapito dal regime argentino di Videla dopo che sua madre, Graciela Alicia Romero, lo aveva dato alla luce nel 1977, in un centro di detenzione dove era clandestinamente reclusa a causa del suo attivismo politico.

Il fratello di Adriana è uno dei cinquecento nipoti sottratti alle loro legittime famiglie biologiche, nonché l’ultimo ritrovato in vita al quale è stato possibile restituire un’identità, e una storia.  

L’annuncio del ritrovamento arriva il 7 luglio dalla pagina Instagram delle Abuelas del Plaza de Mayo, le attiviste simbolo della lotta contro il regime che hanno dedicato la loro esistenza alla ricerca dei nietos apropiados: l’uomo è il nipote numero 140. E anche se ne mancano ancora centinaia all’appello bisogna festeggiare, poi si penserà agli altri perché “la identidad florece siempre”, come scritto dalle nonne attiviste con una fiducia nella verità e nella giustizia che dura da 47 anni.

Estela de Carlotto, presidente delle Abuelas, entra trionfante e colma di gioia nella sala dedicata alla conferenza stampa convocata all’Esma, il centro clandestino di detenzione e tortura di Buenos Aires, simbolo del terrorismo di stato, dove vennero tenuti in arresto, torturati, e fatti sparire la maggior parte degli oppositori politici del regime. Il centro è attualmente la sede della Casa por la Identidad e rappresenta la rinascita e la difesa della memoria di quel periodo terribile della storia argentina, a cavallo tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80, nonostante un certo negazionismo stia cercando di riscrivere una parte di quella vicenda.

Accanto alla presidente ci sono anche Manuel Gonçalves Granada, segretario esecutivo della Commissione nazionale per il diritto all’identità (CoNaDI), e Adriana Metz che non sta nella pelle dalla felicità: «Anche se ho sempre lavorato per trovarlo, non mi ero mai immaginata come sarebbe stato quel giorno. Grazie alle Abuelas per averci insegnato che la ricerca è collettiva e che dobbiamo continuare per quei trecento nipoti che mancano a tutti noi».

Chi erano Graciela Alicia Romero e Raúl Eugenio Metz, i genitori del nieto 140
Il nipote ritrovato – che ha avuto modo di incontrare sua sorella Adriana, ma che non si è ancora presentato alla stampa per motivi di privacy – era figlio di Graciela Alicia Romero e Raúl Eugenio Metz, militanti del Partito rivoluzionario dei lavoratori; nell'ottobre 1975 i due avevano avuto Adriana, la loro primogenita.
Raúl, che lavorava nelle ferrovie a Bahía Blanca, aveva subito un primo tentativo di rapimento sul posto di lavoro che lo aveva spinto a trasferirsi con la famiglia a Cutral Có, in provincia di Neuquén, dove aveva trovato lavoro in una ditta edile.

Il sequestro
Il 16 dicembre 1976 un gruppo d’azione composto da esercito e polizia di Neuquén fece irruzione nella casa dei due attivisti. Raul e Graciela vennero sequestrati. In quel momento, Graciela era incinta di cinque mesi. Da quanto risulta, la donna avrebbe partorito il 17 aprile 1977 presso l’Escuelita di Bahía Blanca, il centro clandestino dove era detenuta; il bambino le sarebbe stato sottratto con violenza e dato in adozione.

La desaparicion degli oppositori politici e il rapimento dei nietos
Il fratello di Adriana si aggiunge agli altri 139 casi di nietos restituidos di cui si appropriò la giunta militare insediatasi con un colpo di stato il 24 marzo 1976 e che si rese responsabile di una delle più grosse e sistematiche violazioni dei diritti umani: decine di migliaia di attivisti politici vennero rapiti, imprigionati in maniera clandestina, torturati e fatti sparire. Si contano circa 30mila desaparecidos, persone scomparse il cui corpo, in molti casi, non è stato mai ritrovato, e cinquecento bambini rapiti.

Così come accaduto a Graciela Alicia Romero, le attiviste incinte subivano la sorte più crudele: tenute in vita fino al parto, i loro figli venivano dati in affidamento ad altre famiglie – in alcuni casi proprio alle famiglie degli stessi torturatori –, grazie a false attestazioni di nascita; poi, le madri venivano uccise nei famosi “voli della morte”, la pratica di sterminio che prevedeva di eliminare gli oppositori politici lanciandoli, spesso ancora vivi, nelle acque del Río de la Plata o dell’Atlantico.

Gli attacchi alle associazioni che si battono per la verità e la giustizia 
L’ultimo ritrovamento s’inserisce in un contesto sociale difficile, scandito da tagli ai finanziamenti destinati alle associazioni che si battono per la tutela dei diritti umani, e continui attacchi alle politiche per la verità e la giustizia da parte di Javier Milei. Il presidente argentino è apertamente un negazionista della dolorosa vicenda storica che ha portato alla sparizione forzata di decine di migliaia di persone.

Di recente, le Abuelas hanno denunciato il commissariamento del Banco nazionale dei dati genetici (BNDG), deciso da Milei per ostacolare il riconoscimento delle origini dei bambini sottratti dalla dittatura. E questa è soltanto l’ultima di una serie di azioni contro la memoria, come lo smantellamento della Commissione nazionale per il diritto all’identità e, in particolare, proprio dell’unità speciale che aveva accesso agli archivi statali.

Mancano ancora 300 persone all’appello
«Con il ritrovamento del nipote 140 confermiamo ancora una volta che i nostri nipoti sono tra noi e che, grazie alla perseveranza e al lavoro costante di questi quarantasette anni di lotta, la verità verrà alla luce», ha concluso Estela de Carlotto ricordando che mancano all’appello ancora 300 persone.

 





martedì 1 luglio 2025

Cuba, proteste contro il Tarifazo

Gli studenti scendono in piazza contro l’“apartheid digitale”, l’aumento delle tariffe  internet deciso dalla monopolista Etecsa. Il governo fa concessioni, ma partono denunce e la repressione si fa sentire

di Luisa Foti

A Cuba internet è una questione di classe che separa chi può permetterselo da chi ne è tagliato fuori per i costi esorbitanti delle nuove tariffe: il 30 maggio sono entrate in vigore le nuove offerte per accedere al web annunciate da Etecsa, l’azienda che detiene il monopolio delle telecomunicazioni.

Da strumento per comunicare, studiare, lavorare e mantenere i contatti con il mondo esterno in un Paese sempre più isolato e colpito da una profonda crisi economica, internet è improvvisamente diventato un lusso per la maggior parte dei cubani. 

I nuovi pacchetti prevedono costi di connessione altissimi, un tetto alle ricariche in valuta nazionale, e nuove offerte in dollari accessibili solo a chi dispone di valuta estera: in particolare, il costo per 15 giga di internet supera gli 11mila pesos cubani, l’equivalente di due stipendi medi a Cuba. Le ricariche in moneta nazionale sono limitate a 360 cup al mese per 6 giga: si tratta di una soglia minima superata la quale le ricariche devono essere effettuate in valuta estera o a prezzi altissimi in cup.

Dopo l’annuncio dei rincari, studenti e professori si sono opposti alla decisione del governo: le proteste sono esplose tra i corridoi della facoltà di matematica dell'università dell'Avana e si sono estese in tutto il Paese. Gli universitari hanno organizzato scioperi e boicottaggi delle lezioni, hanno chiesto la revoca delle nuove tariffe e un dialogo con le autorità.

Come si legge dal quotidiano indipendente online 14ymedio, a Cuba non si vedeva una tale indignazione dal 2021, quando il governo aveva soppresso il cuc – il peso convertibile in dollaro – lasciando in circolazione solo il cup, la moneta non convertibile sul mercato internazionale, in un contesto già reso difficile da crisi economica, pandemia e carenza di beni essenziali. La misura aveva contribuito a un’impennata dell’inflazione, aggravando le condizioni di vita e rendendo ancora più difficile accedere a prodotti venduti solo in valuta estera.

Nemmeno gli apagones – i continui blackout –, né la mancanza di medicinali o di cibo erano riusciti a smuovere le proteste. Limitare l’accesso a internet ha avuto un impatto profondo nelle coscienze degli studenti: rendere il web praticamente inaccessibile impedisce di avere uno spazio di libertà di cui i cubani necessitano per esercitare i loro diritti fondamentali, oltre a costituire un grosso danno economico per tutte le aziende che si basano sempre più su tecnologia e trasformazione digitale.

In seguito alle proteste contro quello che è stato definito un regime di “apartheid digitale”, il governo cubano ha fatto un piccolo passo indietro: Tania Velázquez Rodríguez, vicepresidente di Etecsa, che si era inizialmente difesa definendo l’aumento come una “misura necessaria”, ha annunciato alcune eccezioni in favore di studenti e altri settori durante il programma radio-televisivo Mesa Redonda. Secondo le nuove tariffe agevolate, gli studenti potranno accedere a pacchetti fino a 12 giga a un costo di 720 cup, rispetto a quanto invece previsto per gli altri piani, e cioè 15 giga a circa 11mila cup. Le università e il settore sanitario avranno accesso gratuito a internet. 

I costi, però, rimangono elevati per molti studenti, e la differenza di trattamento tra categorie di cittadini rischia di accentuare le disuguaglianze nell’accesso alle risorse digitali; e infatti, le aperture del governo non sono bastate: un gruppo di studenti di giurisprudenza dell'università di Holguín, capoluogo dell’omonima regione situata nella parte orientale dell’isola, ha presentato una denuncia accusando l’azienda di violare i termini contrattuali e i diritti costituzionali, in particolare il diritto all’informazione e all’educazione. 

Uno degli universitari promotori della denuncia contro Etecsa, René Javier, ha pubblicato sulla sua pagina Facebook la denuncia in cui definisce l’aumento unilaterale delle tariffe una misura classista e contraria al diritto. 

Secondo i denuncianti, la decisione di Etecsa tradisce gli ideali della rivoluzione per aprirsi alla “crescente dollarizzazione dell’economia cubana”, oltre ad aggravare il divario tra i vari settori della società in cui nessuno percepisce lo stipendio in dollari o in altra valuta straniera. 

La Feu (federazione studentesca universitaria) che ha sempre avuto una posizione più vicina al governo e che non ha voluto sostenere la denuncia, ha diffuso un comunicato per invitare tutti alla calma e a trovare soluzioni per l’intera comunità. Per dare seguito alle dichiarazioni, la federazione ha promosso la creazione di un gruppo di universitari incaricato di interfacciarsi con Etecsa per individuare soluzioni. L’iniziativa però appare più come un gesto simbolico dal momento che l’azienda ha già escluso ogni ulteriore revisione delle misure adottate. Gli studenti della facoltà di storia e filosofia dell’università dell’Avana hanno chiesto le dimissioni del portavoce della Feu, Ricardo Rodríguez González, giudicato non più in grado di rappresentare i veri bisogni degli universitari nella crisi del tarifazo, come è stato ribattezzato il discusso rincaro delle tariffe internet.

Il Presidente Miguel Díaz-Canel ha dichiarato che “i nemici della Rivoluzione” intendono manipolare l’opinione degli studenti universitari sulle recenti misure adottate da Etecsa, con l’obiettivo di promuovere il sovvertimento dell'ordine pubblico a Cuba; ha poi lodato organizzazioni come la Feu e l'unione dei giovani comunisti che, a suo dire, avrebbero manifestato pacificamente la loro disapprovazione. 

Nei giorni successivi, il governo ha avviato le prime misure repressive: come si apprende dalla pagina Facebook dell'Osservatorio per la libertà accademica, agenti in abiti civili si sono presentati nei campus per sottoporre diversi studenti a interrogatori in quanto accusati di controrivoluzione e di essere sostenuti da agenti esterni per sovvertire il regime cubano.

In un video diffuso dall’Osservatorio una ragazza racconta che alcuni funzionari del DTI, uno degli organismi di repressione del dissenso più temuto sull’isola, si sono presentati a casa sua senza preavviso per intimidire la sua famiglia.

Intanto accademici, artisti, giornalisti e intellettuali cubani hanno condiviso una lettera per supportare le proteste studentesche. “Per la prima volta dopo decenni – si legge – gli studenti cubani, onorando le antiche tradizioni repubblicane (…) hanno alzato la voce contro gli abusi (...). Questo li ha resi obiettivi della macchina repressiva del regime, che ha già avviato una campagna di manipolazione informativa”.

L’appello finale è rivolto alla comunità internazionale: “Difendete studenti e professori” contro “possibili persecuzioni come quelle impiegate durante le proteste di luglio 2021, per le quali centinaia di persone sono ancora in prigione”.



El Funky, il rapper trumpiano che ha rischiato di essere deportato a Cuba

L’artista smentisce chi lo accusa di non essere un vero oppositore del regime castrista e continua a credere nel sogno americano: «Ho fiducia in questo governo»

di Luisa Foti

“Ho 30 giorni per lasciare il paese altrimenti sarò deportato. Chiedo aiuto a tutti i miei fratelli cubani che conoscono il mio percorso anticomunista e ai membri del Congresso di questo Paese. Oggi più che mai ho bisogno del vostro sostegno”.

L’8 maggio scorso sulla sua pagina Instagram, El Funky, rapper e oppositore politico del regime cubano residente negli Stati Uniti dal 2021, pubblica una richiesta di aiuto: secondo la nuova e durissima politica migratoria statunitense, l’ufficio per la cittadinanza e l’immigrazione gli ha rigettato la richiesta di residenza permanente.

Tantissimi i commenti al post: in molti lo attaccano per aver supportato l’attuale presidente repubblicano – “Hai votato Trump, ora tieniti Trump!” – ma arrivano anche i messaggi di sostegno e solidarietà. Tutti insistono su un punto: El Funky, in quanto dissidente del regime castrista, non può essere deportato perché rischierebbe la vita: «È la cosa peggiore che gli possa capitare», spiega in un video un supporter dell’artista, mentre fa un appello, tra gli altri, a María Elvira Salazar, parlamentare repubblicana, figlia di esuli cubani e vicina alla causa del rapper, e Marco Rubio, il Segretario di Stato Usa con radici familiari nell’isola, il quale, però, non ha ritenuto opportuno schierarsi dalla parte del rapper.

Prima di arrivare in America, El Funky era diventato uno degli artisti di punta del movimento di opposizione al regime. La sua storia personale riflette quella di tanti cubani, tra repressione, fuga, speranza ed esilio in Florida.

Eliecer Márquez Duany si fa chiamare El Funky dai tempi in cui da adolescente faceva rap nelle peñas dei quartieri popolari dell’Avana. È nato proprio nella capitale negli anni ’80 e ha scritto il suo primo brano a 16 anni, mischiando il rap alla musica cubana di gruppi come La Charanga Habanera e Los Van Van. Nel 2014 pubblica il suo primo album, The Zombie Flow, e con il tempo si distingue come artista critico nei confronti del governo castrista, fino a diventare membro del Movimento San Isidro, dal nome del quartiere dell’Avana in cui il gruppo si è formato. Si tratta di un collettivo di artisti, giornalisti e intellettuali nato per protestare contro il famoso Decreto 349, la legge che impone l’autorizzazione preventiva del Ministero della Cultura per qualsiasi attività artistica.

Nel 2021 il movimento dà vita alle più grandi proteste contro il regime degli ultimi trent’anni: El Funky, insieme a Maykel Castillo Pérez – più conosciuto come El Osorbo, attualmente detenuto a Cuba proprio in seguito a quelle proteste – Yotuel, Gente de Zona e Descemer Bueno, registra Patria y Vida, un brano che supera il mezzo milione di visualizzazioni in meno di settantadue ore, vince due Latin Grammy e ottiene risonanza internazionale. Il titolo della canzone diventa lo slogan delle proteste ed è una rivisitazione dello storico motto Patria o Muerte in chiave contemporanea: la congiunzione avversativa “o” viene sostituita da una “y” inclusiva; non si nega l’amore per la patria, ma si afferma che la vita ne ha lo stesso valore. “No más mentiras, mi pueblo pide libertad… Ya no gritemos ‘Patria o muerte’ sino ‘Patria y Vida”.
Dopo il successo ottenuto, El Funky lascia Cuba nel 2021 per partecipare alla cerimonia dei Grammy; uomini del regime lo seguono fino all’aeroporto e lo minacciano: «Ti conviene andartene e non tornare più». Dopo la premiazione si rifugia a Miami dove vive tuttora con la famiglia e lavora come addetto alla manutenzione in una scuola elementare. E, nonostante le attuali dure politiche migratorie, soprattutto verso i cittadini latinoamericani, El Funky ha sempre sostenuto il presidente statunitense: «Se avessi potuto votare, avrei votato per Trump. È il presidente più forte quando si tratta di Cuba».

«Probabilmente ci sono troppi cubani qui», ha spiegato di recente dopo l’apertura del caso della sua residenza negli Stati Uniti: «Capisco il tentativo di allontanare chi non ha diritto a restare, ma Trump dovrebbe valutare ogni singolo caso». Con queste parole ha provato a rivendicare la sua posizione, sostenendo di essere uno dei pochi a meritare l’asilo politico in quanto vero anticomunista; a suo dire, la maggior parte dei cubani presenti nel Paese sarebbero invece migranti economici, privi di reali motivi politici per restare.

E c’è chi però insinua che El Funky non sia un vero oppositore castrista, come fa Alain Paparazzi Cubano, un influencer molto seguito su YouTube: il diniego di residenza permanente fatto in base al Cuban Adjustment Act sarebbe collegato ai piccoli reati commessi sull’isola nel 2017, come il possesso di stupefacenti; ma soprattutto, secondo l’influencer, il rapper non sarebbe un vero dissidente. El Funky si difende pubblicando un altro messaggio sul suo account social per contestare le accuse infamanti. Molti rilanciano accusandolo di non essere parte del Movimento di San Isidro: lui risponde con un video in cui incita i manifestanti cantando Patria y Vida durante le proteste antiregime del 2021.

Il 25 maggio 2025 il rapper pubblica l’ultimo messaggio di questa vicenda per rassicurare tutti: “Il caso della mia residenza è stato riaperto”, scrive, precisando di avere molta fiducia nell’amministrazione Trump e nella possibilità di regolarizzare la sua presenza negli States.
Con il supporto di un nuovo team legale, El Funky deve ora decidere come procedere: nel 2021, arrivato negli stati Uniti, i suoi precedenti avvocati gli avevano consigliato il richiedere il parole humanitario CHNV – il permesso attivato da Biden per tutti i cittadini di Cuba, Haiti, Nicaragua e Venezuela – perché più rapido rispetto alla richiesta di asilo; in seguito al parole, avrebbe potuto richiedere la residenza permanente, grazie al Cuban Adjustment Act. Tuttavia, soltanto l’asilo politico gli avrebbe garantito una protezione più solida contro il rischio di deportazione in quanto dissidente. 

Come fa sapere nella sua pagina Instagram, i suoi nuovi avvocati si sono attivati per chiedere l’asilo politico e, in ogni caso, per impedire che il suo ritorno in patria lo esponga al rischio concreto di un regime carcerario duro, sorte toccata al coautore di Patria y Vida, El Osorbo, detenuto presso il carcere di massima sicurezza dedicato agli oppositori politici Kilo 5 y Medio, nella regione di Pinar del Río.

Sono già trascorsi oltre trenta giorni dal post pubblicato l’8 maggio: El Funky è ancora negli Stati Uniti. Viene da chiedersi se abbia messo in dubbio il suo sostegno a Trump, anche solo per un istante.

Intanto, il caso del rapper non è l’unico: Human Rights Watch ha esortato il governo statunitense a garantire la permanenza negli States di altri oppositori per evitare che, una volta deportati a Cuba, subiscano le conseguenze dell’apparato repressivo castrista.

venerdì 30 maggio 2025

Viaggio a Cuba a quasi dieci anni dalla morte di Fidel

La vita dei cubani tra embargo, la crisi economica, il blackout, l’effetto Trump e la repressione del dissenso

Seduto su un pezzo di cartone appoggiato sui gradini di una bodega dell’Avana vecchia, un uomo attende il suo turno di razionamento, o forse aspetta di annoiarsi in un’altra giornata che sembra uguale a tutte le altre; ha un volto emaciato, ma lo sguardo è rimasto fiero.
La gente attende il suo turno per mangiare: c’è stanchezza e 
rassegnazione, decadenza e voglia di riscatto.

I colori un tempo luminosi degli edifici dell’Avana vecchia sono sbiaditi. Spesso non rimangono che brandelli di palazzi dilaniati dagli anni di sofferenza: se ne vedono molti in rovina e parzialmente crollati, come se una guerra silenziosa avesse annientato le cose e le vite. In giro, alcuni cani randagi e molte auto d’epoca: scintillanti Chevrolet Bell Air e Cadillac Series 62 circolano insieme ad automobili sovietiche anni ‘80 dallo stile più essenziale; rari i modelli contemporanei cinesi e sudcoreani. 

I pochi turisti sono presi d’assalto da chi cerca qualcosa per sopravvivere: le persone non chiedono soltanto soldi ma anche saponette e vestiti; ogni tanto del cibo. Poca gente si vede camminare per le strade in cui la propaganda del regime sembra rimasta a sessant’anni fa: i volti del Che e Cienfuegos provano a ricordare che la revolución è ancora in atto, o almeno dovrebbe: in questa situazione, però, è difficile dire che cosa resta di quel periodo.

Restano i sogni di un paese che, per almeno trent'anni, ha trasformato un'utopia in realtà perché la rivoluzione cubana non è stata soltanto promessa, ma costruzione quotidiana – spesso però accompagnata dalla repressione del dissenso, ritenuta dall’apparato l’unico mezzo per difendere l'ideale rivoluzionario e impedirne l'implosione; resta un’isola che ha sfidato il mondo in nome dell'uguaglianza e della giustizia sociale, ideali che si sono dissolti, lasciando un paese incapace di garantire quei diritti che un tempo aveva difeso con la radicalità del motto patria o muerte.

La rivoluzione è stata l’unica religione di Stato in cui i cubani hanno creduto. Oggi, nei volti stanchi di chi passeggia lungo il Malecón dell’Avana o sosta ai bordi delle bodegas, si riflettono quegli stessi sogni, ma ormai spezzati, soprattutto dopo la scomparsa di Fidel Castro.

Dal 25 novembre 2016, giorno della morte del líder, sono trascorsi otto anni e mezzo. Da allora, Cuba ha dovuto fare i conti con la sua assenza, le conseguenze di un embargo ingiusto che dura da sessantatre anni, e una delle peggiori crisi economiche degli ultimi decenni: nel 2024 il PIL ha registrato un nuovo calo del 4% dopo il -1,9% dell’anno precedente, come ha dichiarato l’economista cubano Omar Everleny Pérez in un’intervista alla Reuters; a questo si aggiunge un’inflazione al 20% che, sebbene in lieve diminuzione, continua ad aggravare la vulnerabilità economica delle famiglie. 

Il turismo, settore strategico per l’isola, segna una riduzione del numero di visitatori del 7,9% nel 2024, secondo i dati diffusi dall’Istituto statistico di Cuba, anche a causa dei blackout che sono diventati ormai una condizione abituale, con interruzioni che arrivano anche fino a venti ore al giorno in diverse province.

Nonostante la Costituzione del 2019 rappresenti un significativo passo avanti sul piano delle conquiste sociali – avendo, tra le altre cose, costituzionalizzato i diritti sessuali e riproduttivi delle donne, e permesso la legalizzazione del matrimonio tra persone dello stesso sesso – la situazione sul fronte dei bisogni primari resta drammatica: oggi per le strade dell'Avana si vedono code interminabili per il pane e le medicine. La libreta de abastecimiento, la tessera statale che permette di acquistare generi di prima necessità a prezzi agevolati, come riso, fagioli, un po’ di pollo e prodotti per l’igiene personale, non riesce a soddisfare completamente il fabbisogno delle famiglie, spingendo i cubani – ma solo quelli che se lo possono permettere – a rivolgersi al mercato libero o nero a prezzi altissimi.

L'Avana appare come una capitale decadente e quasi sventrata, dove malinconia e rassegnazione si mescolano alle note della musica caraibica. Eppure, ciò che resiste è la dignità: «Per me Cuba è dignità. Nonostante tutti i problemi che abbiamo, io amo il mio paese. Noi cubani diciamo che possiamo parlare male di Cuba soltanto tra di noi, ma non con gli altri», scherza Aracelys una donna di mezza età che gestisce una casa particular nel quartiere Vedado dell’Avana e racconta del suo attaccamento al líder: «Da quando è morto Fidel è cambiato tutto. Le sue parole erano magia, tutti i cubani lo ascoltavano. Io sono nata nel 1967 e posso dire che non c’è mai stato un momento di difficoltà – e a Cuba ce ne sono stati tanti – in cui Fidel non abbia trovato una soluzione, mai. Con la sua assenza ci è mancato il punto di riferimento, ci è mancato un padre, un’ispirazione».

L’effetto Trump
Non tutti hanno amato Castro e la revolución come Aracelys: in questi oltre sessant’anni soprattutto dopo il crollo dell’Unione Sovietica, quasi tre milioni di cubani hanno lasciato l’isola in direzione Stati Uniti nella maggior parte dei casi. Da qualche mese, però, questa via d’uscita non è più disponibile: Donald Trump ha avviato una delle più dure politiche migratorie degli ultimi decenni, revocando il parole humanitario, il programma introdotto durante la presidenza Biden che consentiva ai cittadini di Cuba, Haiti, Nicaragua e Venezuela di entrare negli States con un permesso temporaneo di due anni, a condizione che avessero uno sponsor finanziario che garantisse il loro sostentamento economico. Con la revoca di questa misura, non solo non sarà più possibile entrare negli Usa ma migliaia di cubani rischiano l’espulsione o saranno costretti a lasciare il paese.
Secondo i dati del Dipartimento della sicurezza interna americana, nel mese di febbraio 2025 solo 150 cubani sono riusciti a raggiungere gli Stati Uniti. A marzo il numero è sceso a 132; ad aprile a 130. Un crollo dei dati impressionante se messo a confronto con i mesi precedenti: 6.295 sono gli arrivi registrati a gennaio 2025 e 8974 a dicembre 2024, con una riduzione degli ingressi pari al 98% circa. Appena un anno prima, ad aprile 2024, il numero di cubani entrati negli Stati Uniti aveva toccato quota 17.873.

Nonostante tutto, il desiderio di raggiungere l’America resta forte, anche tentando rotte considerate illegali, come racconta, a proposito di suo figlio, Migdalia, una donna di circa sessant’anni, custode del Museo storico di Playa Girón, luogo della fallita operazione militare americana del 1961, ricordata come l’invasione della Baia dei Porci, anche se per i cubani sarà sempre il simbolo della loro vittoria contro l’imperialismo statunitense.
Migdalia è un’impiegata statale e guadagna quasi 6.000 pesos al mese, l’equivalente di circa 15 euro al cambio informale. «Mio figlio è bloccato in Messico. Ho paura di non rivederlo più», racconta in lacrime. «È lì con mia nuora e mio nipote. Sono arrivati in Messico passando dal Nicaragua, speravano di attraversare il confine e iniziare una nuova vita, ma ora sono fermi, bloccati. Non so cosa ne sarà di loro».


Stop al bloqueo

Stop al bloqueo: così si legge sui muri dell’Avana, ma anche in città come Cienfuegos o Santa Clara. Quello che i cubani chiamano bloqueo è un embargo economico totale in vigore da oltre sessant’anni, con cui gli Stati Uniti tentano di piegare il regime. Una misura che, oltre a violare il principio di non ingerenza negli affari interni, ha avuto un impatto devastante sulla popolazione, impedendo l’accesso a medicine, carburante e alimenti.
Nell’ottobre 2024, l’assemblea generale dell’Onu ha votato ancora una volta per la sua revoca: tutti gli stati si sono espressi a favore, tranne gli Stati Uniti – che continuano a imporre la misura con ostinazione – e Israele. Il ministro degli esteri cubano Bruno Rodríguez ha definito l’embargo un “atto di guerra in tempo di pace”, in quanto viola i diritti fondamentali alla vita, alla salute e all’istruzione. Secondo i dati diffusi dallo stesso ministro, i danni causati ammonterebbero a oltre 1.499 miliardi di dollari. Yusimara, 41 anni, guida turistica, non ha dubbi: «Se potessi esprimere un desiderio, fermerei l’embargo: è una condanna economica ma anche esistenziale. Qui viviamo come in un dopoguerra infinito. Con Obama avevamo sperato nel cambiamento, poi è tornato tutto come prima con Trump e Biden. E gli Stati Uniti di oggi mi fanno paura».
«Per essere un Paese del terzo mondo stiamo bene però dobbiamo ricordarci chi siamo, non possiamo competere con l’Occidente. Lo stop all’embargo sicuramente cambierebbe tutto».   


L’incubo dei cubani: gli apagones

Da diverso tempo, a rendere ancora più difficile la vita a Cuba ci sono gli apagones, i blackout sia programmati sia improvvisi: i cubani vivono il disagio quotidiano della sospensione dell’energia elettrica che dura diverse ore al giorno. Risale all’ottobre 2024 uno dei più lunghi blackout della storia di Cuba: dal 18 al 22 ottobre, a causa di un guasto alla centrale termoelettrica Matanzas, la più grande del Paese, 10 milioni di persone rimasero senza elettricità.
Attualmente i blackout si sono moltiplicati fino ad arrivare alla sospensione quotidiana dell’energia elettrica per più ore al giorno. Le interruzioni sono una conseguenza dello stato delle infrastrutture energetiche ormai obsolete e della scarsità di combustibile proveniente dal Venezuela, paese che vive ormai una crisi profondissima che gli impedisce di sostenere Cuba come un tempo.
«Qui a Cienfuegos manca l’energia elettrica per tante ore al giorno», dice Nirma che porta con sé un cane di piccola taglia che la segue ovunque. Vive insieme alle sue due sorelle, dormono in tre in una sola stanza, le altre due stanze le affittano ai turisti per campare: «Noi ci siamo attrezzati con un generatore di corrente e difficilmente rimaniamo senza energia». Rassegnazione e spirito di sopravvivenza vengono fuori dalle parole della donna che, al di là di tutto, fa parte di quella fetta della popolazione un po’ più fortunata delle altre: il turismo rimane un canale privilegiato per vivere più dignitosamente e ottenere valuta forte come dollaro o euro.


Ferrer e Navarro, prigionieri di coscienza
L’8 maggio 2025 Amnesty International ha lanciato un’azione urgente per chiedere il rilascio immediato dei prigionieri di coscienza cubani José Daniel Ferrer e Félix Navarro Rodríguez, leader del partito di opposizione Unpacu. Il 29 aprile 2025, la Corte Suprema di Cuba ha revocato la loro libertà condizionale, accusandoli di aver violato le restrizioni imposte dopo il rilascio: Ferrer non si sarebbe presentato alle udienze obbligatorie e Navarro si sarebbe allontanato dal proprio municipio senza permesso. I due erano stati scarcerati a gennaio, insieme ad altri 551 detenuti, dopo un accordo che aveva portato gli Stati Uniti a rimuovere Cuba dalla lista dei paesi sponsor del terrorismo; con l’insediamento di Trump, l’isola è tornata nella blacklist.
Ferrer sostiene che il suo arresto sia basato su motivazioni pretestuose e rappresenti una rappresaglia per la sua attività politica e umanitaria. Il provvedimento della Corte, pur appellandosi a violazioni procedurali, fa riferimento ai legami dei dissidenti con l’ambasciata americana e ai loro appelli al disordine, sollevando dubbi sull’imparzialità della decisione.

sabato 1 marzo 2025

Il gaslighting di Trump si fonda sul nomos della terra

L’incontro alla Casa Bianca tra Zelensky e Trump non è solo un disastro diplomatico mai visto, ma è un’umiliazione architettata tramite una tecnica specifica: il gaslighting, e cioè la manipolazione politica e giuridica del presidente degli USA, posta in essere con la complicità di Vance e di tutti quelli che credono che il nomos – ossia la legge, il diritto, la giustizia – debba andare indietro alla sua radice etimologica nemein, che significa in primo luogo “prendere, conquistare”. 

Guardare al diritto attraverso l’atto primigenio della conquista-appropriazione è una visione che nel tempo l’umanità ha provato ad abbandonare, per dare alla legge il compito di limitare la guerra di conquista e le aggressioni alla sovranità e all’integrità territoriale degli Stati; in poche parole, di limitare la legge del più forte fisicamente e militarmente.

Il diritto affonderebbe le sue radici nell’appropriazione (violenta) della terra e ieri, in quell’incontro, Trump e Vance hanno incarnato questa visione, bullizzando Zelensky e calpestando la memoria di tutte le vittime della guerra in Ucraina.

Per capire da dove arriva questa visione del mondo, vi consiglio di leggere Le categorie del Politico di Carl Schmitt e poi –  anzi prima – Diritto e conflitti di Gaetano Azzariti, mio maestro e grande studioso del controverso filosofo tedesco (vedi pp. 282 e seguenti). 

Provate poi a pensare a Gaza: questo stesso paradigma può infatti applicarsi anche alla Striscia e, in generale, alla questione palestinese dalla Nakba in poi, con la cacciata dei palestinesi dalle loro terre.


lunedì 3 febbraio 2025

La ragazza di Deir al-Balah

Al tempo degli accordi incerti sul cessate il fuoco a GazaRita Baroud, studentessa diventata la voce dalla Striscia per la Repubblica, racconta la vita sotto le bombe con la speranza di rinascere dopo oltre 470 giorni di guerra


di Luisa Foti

A Deir al-Balah, nel cuore della Striscia, Rita conta le ore e i minuti che la separano dal cessate il fuoco e da un nuovo inizio, forse di pace o forse un altro inferno, con Gaza quasi completamente rasa al suolo, senza più nulla, se non la terra e le macerie; è una studentessa, dall’inizio della guerra racconta quello che accade nella Striscia per la Repubblica, e desidera continuare a fare la giornalista anche oltre questo conflitto. Rita è nata nel 2002, dopo gli accordi di Oslo, dopo il fallimento del vertice di Camp David e durante la seconda intifada, un anno prima che morisse Yasser Arafatalla fine di un periodo in cui ci si era illusi che la pace tra israeliani palestinesi fosse una prospettiva possibile.

È il 17 gennaio 2025il suo viso spunta all’improvviso sul mio schermo quando finalmente riesce a collegarsi alla videochiamata che avremmo dovuto fare il 15 gennaio: «Non posso – mi aveva detto rimandando di due giorni il nostro incontro – devo scrivere un pezzo per la Repubblica sull’annuncio della tregua»; ha i capelli neri di media lunghezza, la carnagione olivastra, un volto pallidissimdai lineamenti armoniosi. I suoi occhi mi sembrano neri e indossa una tuta dello stesso colore. Si trova all’interno di una stanza molto buia le cui pareti portano i segni più evidenti dei bombardamentis’intravedono crepe, numerosi fori di varie dimensioni, probabilmente causati da proiettili, schegge o frammenti di un'esplosionenon c’è elettricità.
«Dove ti trovi?», le chiedo. 
«Sono a Deir al-Balah»risponde.
«Quella è casa tua?», chiedo ancora.
«In un certo senso, mi trovo nell’appartamento in parte danneggiato dei miei parenti; la mia casa, a nord della Striscia, è stata distrutta nei primissimi giorni dei bombardamenti israeliani, il 9 ottobre 2023».
«Presto», le rispondo. «Molto presto»aggiunge.
«La mia famiglia è stata costretta ad abbandonare il nord qualche giorno prima del grande esodo del 13 ottobre 2023».

«Questa casa a Deir al-Balah dove mi trovo adesso è stata bombardata ma è ancora in piedi e, soprattutto, è meglio delle tende, anche se siamo in diciotto con un solo bagno», dice; sa di essere fortunata perché la maggior parte degli sfollati vive all’interno di tende molto piccole, appena sufficienti per dormire e muoversi.
«Il cessate il fuoco significa molto – mi dice commentando l’accordo annunciato solo due giorni prima – per me e per tutte le persone a Gaza. Ne abbiamo bisogno non solo per gli aiuti umanitari ma anche perché finisca questo genocidio e tutto questo spargimento di sangue. Abbiamo perso molte personeparliamo di più di cinquantamila morti, altri feriti gravemente. Io non so se il cessate il fuoco sarà temporaneo o permanente, ma è importante per tornare a respirare».


L’ACCORDO PER IL CESSATE IL FUOCO
Mentre scrivo, le agenzie hanno appena battuto la notizia: è il 19 gennaio e la tregua è in vigore da pochi minuti. Sono passati due giorni da quanto ho sentito Rita.
Benché Trump abbia provato a intestarsene il merito, l’accordo ricalca in gran parte quello proposto dall’amministrazione Biden.Nessuno sa ancora cosa succederà e quanto dureràTutto dipende dalla volontà delle parti di rispettare gli obblighi reciproci sul rilascio degli ostaggi e dei prigionieri politici palestinesi – che spesso sono al pari degli ostaggi essendo detenuti senza la formalizzazione di un’accusa.
Gli sfollati provano a raggiungere le loro case, anzi quello che ne resta perché più di due terzi di tutti gli edifici di Gaza hanno subito danni, soprattutto nella parte nord, come riporta un'analisi del Centro satellitare delle Nazioni Unite (Unosat).
Nei prossimi giorni sono previsti massicci aiuti umanitari: entreranno circa 600 camion al giorno e tra qualche ora verranno rilasciati anche i primi tre ostaggi.
I primi tentativi di arrivare a una tregua risalgono a novembre 2023, quando il cessate il fuoco era durato appena sette giorni, prima che riprendessero i bombardamenti. Da allora, si sono susseguiti vari tentativi di trovare una soluzione e sono morte 40mila persone.
Questo cessate il fuoco sarebbe dovuto iniziare alle 8.30 e invece è entrato in vigore con quasi due ore di ritardole ultime tredici vittime sono morte a causa di quel ritardo. 

DIARIO DA GAZA
Rita è diventata una preziosa testimone da Gaza per diversi mediainternazionali e ha preso il posto di Sami al-Ajrami sul quotidiano la Repubblica da quando il giornalista palestinese ha lasciato la StrisciaIn questi mesi i pezzi della ventiduenn

hanno raccontato bombardamenti e una crisi umanitaria senza precedenti.
È grazie a persone come lei e Sami al-Ajrami che abbiamo potuto conoscere questo conflitto: oltre ai reporter palestinesi, nessuno ha avuto accesso alla Striscia, se non embedded con l’esercito israeliano; e lingresso a Gaza resterà proibito ancora per molto, almeno fino a quando il cessate il fuoco non sarà definitivo. Sono proprio i giornalisti palestinesi ad aver pagato il prezzo più alto: secondo Reporter Senza Frontiere e la Federazione Internazionale dei Giornalisti, la Palestina è attualmente il luogo più pericoloso al mondo per chi lavora nell’informazione. Nel 2024, oltre la metà dei 104 reporter uccisi a livello globale ha perso la vita a Gaza.

«Mio padre mi aveva detto che alcuni giornalisti erano interessati a ricevere una testimonianza», racconta Rita quando le chiedo della collaborazione con Repubblica.
«Io all’inizio non volevo farlo: pensavo alla mia casa distrutta, agli amici persi e non riuscivo a pensare ad altro. Non avevo nessuna esperienza e non mi sentivo pronta – dice quando mi confessa, ridendo, di aver addirittura fatto una ricerca su Google: “Come essere una brava giornalista” – Poi ho capito che quello che mi stavano chiedevano era un mio dovere: testimoniare».
Nasce così il Diario dalla Striscia. Rita ha talento nella scrittura, sspira a Youmna El Sayed, giornalista egiziana palestinese, corrispondente da Gaza per Al Jazeera, e scrive testimonianze potenticome ha fatto il 16 gennaio, il giorno dopo il primo annuncio del cessate il fuoco, in prima pagina su la Repubblicabambini sono stati i primi: sono saltati fuori e hanno iniziato a correre nei vicoli abbandonati (…) nella Striscia è sgorgata la festa, spontanea, che presto – tra fischi, clacson, trombette e spari in aria  si è trasformata in una lunga trama di contraddizioni. Le persone si sono riversate nelle strade di Deir el-Balah, Khan Younis e Nuseirat come se rispondessero a un appello immaginario che li esortava a rompere il silenzio e la paura”. 
Eppure i bombardamenti non si sono fermati: Mentre tutti attendono con impazienza l’attuazione dell’accordo di cessate il fuoco, le esplosioni a Gaza continuano. È come se il conflitto rifiutasse di finire fino all’ultimo momento (…). Gli attacchi aerei nella sola giornata di ieri hanno provocato oltre 50 morti – scrive di quel giorno diviso tra la speranza e il massacro.


LE COSE CHE SALVANO LA VITA
«I lost myself», mi dice con pochissima voce, come se non volesse più continuare a parlare. Sa bene cosa significa avere ventidue anni a Gaza, con i sogni interrotti: «Ho perso tutto – continua – la mia vita si è fermata. Ho perso amici, ho perso la mia casa, ho perso molto peso, ho perso la mia salute mentale. Sono depressa e, ad essere onesta, non sento più niente, questo sentimento mi sta uccidendo a poco a poco».
Rita ha già vissuto molte guerre prima del 7 ottobre e ha imparato a riconoscere il rumore delle bombe sin da quando era piccola«Te lo giuro, ricordo bene come fosse ieri la mia prima guerra e tutti gli sfollati accolti dalla mia famiglia: avevo solo cinque anni».
«Lo studio mi ha aiutato a non pensare troppo», mi dice quando iniziamo a parlare di cose che salvano la vita: mracconta del progetto che stava portando avanti per l’università di Bologna, e dei suoi studi in lingue sospesi per il conflitto.

Anche la musica l'ha aiutata a resistere: Beethoven è stato un rifugio dal rumore senza sosta dalle bombe, ma anche i libri – come Orgoglio e pregiudizio di Jane Austen e L’ombra del ventodi Carlos Ruiz Zafón.
Pensa anche a tutti i libri finiti sotto le macerie, in particolare quelli dell’iconica libreria del suo amico Samir Mansour: nel 2021 l’esercito israeliano l’aveva bombardata riducendola in macerieera stata ricostruita nel 2022 ed è stata distrutta di nuovo
«Samir Mansour è mio amico, quella era la mia libreria preferita».

RITA E IL FUCILE
Chi avrebbe potuto sciogliere i nostri sguardi, prima che si levasse un fucile?
Rita porta nel suo nome un riferimento poetico e una speranza per il futuro. 
«Da dove viene il tuo nome, da quella poesia?»
«Sì, mio padre è un artista, fece una mostra a Gaza con i suoi dipinti e la intitolò Rita e il fucile», come la poesia che Mahmoud Darwish scrisse per la donna che amava. E non era una donna qualunque, era israeliana e solo qualche anno fa se n’è scoperta la vera identità. Rita era Tamar Ben-Ami, coreografa e ballerina israeliana di origini polacche.
"Write down I am an arab", il documentario della regista Ibtisam Mara’ana Menuhin, racconta non solo del loro amore – poi finito a causa di quel fucile – ma anche di due popoli che pur essendosi sempre odiati hanno anche provato ad amarsi. 
Ci salutiamo con la promessa di risentirci
Le ho chiesto di non perdere la speranza mentre attende che tutto finisca davvero.